La situazione è disordinata, ma non è affatto eccellente. Diverse pretese di governo si rincorrono, si confrontano e si scontrano e nessuna è particolarmente allettante. La governance europea ha trovato occasionalmente il suo rappresentante nel Presidente della repubblica. Questi ne ha affermato la legittimità utilizzando una costituzione che, sebbene con l’introduzione del pareggio di bilancio sia stata modificata proprio per adeguarla a quella governance, mostra di essere uno strumento insufficiente e datato. Dall’altra parte, contro questo blocco di potere viene scagliata la sovranità del popolo, cercando di convincere grandi e piccini che è la soluzione di tutti i mali. Se avessimo una minima capacità di fare politica dovremmo sfuggire all’alternativa tra il governo del Presidente e quello impedito e furioso del popolo sovrano di matrice grillo-leghista. Evidentemente questa capacità però non c’è. Gli stessi che ieri dichiaravano la crisi della rappresentanza oggi rivendicano la democrazia e le sue forme costituzionali, parlano di maggioranza tradita e di colpo di Stato, vogliono l’indipendenza dalla Germania, pretendono un’italica moneta sovrana per resistere al capitalismo globale. Mentre evocano la guerra finanziaria guidata dallo Stato, finiscono per eleggere a eroe della classe operaia un anziano signore, cresciuto dentro la Banca d’Italia e poi approdato all’ufficio studi di Confindustria.
Per farla finita con queste fiabe vale la pena collocare gli eventi recenti nel loro contesto reale, riconoscendo che siamo di fronte a una nuova eruzione della grande crisi europea che si è aperta in Grecia nel 2015 prima con il referendum e poi con la grande tempesta dei migranti. Non a caso Angela Merkel ha evocato la Grecia di Tsipras per mostrare come si risolvono i problemi nell’Eurozona e come si risolveranno anche questa volta se l’Italia non si adeguerà ai suoi principi. E di crisi europea si tratta, non di un complotto internazionale dell’alta finanza ma di uno scontro sociale e politico, e quindi di classe, su scala transnazionale. In Grecia nel 2015 le difficoltà della governance finanziaria europea di gestire le sue contraddizioni hanno assunto una forma nuova. Allo stesso tempo si è mostrata l’impossibilità di sottrarsi a quelle stesse contraddizioni facendo leva su un governo nazionale. Mentre i mercati dovrebbero insegnare agli italiani come si vota, la stessa Germania ha conosciuto e conosce questa tensione, avendo avuto bisogno di molte settimane per approdare a un governo che appare come una sorta di ultima diga di fronte all’ignoto. In Francia l’iperattivo Macron, il salvatore della Repubblica, deve confrontarsi costantemente con piazze attraversate da una moltitudine di figure sociali che cercano di imporre una convergenza di lotte che ancora non si vede. La Spagna è da mesi sull’orlo di una crisi di sistema. Leggere quello che succede in Italia guardando solo l’Italia è dunque ridicolo. La lotta di classe in Europa assume oggi la forma di uno scontro quotidiano contro le imposizioni del capitale finanziario, ma anche contro le sue articolazioni dentro ai singoli Stati, per quanto questi possano pretendersi indipendenti e sovrani. In Italia, ma non solo qui, davanti a questo scontro epocale il passato viene rivolto contro il presente, il fascismo viene riabilitato, il vortice dei movimenti porta alla ribalta figure da operetta che occupano la scena in maniera maldestra. E soprattutto viene affermata la sovranità del popolo e della nazione, in un arco di posizioni che va dall’ineffabile Stephen K. Bannon a gruppetti più o meno di sinistra con i loro intellettuali di complemento. All’interno di quell’arco ognuno immagina il suo popolo e pensa di essere la sua migliore rappresentanza. Chi si è comprensibilmente stufato di ascoltare Varoufakis e non prende ancora per buono il mantra della democrazia sa però che il popolo sovrano non è un’entità mistica, ma un insieme di rapporti di forza e di potere, che per esistere devono essere appunto rappresentati.
