di GABRIELLA ALBERTI
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Pubblichiamo la prima parte di un lungo resoconto del «più grande sciopero della storia dell’Istruzione superiore nel Regno unito» che ha avuto luogo in molte università britanniche a marzo e aprile di quest’anno. Gabriella Alberti, che vive e insegna a Leeds, presenta una cronaca politica della lotta, ponendo l’attenzione sulla posta in gioco, i soggetti, le potenzialità e i limiti dello sciopero, e offre allo stesso tempo una riflessione generale sullo sciopero come pratica di insubordinazione e di rifiuto. La protesta negli atenei britannici aveva come obiettivo la contestazione della riforma delle pensioni, che penalizza specialmente i precari e le lavoratrici e i lavoratori migranti per i quali, inoltre, è praticamente vietato scioperare. Come dimostra anche la sua connessione con lo sciopero globale femminista dell’8 marzo, lo sciopero è immediatamente diventato sociale, uscendo fuori dalle mura universitarie, connettendo diversi soggetti e mostrando come l’aziendalizzazione dell’educazione produce precarizzazione e pone un’ipoteca sul futuro di lavoratori e lavoratrici, di studenti e studentesse. L’incapacità del sindacato di fare i conti con le differenze che attraversano la forza-lavoro – ad esempio il mancato sostegno alle rivendicazioni dei migranti o a quella di un aumento generale del salario – e con la crisi della rappresentanza al suo interno rivela la necessità di ripensare l’organizzazione al di fuori delle forme attuali e della loro palese insufficienza. Tuttavia, a occupare la scena è stato l’uso dello sciopero come modo di rifiutare un ricatto sul futuro. Gli scioperanti hanno denunciato come la riforma delle pensioni sottragga loro quote di salario, peggiorando al contempo le condizioni della riproduzione sociale per lavoratrici e studenti. Anche dopo essere stato ufficialmente sospeso, lo sciopero è riuscito a lasciare un segno per molte migliaia di lavoratori e lavoratrici, studenti e studentesse, che per la prima volta si sono resi conto di poter esercitare una forza collettiva. Lo sciopero è stato davvero un «punto di non-ritorno».
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La prima fase del più lungo sciopero della storia dell’istruzione universitaria nel Regno Unito è finita: 14 giorni, distribuiti su 4 settimane, di scioperi sempre più partecipati, per rifiutare la proposta di riforma del sistema pensionistico – chiamato USS – per i docenti e varie figure accademiche. Questo sistema è uno dei pochi nel Paese a mantenere alcune sicurezze in termini di accumulazione di benefit durante la carriera lavorativa e in termini di uguale versamento dei contributi da parte tanto dei lavoratori, quanto dei datori di lavoro. Fino a oggi il sistema ha funzionato molto bene e la sua presunta crisi o non sostenibilità, presentata come motivo della «riforma», è stata messa in discussione da accademici esperti e competenti, anche al di fuori del sindacato.
Le nostre pensioni: possiamo salvarle?
I cambiamenti proposti includevano la fine del sistema basato sui «defined benefits» [indennità prestabilite], cioè un sistema con garanzie finanziarie di accumulazione per gli individui appena andati in pensione, per andare in direzione di un modello basato su «defined contributions» [contributi prestabiliti], dove sostanzialmente il calcolo del valore effettivo della pensione è lasciato in balia delle oscillazioni del mercato finanziario. È stata la prima volta che i quadri del sindacato UCU (University and College Union) si sono presi il rischio di una simile strategia conflittuale programmando due settimane di sciopero (in realtà distribuite lungo un intero mese). Per molti lavoratori dell’istruzione superiore e membri del sindacato questa era una mossa da tempo necessaria da parte del “quartier generale” del sindacato nazionale, vista la continua degradazione delle condizioni nel settore negli ultimi anni, con tagli al salario reale del 14%, calcolati sulla base del tasso di inflazione, l’intensificazione dei ritmi di lavoro, la crescente informalizzazione della forza-lavoro, oltre a un peggioramento della qualità d’insegnamento come risultato dell’aziendalizzazione dell’istruzione superiore, un crescente controllo dei risultati e delle performance e un’indicizzazione della produzione accademica attraverso sistemi come il REF (Research Excellence Framework, Quadro di Eccellenza della Ricerca).
