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I mille volti della precarietà che abitano il contemporaneo

di ELEONORA CAPPUCCILLI

Una versione breve di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 30 maggio 2018.

Solo muovendosi tra i diversi piani del labirinto della precarietà fino a raggiungerne gli angoli più remoti è possibile gettare luce sull’eterogeneità del lavoro contemporaneo, in cui l’abbagliante novità delle trasformazioni tecnologiche vorrebbe nascondere una realtà fatta di gerarchie e frammentazione. Questo è il dato che emerge dai saggi contenuti in Figure del lavoro contemporaneo. Un’inchiesta sui nuovi regimi della produzione (Verona, ombre corte 2018) curato da Carlotta Benvegnù e Francesco E. Iannuzzi, con la post-fazione di Devi Sacchetto. Il libro si presenta come un’utile e ricca raccolta di indagini volte a smascherare i meccanismi di intensificazione del comando capitalistico e il conflitto che incontra, a evidenziare la connessione delle esperienze di vita e lavoro con le diverse condizioni politiche e legislative, a mettere a nudo le contraddizioni tra retorica e la realtà dei nuovi regimi di produzione. L’esperimento di una fabbrica recuperata in provincia di Latina (Romolo Calcagno); gli scioperi dei facchini migranti nella valle logistica del Po (Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti); il debordare dell’economia sommersa nei canali formali di regolazione del lavoro nel sistema moda napoletano (Giuseppe D’Onofrio): questi sono solo alcuni degli originali e ben scelti casi di studio presi in esame dagli autori del volume.

L’impiego di una metodologia delle scienze sociali variegata e aggiornata, che va dalla sociologia pubblica di Michael Burawoy all’inchiesta sociale all’italiana, passando per la cyber-etnografia dà una misura della complessità e profondità delle analisi. L’appropriazione tanto dei metodi classici della sociologia quanto di quelli più innovativi risulta particolarmente adeguata ad analizzare uno scenario in costante mutamento, in cui vecchie forme di messa a lavoro vengono recuperate – come nel caso della de-macchinizzazione della linea di montaggio alla Electrolux, o del ritorno al lavoro occasionale e interinale nei porti che ha accompagnato l’aumento delle dimensioni delle navi – mentre nascono quotidianamente nuovi e fantasiosi mestieri digitali.

Un posto di rilievo è dedicato al lavoro migrante, che rende visibili le trasformazioni in atto nella produzione e riproduzione sociale in virtù non solo della sua natura oggettiva – mobile, precario, legato alle sue condizioni politiche – ma anche delle sue potenzialità soggettive. Nel caso di studio analizzato da Antonella Elisa Castronovo, il lavoro migrante cambia radicalmente i suoi connotati in seguito allo stabilimento del Centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (Cara) di Mineo. Bacino di lavoro irregolare, invisibile e sottopagato, il Cara ha la funzione non trascurabile di mettere a disposizione dei produttori agricoli catanesi una schiera di braccianti che per conquistare la loro autonomia sono disposti ad accettare un salario da fame. Non solo chi è in attesa di un permesso di soggiorno, ma anche chi è titolare di protezione internazionale è costretto a rimanere per lunghi periodi in una condizione di reclusione, inattività, segregazione che rende lo sfruttamento intensivo nel lavoro agricolo un’alternativa non solo necessaria ma addirittura desiderabile.

Proprio a partire dal lavoro migrante si può cogliere un altro elemento centrale del volume, ovvero la connessione globale delle figure del lavoro sia all’interno di catene del valore e reti di produzione globali sia nei percorsi di lotta e di organizzazione collettiva che eccedono i confini e i «legami ancestrali del privilegio del colore della pelle», come nota Devi Sacchetto (p. 144). Grazie a questo doppio livello di ricerca, le categorie scientifiche utilizzate e le ipotesi politiche avanzate vengono messe alla prova della loro capacità di cogliere la realtà materiale dei rapporti e dei conflitti sociali. Così, ad esempio, nella riflessione sul lavoro digitale fatta da Elinor Wahal, la «dipendenza da lavoro» – il workaholism – che le discipline sociologiche rintracciano nel caso dei crowd-workers (lavoratori-folla) esemplifica l’insufficienza di categorie che leggano i nuovi regimi di produzione secondo una prospettiva individualizzante e una concezione unitaria del tempo di lavoro – che non tiene conto, cioè, dell’illimitato prolungamento e spezzettamento della giornata lavorativa –, e non invece a partire dal ricatto e dall’insubordinazione nel regime del salario. Inseguire pezzi sconnessi e microscopici di salario compiendo microtask (micro-mansioni) a ripetizione – fino all’estremo di lavorare 17 ore al giorno – più che il sintomo di una dipendenza patologica connaturata al lavoro digitale sembra essere la maledizione che agisce su un intero mondo in cui precarietà è il nome di una condizione normale e istituzionalizzata. L’urgenza di ripensare le categorie utilizzate emerge anche dall’analisi della sharing economy. Benché ammantata di discorsi sulla creatività e l’auto-imprenditorialità, essa non può eludere la questione dello sfruttamento, ma è un pezzo del regime del salario funzionale a «compensare le mancanze del proprio reddito, monetizzando le cose e il lavoro in modi creativi»: «ciò che spinge le persone ad accettare lavori del tutto instabili, ad aprire le loro case e auto a dei completi estranei è il denaro, non la fiducia» (p. 108).