Chi è dunque il popolo sovrano? Qual è il governo del popolo? In Italia, ma non solo qui, a stabilire che cosa sia il popolo sono oggi i partiti che hanno vinto le ultime elezioni, che potrebbero governare, che potrebbero anche vincere le prossime o che alla fine, per manifesta incapacità e pur di governare, potrebbero accettare ciò che finora hanno rifiutato come un affronto, cioè il controllo sulla formazione del loro governo. È il governo degli equivoci o, se si vuole, un governo comunque equivoco; tuttavia, come dicevamo, la situazione è confusa e presenta elementi di tragica comicità. Eppure, se si guarda al «contratto di governo» grillo-leghista un elemento di chiarezza emerge indiscutibilmente e si capisce quale dovrebbe essere la costituzione materiale del popolo sovrano e quale sarà la sua rappresentazione. È un popolo senza qualità che deve essere costantemente risarcito per questa sua condizione. A ogni vittima dell’élite globalista viene promesso un risarcimento: ai piccoli e medi imprenditori «tartassati» dal fisco si promettono flat tax e «riscossione amica»; a chi si trova sull’orlo della povertà un reddito di misera cittadinanza; ai risparmiatori traditi dalle banche democratiche non meglio precisati indennizzi; agli startuppers finanziamenti in green economy e nuove tecnologie. L’elenco prosegue in un crescendo di mariti che non dovranno più versare assegni di mantenimento ai figli e donne finalmente al sicuro dalla violenza (ovviamente praticata da uomini neri) grazie ai corsi di formazione rivolti alle forze dell’ordine, finché sui titoli di coda non appare il popolo sovrano dei cittadini ora legittimamente in armi. Questo è il popolo reale che si vuole rendere sovrano, cioè un blocco sociale ampio e trasversale tenuto insieme dalla convinzione di aver subito dei torti dai governi precedenti e dalla promessa di essere governati ora da uomini che finalmente stanno dalla sua parte. La costituzione materiale che si annuncia è una sorta di trattato di pace – non solo fiscale – che prevede più o meno laute concessioni a quegli italiani che nella crisi hanno visto assottigliarsi livelli di reddito, rendita o profitto. Che quella rabbia abbia radici, motivazioni e legittimità diverse, o che quelle concessioni saranno opportunamente modulate sui criteri regressivi della flat tax e dei tagli agli «sprechi» – leggi welfare – è il fatto oscuro di questa tregua sociale. All’interno del popolo tutti gli uomini sono uguali e quindi ci saranno solo vincitori.
Il governo, già venduto come «legale» rappresentante del popolo, dovrà eseguire la giustizia in suo nome. La crisi della rappresentanza viene così «risolta» dispiegando tutti i capricci metafisici che il popolo e la giustizia possono mettere in campo. Un popolo che non c’è affida all’esecutivo il compito di costituirlo. È un popolo evanescente, la cui voce doveva essere non a caso requisita da un avvocato e da un direttorio incaricati di gestirne l’unità ideale per non rivelarne la reale natura posticcia. Non una mediazione che presuppone un conflitto tra piccoli imprenditori gelosi del profitto e poveri perseguitati dalla miseria imposta dai primi, tra padri di cui si vuole restaurare l’autorità minacciata dal divorzio e madri da mettere al lavoro dopo aver rassettato casa, ma un meccanismo di conciliazione obbligatoria che ribadisce la centralità dell’esecutivo quale detentore del monopolio del disbrigo degli affari. La nuova sovranità del popolo preferisce il diritto privato a quello pubblico, anche se la distinzione diventa sempre meno chiara. Questo governo del popolo rivendicato dai sovranisti non ha niente di diverso dalla sempre maggiore centralità dell’esecutivo che si sta affermando da decenni negli Stati del capitalismo globale. La proposta di introdurre il vincolo di mandato punta a impedire che la trama scomposta degli interessi societari si mostri nella sua permanente conflittualità. La gestione degli affari della nazione pretende l’obbedienza al governo della maggioranza: il parlamentare che si sottrae a questo diktat agisce infatti per conto di interessi opachi e non della giustizia.