Proprio questi ulteriori motivi di scontento che sono emersi insieme alla questione centrale della sicurezza economica dopo il pensionamento hanno reso il dibattito del 2018 in merito all’USS non solo il più lungo, ma anche il più partecipato di sempre. La ricchezza dello sciopero proviene dalle inattese dinamiche sociali che hanno spronato i campus di tutto il Regno Unito, da Glasgow a Essex, da Leeds a Londra. Lo sciopero ha segnato una rottura rispetto alla lunga apatia che ha seguito l’aumento delle tasse universitarie nel 2010 e all’assenza di solidarietà tra insegnanti e studenti, così come fra docenti e personale amministrativo, e anche fra colleghi che sono rimasti troppo a lungo «tristemente isolati» (per citarne uno dei miei) ed estremamente atomizzati da un sistema che chiede cinicamente l’impossibile: applicare un modello aziendale all’educazione.
Una lotta contro la mercificazione: pensioni dentro, tasse fuori!
Non è scontato che si stabiliscano rapporti politici fra insegnanti e studenti nelle università inglesi aziendalizzate. Leeds Students Support UCU è nato indipendentemente dal sindacato studentesco universitario come gruppo radicato di studenti e studentesse di sinistra solidali con lo sciopero. Questi hanno capito prima di chiunque altro che la lotta in corso sarebbe diventata una lotta comune. Ogni giorno gli studenti e le studentesse venivano a portare la loro solidarietà quando si tenevano i nostri incontri, sulle scalinate degli edifici principali dell’università, dopo i picchetti dei lavoratori in sciopero. Hanno marciato con noi, hanno preso parte ai nostri dibattiti e hanno istruito parte di essi, hanno organizzato incontri indipendenti, hanno scritto petizioni e incontrato la direzione amministrativa dell’Università in sostegno agli scioperanti per mettere pressione e aiutare a mandare avanti la vertenza. Gli studenti sono stati molto presenti, attenti e collaborativi, pur mantenendo la loro autonomia rispetto alla lotta dei docenti. Da entrambi i lati siamo consapevoli di come l’imprenditorializzazione ci abbia messi gli uni contro gli altri. Sappiamo che ogni giorno della nostra lotta è un furto delle 9,205 sterline di tasse universitarie con cui loro si sono indebitati. Ma entrambi sappiamo anche che solo facendo leva su questa contraddizione possiamo vincere rendendo questa lotta una lotta comune.
S/connessioni postcoloniali
Ci sono state posizioni contrastanti relativamente all’incitare o meno i nostri studenti (specialmente quelli internazionali che vengono qui solo per un anno pagando una valanga di soldi per una laurea che sia spendibile una volta tornati nel proprio paese) a chiedere indietro i loro soldi, a scrivere alle proprie ambasciate, a far leva sull’essere «clienti che pagano un prezzo altissimo». Gli studenti preoccupati e ben consapevoli della trappola dell’aziendalizzazione sembrano essersi opposti a queste rimostranze affermando che non si possono separare i mezzi dai fini: se si vuole un’educazione libera dalla logica di mercato non si può assumere l’identità del «cliente» per fare pressione sul proprietario d’impresa. Si deve semplicemente essere solidali ricordando costantemente che «le migliori condizioni di lavoro degli insegnanti corrispondono a una migliore qualità della propria educazione». Per certi versi il mio istinto politico è di stare con questi studenti e forse non immediatamente a fianco dei miei colleghi che li hanno cinicamente incitati a chiedere indietro i loro soldi. Indipendentemente dalle potenziali conseguenze legali sui lavoratori in sciopero, se gli studenti fanno causa all’università, in quanto docente «semi-aziendalizzata» che insegna Management delle Risorse Umane in una Business School che recluta molti studenti internazionali ogni anno capisco che dovremmo essere realistici piuttosto che cinici e far valere la nostra forza all’interno dell’università aziendalizzata. Ciò richiede una serie di difficili ripensamenti della nostra strategia di comunicazione con questi studenti per ricordare loro che condividiamo la stessa situazione ma rimaniamo al contempo dalle parti opposte della «barricata del servizio».
Noi stiamo sottraendo loro il prodotto che hanno comprato, ma il fatto che qualcun altro dovrà prendersi la responsabilità delle loro «perdite» indica a maggior ragione che vincere (insieme e separatamente) è possibile. Produciamo valore e siamo sfruttati in modo diverso ma il debito degli studenti corrisponde alla nostra pensione rubata, lo scarto salariale determinato dal mio genere corrisponde a un minor grado di soddisfazione dei miei studenti al prossimo test di valutazione della didattica, lo stipendio esorbitante del vicerettore corrisponde alla mia rabbia è così anche alla vostra. Riprendiamoci il valore dell’apprendimento che produciamo insieme!