Alla luce di questa tensione tra categorie sociologiche ed etnografiche e la realtà del lavoro contemporaneo si comprende l’affermazione della necessità di osservare da vicino gli ingranaggi e i protagonisti, più spesso le protagoniste, della storia del capitalismo, abbandonando l’illusione che vi sia uno sviluppo logico e progressivo da rintracciare nel susseguirsi delle varie trasformazioni produttive. Non «sostituzioni repentine e definitive», scrivono i curatori, ma «integrazioni e assemblaggi di forme eterogenee spiegano meglio i processi che si dispiegano davanti ai nostri occhi» (p. 8). Senza cedere allo «scintillio delle nuove tecnologie» (Sacchetto p. 141), il libro discute la novità della fase attuale proprio a partire dalla riflessione sulle continuità e discontinuità, dalla lettura complessiva del lavoro e dell’ambiente politico in cui si inserisce. È in questo quadro che va collocata l’alternanza di casualizzazione e decasualizzazione nei porti (Andrea Bottalico) – i più antichi e forse ancora i più grandi teatri della logistica globale del capitale – oppure il deskilling in atto nelle colossali fabbriche della Electrolux (Fiorella Longobardi), dove una manodopera specializzata, imbevuta di decennale sapere operaio, e una produzione altamente automatizzata diventano tutt’a un tratto meno appetibili se costa meno delocalizzare e investire tutto nelle obsolete ma più redditizie catene di montaggio degli anni ‘50.

Questa «de-macchinizzazione» – che elimina la possibilità della rivendicazione di professionalità da parte delle operaie – va di pari passo con il mutamento delle politiche aziendali, o meglio della «gestione politica della fabbrica». La promozione, tra fine anni ‘80 e metà degli anni ‘90, delle pari opportunità – debole e insicuro tentativo di introdurre anche in Italia quel corporate feminism che spopola negli Stati Uniti e nell’Europa settentrionale – è funzionale all’«inserimento in fabbrica di una ‘nuova’ forza-lavoro – femminile prima, e migrante poi» per rispondere «alla domanda di flessibilità produttiva locale e nazionale». L’utopica introduzione di un sistema più partecipativo e meno gerarchico, la presunta valorizzazione del femminile, ha significato il ritorno ai doppi e tripli turni, ai «nastri orari in cui la settimana lavorativa diventava sempre più lunga» (p. 25). Insieme alla compressione dei tempi – si pensi alla decurtazione del 50%, con l’accordo sindacale del 2014, della pausa di 10 minuti conquistata a Porcia nei primi anni Duemila – la Electrolux ha imposto una compressione degli spazi, per mezzo dell’immobilizzazione fisica alla catena di montaggio. Questa riorganizzazione della logistica industriale è stata la risposta padronale alla «socializzazione e trasmissione del sapere operaio». Contro tale reazione le donne, il 70% della manodopera diretta alla catena, sono state in prima linea durante gli imponenti scioperi del 2014, che hanno scongiurato 1200 licenziamenti, ulteriori delocalizzazioni e la chiusura dello stabilimento di Porcia. Piccole vittorie, forse, che hanno ancora bisogno di estendersi oltre i confini nazionali, per raggiungere le parti più nascoste e lontane della filiera produttiva dell’elettrodomestico.

Infine non è un caso che, scorrendo i saggi, il sindacato emerga nella realtà della crisi a cui si è da lungo tempo condannato. Esso si manifesta cioè come presenza evanescente, effimera, che non riesce più a costituire la prima tattica operaia, se non quando risponde ai bisogni organizzativi di chi per la prima volta si trova a combattere insieme estese deregolamentazioni sul lavoro e razzismo istituzionale. Dalle pagine del libro traspare l’insufficienza di un approccio vertenziale e di una strategia che ruoti esclusivamente intorno al sindacato, strumento di mediazione inadatto alla composizione di classe attuale – mobile, rarefatta e frantumata come la folla messa a lavoro da Amazon Mechanical Turk.

Anche nella storia dei sindacati delle sex workers in Italia e Germania, presa in considerazione da Mareen Heying, a imporsi all’attenzione non sono i successi delle strategie sindacali ma le stesse soggettività in lotta e i loro tentativi di organizzazione contro un quadro normativo e istituzionale che non ha mai smesso di provare a restringere lo spazio di azione delle lavoratrici in questione. Il processo di vittimizzazione a cui esse sono sottoposte – che svuota le loro rivendicazioni da ogni potenziale di contestazione dell’assetto sociale patriarcale – è stata la risposta alle lotte e agli esperimenti di sindacalizzazione messi in atto specialmente a partire dagli anni ‘80. La difficoltà a uscire fuori dal modello sindacale, a travalicare i confini del singolo settore lavorativo e ad aggredire i rapporti sessuali di potere tout court, ha forse contribuito all’isolamento delle sex workers e al declino della loro mobilitazione. Di fronte alla natura mobile e informale del lavoro, le domande aperte e le sfide che sorgono da questa e dalle altre esperienze di precarietà e conflitto raccontate nel libro forniscono un punto di partenza prezioso per comprendere e trasformare lo stato di cose presente.

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