Nel contatto diretto tra il governo e il suo popolo si afferma così una giustizia proprietaria non diversa da quella che Macron sta cercando di imporre in Francia. È una giustizia che disprezza le rivendicazioni collettive, più che mai se collegate alla propria condizione lavorativa. È una giustizia fiscale, che esibisce il suo profilo classista non solo attraverso la flat tax, ma anche riducendo drasticamente la possibilità di indagare sui redditi reali dei cittadini, ovvero di alcuni di essi. L’evasione è legittimata come parte del profitto, che deve essere difeso dalle grinfie pubbliche con buona pace della sovranità fiscale dello Stato. I paradossi del sovranismo ne svelano così l’intima verità: non la riabilitazione fuori tempo massimo dello Stato nazione, ma l’affermazione della centralità dell’esecutivo che dovrebbe proteggere un ormai inconsistente capitale nazionale dalle minacce non solo del mercato globale, ma anche e soprattutto da quelle di tutti coloro che pretendono un salario ingiusto e un reddito iniquo. Questo Stato fiscale è lo Stato sociale del piccolo capitale nazionale (autentica frontiera del sovranismo reale), pronto a soccorrerlo quando rimane indietro. Lo dimostra in fondo anche quel reddito di cittadinanza che riassume in sé l’ansia di messa al lavoro che lo pervade. I 780 euro promessi ai cittadini italiani che versano in condizione di bisogno sono una risposta alla macelleria sociale del neoliberalismo, facendo però attenzione a non tradirne lo spirito. Esso è un reddito della povertà per produrre forza-lavoro isolata e immiserita e, perciò, sempre disponibile allo sfruttamento del piccolo e medio capitale, più propenso a investire nei bassi salari che nell’innovazione. Il reddito non è qui fattore di emancipazione, ma è coerente con la logica della giustizia proprietaria: è una misura «giusta» perché riafferma la coazione assoluta e non sindacabile a un lavoro la cui precarietà e frammentazione non possono essere messe in discussione. Ecco allora la reintroduzione dei voucher, il chiassoso silenzio sul Jobs Act, le politiche di ricollocamento, il mantra della formazione continua e l’enfasi sulle scuole professionali. Nella sua essenza, questa dottrina del popolo e della giustizia esprime la paura che un precario da qualche parte possa vivere senza essere sfruttato. Così, mentre offre una tregua al popolo dei giusti, il popolo sovrano indica nei migranti il nemico contro cui dichiarare guerra aperta.
Noi affermiamo risolutamente che il razzismo è un parametro fondamentale per giudicare la costituzione materiale della società-mondo. Esso non riguarda la tolleranza del diverso, il rispetto dei diritti fondamentali di alcuni e nemmeno le categorie della morale, non è cioè una questione che investe la singola persona. Il razzismo, come per altri versi la limitazione della libertà sessuale, rivela quanto le relazioni sociali siano collettivamente disponibili per gli individui di quella società: quanto essi siano liberi non solo di muoversi al loro interno, ma anche di modificarle. Il razzismo e la limitazione della libertà sessuale sono criteri per rendere evidente una gerarchia sociale che non deve essere messa in discussione. Proprio per questo il popolo sovrano punta a definire un insieme di relazioni obbligatorie, in modo da tracciare un perimetro che racchiude il suo composito blocco sociale, al quale si offrono garanzie più o meno vaghe, la più solida delle quali è di non offrirne alcuna a chi da quel perimetro viene dichiaratamente escluso. I migranti sono letteralmente soggetti extracontrattuali. Il razzismo diventa cioè un elemento costitutivo del governo stesso. Senza di esso il governo non potrebbe neanche nascere. Si tratta di una radicalizzazione nel solco di quanto abbiamo visto all’opera dopo l’altro grande spartiacque del 2015, la tempesta dei migranti, come insegnano il fu ministro Minniti, i mini jobs alla tedesca, i democratici respingimenti dalla civile Francia o gli accordi con cui l’UE spende parte del suo bilancio per appaltare la gestione dei suoi confini. Si supera la prospettiva di integrazione nello sfruttamento e nell’accoglienza coatta che ha animato l’ingloriosa stagione del razzismo democratico. Restano però lo sfruttamento, la coazione e la violenza: i migranti diventano così una «questione», un «flusso» o tutt’al più una «pressione», ma cessano di essere persone giuridicamente riconosciute, sia pure al prezzo di perdere la libertà nei canali angusti della richiesta di asilo. Il razzismo di governo è la faccia speculare e specificamente rivolta ai migranti della giustizia proprietaria di cui l’esecutivo deve farsi interprete.