Cantando sotto la neve: ri-produrre lo sciopero
Non ci si può annoiare quando si lotta. Durante lo sciopero ogni giorno nuovi membri del sindacato ci hanno inondato di idee in merito a cosa fare ai picchetti e durante i raduni, ad esempio proponendo canzoni (spesso i testi erano scritti dai membri sulle note di canzoni popolari dei lavoratori), strumenti, cartelloni, volantini, interventi, poesie, video e balli. «Strike up your life» per esempio, è diventata la colonna sonora dello sciopero. Neppure forme davvero sciocche di creatività poetica venivano reputate inutili, ma anzi diventavano momenti chiave che rendevano possibile riprodurre la quotidianità dello sciopero. Ma lo sciopero non viene riprodotto solo nei momenti di visibilità sul fronte dei picchetti, o quando si canta durante i raduni. La tenuta dello sciopero non sarebbe stata possibile se non avessimo continuato a lavorare per lo sciopero anche dopo i picchetti attraverso un’opera continua di comunicazione sui media istituzionali e sui social, di discussione strategica sui passi successivi, di coinvolgimento di nuove persone, di attenzione a evitare che le tensioni diventassero fratture, di raccolta di parole di solidarietà dall’estero, di scrittura dei bollettini dello sciopero, di ascolto delle critiche, di preparazione e condivisione dei pasti, di affetto , di controllo che tutti stessero bene. Mi sentivo già troppo impegnata a «riprodurre lo sciopero» per cadere nella tentazione di svolgere qualche lavoro per l’Università una volta tornata a casa: che liberazione!
La linea di picchetto è nella tua testa: sconfiniamo!
Uno dei punti critici dello sciopero si è incentrato sui «confini» della lotta. La grande tradizione di non oltrepassare la linea di picchetto sembra una sorta di dogma religioso per il movimento dei lavoratori inglesi, soprattutto dopo la violenta repressione degli scioperi dei minatori negli anni ‘80: «dovrete passare sul mio cadavere se volete rompere il picchetto» è il sentimento più diffuso fra i sindacalisti da queste parti. Sebbene tale convinzione sembri abbastanza diffusa, specialmente se l’obiettivo è quello di realizzare davvero uno sciopero effettivo (cioè non permettere agli altri lavoratori e a nessun crumiro di attraversare il cancello della fabbrica, per fermare concretamente la produzione), coloro che non sono così profondamente legati a questo vissuto storico nazionale (in Europa meridionale, ad esempio, nell’immaginario comune il picchetto è più simile a un cordone, una frontiera conflittuale che davvero tenta di non fare entrare nessuno per bloccare la produzione, cosa che è stata resa illegale dal governo Thatcher) potrebbero sfidare questa tattica, o almeno suggerire di ripensarla per rendere più flessibile e strategico il confine che controlliamo come lavoratori. Sfortunatamente, le due proposte di organizzare marce e proteste tecnicamente «all’interno» del perimetro esterno della sede (disegnato dal management dell’università) sono state ostracizzate e siamo stati accusati di voler praticare uno sconfinamento illegale. (Fra l’altro la polizia avrebbe potuto sgomberarci perché i campus sono diventati proprietà privata. Una ragione in più per sconfinare!). «Questo è ciò che ci divide», dice il sindacalista migrante a quello britannico, o forse il contrario. È stato interessante vedere che in altre sedi non è stata la divisione tra migranti e non migranti a portare a galla le differenze di vedute e di atteggiamenti rispetto al picchetto. A Warwick è stato proposto, abbastanza spontaneamente, di usare l’edificio del sindacato degli studenti, nel mezzo del campus, per ospitare i teach-out, ovvero le lezioni esterne alle aule universitarie. È stato fatto notare che sarebbe stato più strategico e visibile avere dei picchetti fuori dal refettorio nel centro del campus anche nella nostra Università. Al contrario, qui abbiamo spesso preferito stare ai margini e interiorizzarli, senza riflettere sul fatto che qualcun altro ce li aveva imposti. Fin dall’epoca della Thatcher, i molteplici limiti legali imposti ai sindacati sembrano essere stati interiorizzati dalle persone fino al punto di non riuscire a vedere che le strategie stesse dei lavoratori possano trasformarsi in una gabbia. Attraversa i limiti nella tua testa: «Va’ dove ti è proibito andare».
Il rifiuto collettivo: il tempo (im)possibile della democrazia diretta
C’erano così tante persone a voler prendere parola sulla proposta fatta al tavolo di trattative tra il sindacato e le università del Regno Unito che la stanza in cui eravamo riuniti non ci conteneva tutti, così alcuni membri sono dovuti intervenire da fuori. Le donne in sciopero passavano il messaggio urlandolo attraverso la finestra e ribadendo che la proposta era semplicemente inaccettabile perché avrebbe messo le donne e i soggetti più vulnerabili in una posizione nettamente peggiore, questo è stato solo uno dei momenti più memorabili di quell’indimenticabile giornata di democrazia diretta in cui abbiamo respinto all’unanimità la proposta. Siamo stati costretti a prendere una decisione in 48 ore – no, forse meno: la settimana prima abbiamo saputo della proposta di UCU (sulla quale non eravamo stati chiamati a dire la nostra) e dopo pochi giorni abbiamo letto i risultati dell’accordo. I «membri ordinari» sono stati abbandonati dai loro leader e delegati, che nel frattempo stavano discutendo, in qualità di portavoce, al quartier generale del sindacato a Londra, ma, nonostante questo, siamo riusciti a costruire un ponte tra di noi e discutere democraticamente. #Non capitoliamo! Grazie alla comunicazione sui social media in tempo reale, riusciamo a rompere persino le frontiere della democrazia dei delegati e cancellare le distanze. Non si tratta più di delegazione e rappresentatività, ma di democrazia diretta, per quanto praticata in maniera parziale perché non c’è più tempo per un maggiore approfondimento e per fare controproposte. Che cosa succederà dopo il rifiuto? E come sarà la nuova proposta e chi deciderà quali sono le false alternative? La democrazia riguarda un singolo evento, ma anche procedure chiare e trasparenti e regole inclusive che rendono affidabile chi ci rappresenta. All’interno di una complessiva situazione di «rovina della rappresentanza», il nostro sindacato non conosce le procedure democratiche, o perlomeno deve ancora lavorarci. Dopo esserci resi conto che #siamonoil’università, proprio a causa della grande partecipazione dal basso abbiamo scoperto quanto sia rilevante per noi la rivendicazione di una maggiore democrazia sindacale. Siamo davvero irrappresentabili. Mentre ne parliamo, le cose continuano a cambiare. Una delle maggiori vittorie dello sciopero, anche se non abbiamo ottenuto tutto quello per cui lottavamo, è stato realizzare che la governance attuale non è democratica e il nostro stesso movimento ha bisogno di una scossa per ripensare le sue strutture, noiose e burocratiche: così, forza, #ripensiamoilsindacato.
Democrazia all’interno e linee di divisione: donne, lavoratori precari…
Le donne soffriranno sicuramente di più per i tagli pensionistici semplicemente perché i loro salari sono più bassi di quelli degli uomini e hanno già una pensione più bassa. Ma ci sono anche altri fattori connessi alla durata inferiore della carriera e ai buchi nei contributi pensionistici, alle minori possibilità di promozione dopo che le donne rientrano dalla maternità e alla sovra-rappresentazione femminile nei lavori part-time sottopagati. Tutti questi aspetti rendono la discussione sulle pensioni una lotta per l’eguaglianza nelle nostre Università. Questo è stato ripetuto più volte nel nostro sindacato, soprattutto dalle donne migranti e appartenenti alle minoranze etniche, che sono ulteriormente svantaggiate per via dell’intersezione di razza e divario salariale di genere, particolarmente forte nel mondo accademico inglese. Il teach-out più significativo che ho fatto è stato proprio durante la giornata internazionale delle donne: è stato un incontro intergenerazionale, in cui anziane attiviste del posto hanno parlato del Feminist Archive North, l’archivio della storia femminista a Leeds, delle loro lotte e degli esperimenti sociali degli anni ‘70. Abbiamo anche avuto una straordinaria discussione autorganizzata sul «consenso sessuale» con gli studenti e sulla sfida di ripensare la sessualità politica ed etica a partire da un contesto in cui si mescolano le identità e le pratiche di genere.
La cosa per me più importante è stata che per la prima volta ho scioperato in Inghilterra in quanto donna lavoratrice l’8 Marzo. Quest’anno è stato davvero segnato dallo Sciopero Globale delle Donne, organizzato in diverse città in Europa e nel mondo, inclusa Londra. Quest’anno lo Sciopero Globale delle donne ha trasformato radicalmente ciò che fino a ieri è stato più che altro un esercizio «ritualistico» del ricordo della giornata delle Donne, mettendo al centro le questioni spinose dell’imprescindibilità del lavoro delle donne, pagato o meno, e dell’«impossibilità dello sciopero» nel campo della riproduzione sociale. Al nostro picchetto/raduno intitolato alle Donne Speciali sono venute anche alcune tra le «Donne di successo» dell’università che quel giorno si sono rifiutate di ritirare il loro premio per portare l’attenzione sugli effetti dei tagli pensionistici per le donne e per denunciare di come le aziende si approprino in maniera opportunistica e ipocrita dei loro successi nella nostra università. Ai picchetti abbiamo anche parlato delle intersezioni delle forme attuali di oppressione femminile, incluse quelle nel mondo accademico, considerando che non si poteva parlare della fine del gap salariale legato al genere senza combattere anche le altre diverse forme di oppressione subite dalle donne in quanto lavoratrici, migranti, precarie e insegnanti iper-sfruttate…continua