Il razzismo di governo agisce però anche al di là del suo terreno di competenza. Mentre i migranti vengono indicati come l’unico nemico individuabile oltre alle fumose élite, la condizione di precarietà estrema riservata loro è il monito che incombe su tutti coloro che accarezzano l’ipotesi di rifiutare la coazione al lavoro. Effetti disciplinari che non agiscono solo sul piano meramente discorsivo, perché il razzismo di governo indica nella svalorizzazione dei migranti la leva per innescare una spirale di impoverimento complessivo del lavoro. La pur vaga promessa di un salario minimo orario funziona per neutralizzare la funzione concertativa del sindacato, avocata integralmente dal governo, e imporre di conseguenza un’individualizzazione radicale del rapporto di lavoro, più che per difendere il salario medesimo, minacciato proprio dalla presenza di una forza lavoro assolutamente provvisoria e letteralmente decontrattualizzata. Estranei al popolo, i migranti ne insidiano l’ordine artificiale: essi sono visti come l’unico soggetto capace di mobilità autonoma e pertanto devono essere sottoposti a una disciplina speciale di governo. Solo arginando la «pressione» migrante sullo Stato sociale del capitale nazionale il popolo dei cittadini-vittima potrà sentirsi risarcito dalle briciole lasciate dalle piccole e medie imprese.
Siccome le briciole però non ci interessano, non è un’opposizione di minoranza o localizzata quella che dobbiamo praticare. Possiamo solo cercare ostinatamente di costruire punti di giuntura tra i movimenti che attraversano lo spazio europeo, obbligandolo a modificare in continuazione i confini e i criteri della sua produzione e della sua riproduzione. Per scardinare l’oggettiva alleanza tra la governance europea e la sua articolazione sovrana possiamo solo andare oltre lo scontro formale che sembra opporle. Nonostante le illusioni che qualcuno continua a nutrire, le cosiddette forze antisistema servono solo a ridefinire i limiti e i confini del sistema stesso, e quindi ad assicurarne la durata. Questo scontro può certamente avere momenti ed esiti drammatici, che non possono però essere evitati e men che meno superati rinchiudendosi nello spazio angusto del popolo sovrano, con la pretesa di detenerne la versione buona. Muoversi su scala transnazionale significa non cedere all’ansia della ricomposizione che promette la riconciliazione universale e di massa, proprio mentre l’integrazione logistica europea procede come se niente fosse. Basta poco per scoprire che tanto il popolo sovrano immaginato dalle destre europee, quanto il popolo «degli esclusi» di alcune sinistre, altro non è che una variabile di minoranza in quell’organizzazione transnazionale del capitale che non sappiamo ancora aggredire. L’Europa è l’orizzonte politico tanto del sovranismo, quanto della governance finanziaria. Combatterli fino in fondo non è lottare per un’altra Europa, un mito senza soggetti in carne e ossa, ma certamente è combattere per modificarla dalle fondamenta: è urgente e inevitabile riprendersi dallo shock del 2015 e fare finalmente dell’Europa un campo di battaglia di parte, senza illudersi che esistano scorciatoie e senza lasciarsi abbagliare dai lampi di sovranità dello Stato nel nome di un popolo più o meno grande. Si tratta invece di accettare la scommessa e il rischio di chi viola materialmente la sovranità europea e ogni giorno lotta contro la violenza dei confini, del salario, del welfare, dei documenti e della divisione sessuale del lavoro.