Quest’anno lo sciopero femminista dell’8 marzo ha seppellito definitivamente la ritualità della festa della donna. La celebrazione triste e inoffensiva del lavoro e del valore femminile è stata spazzata via dalla rabbia e dalla gioia di milioni di donne che in tutto il mondo rifiutano la violenza del patriarcato e dello sfruttamento e riconoscono il proprio valore nella forza di questo rifiuto. Ancora più dello scorso anno, la marea femminista ha rotto gli argini e ha fatto dello sciopero l’imperdibile occasione politica per contestare una società globale che si alimenta di violenza patriarcale e di oppressione, di precarietà e di razzismo, di autoritarismo e di gerarchie. Il successo dello sciopero dell’8 marzo va misurato in questa capacità di creare lo spazio per una politicizzazione che parte dalle donne ma non riguarda solo le donne. Su questo punto non possiamo arretrare. Non si tratta più soltanto di riconoscere l’eccezionalità di un evento, ma di potenziare fino in fondo il processo vivo che lo ha alimentato e il modo in cui esso sta lentamente ma inesorabilmente stabilendo nuovi significati per la pratica politica dello sciopero su scala transnazionale. Dopo l’8 marzo, possiamo affermare che il movimento femminista può diventare una forza mondiale in grado di opporsi al patriarcato e al neoliberalismo nei singoli ambiti locali e nello Stato globale.
Nel fare il bilancio di un successo, dobbiamo in primo luogo registrare la capacità espansiva di questo movimento globale, che si conferma il punto di massima intensità dell’insubordinazione contro il neoliberalismo e al contempo continua ad allargarsi includendo luoghi e soggetti diversi. La violenta repressione subita dalle migliaia di donne e uomini che hanno animato la piazza di Istanbul conferma la capacità di esprimere, a partire dal rifiuto della violenza sulle donne, l’opposizione più netta a un autoritarismo come quello di Erdogan, che si manifesta dalla Turchia alla Rojava. La mobilitazione delle lavoratrici domestiche filippine di Hong Kong ha fatto vedere in modo chiaro il legame inscindibile tra la violenza patriarcale, l’addomesticamento e lo sfruttamento del lavoro migrante e il razzismo. La presa di parola delle combattenti kurde – che si sono unite all’urlo Non una di meno! – mostra una volta di più che la resistenza femminista e kurda sul fronte di Afrin è un fatto di importanza globale. Se guardiamo alla Cina, che per la prima volta si è unita alla marea femminista, la diffusione delle denunce accompagnate dall’hashtag #metoo ha innescato impreviste mobilitazioni di piazza, riuscendo ad abbattere i confini della censura governativa e a mettere in campo una prima inattesa opposizione alla riforma costituzionale appena approvata.
Proprio perché si tratta di un movimento globale, lo sciopero femminista si manifesta con intensità e forme diverse. E non potrebbe essere altrimenti. Le immagini provenienti dalla Spagna – dove in cinque milioni hanno abbracciato e inneggiato alla huelga inondando le strade e le piazze di centinaia di città – sono il segno che la scommessa dello sciopero è una scommessa vincente. Là dove le politiche neoliberali della destra popolare hanno intensificato e accelerato la precarizzazione e l’impoverimento di milioni di uomini e donne e dove l’autoritaria riduzione al silenzio della vicenda catalana ha segnato il collasso della mediazione politica, lo sciopero femminista ha creato le condizioni per il protagonismo e la presa di parola di soggetti e istanze diversi, uniti dalla pretesa collettiva di una trasformazione radicale del presente, dalla necessità di manifestare il proprio potere. Quest’occasione – tenuta aperta e approfondita dall’impegno costante di tutte le realtà che per un anno hanno spinto in avanti il progetto dello sciopero femminista – ha obbligato anche i sindacati maggiori e diverse forze politiche a schierarsi, rinunciando alla loro pretesa di egemonizzare il movimento e governare il conflitto che attraversa la società.
Lo stesso processo ha avuto luogo in America Latina, dove le donne hanno aggredito le diverse espressioni locali dell’intreccio violento tra patriarcato e politiche neoliberali facendo valere la forza delle connessioni globali intessute dallo sciopero. Mentre il neoliberalismo cerca di spazzare via ogni opposizione politica dentro e fuori le istituzioni, il femminismo dello sciopero tiene aperto lo spazio dell’opposizione. In Brasile, a pochi giorni dall’8 marzo, centinaia di migliaia di donne e uomini sono scese in piazza per reclamare giustizia dopo l’efferata esecuzione alla luce del sole di Marielle Franco, la cui militanza femminista è stata per anni parte della lotta per la giustizia nelle favelas. In Argentina lo sciopero ha raccolto la sua forza nelle mobilitazioni degli ultimi mesi contro la riforma delle pensioni e le politiche di espropriazione e privatizzazione del governo Macri, i femminicidi e gli omicidi politici che le hanno accompagnate. Non è un caso che anche qui i sindacati maggiori – che l’anno scorso hanno boicottato il processo rivendicando il monopolio dello sciopero – abbiano dovuto cedere e proclamarne uno di quattro ore. Non le 24h pretese dal movimento e dichiarate dai sindacati di base, ma abbastanza perché migliaia di lavoratrici e lavoratori – insieme a molti milioni nel mondo – abbiano potuto cogliere l’occasione per sottrarsi collettivamente, sebbene temporaneamente, allo sfruttamento quotidiano. Abbastanza, insomma, per indicare che il femminismo dello sciopero sta avanzando con sempre maggior credibilità la pretesa di stabilire le condizioni e i contenuti dell’iniziativa politica.
Negli Stati Uniti, lo sciopero femminista è l’esperienza a partire dalla quale dobbiamo leggere l’emergenza della campagna #metoo e le lotte quotidiane per il salario, contro il razzismo e le deportazioni e per affermare: black lives matter. Dove la campagna #timesup – l’istituzione di un fondo per sostenere le spese legali delle donne vittime di violenza e senza risorse da parte delle «più fortunate» ‒ rischia di individualizzare l’insorgenza collettiva del #metoo e di leggere precarietà e povertà come l’effetto di una sorte avversa, lo sciopero femminista continua a portare alla luce il nesso strutturale tra violenza maschile, molestie sul lavoro e sfruttamento, tra patriarcato e capitalismo. Dove il Partito Democratico cerca di egemonizzare le mobilitazioni di massa contro Trump riportandole alla logica ordinata dell’alternanza elettorale e della rappresentanza, lo sciopero femminista indica la connessione politica tra chi – vivendo quotidianamente la violenza del patriarcato, del razzismo e dello sfruttamento ‒ ambisce col suo protagonismo di massa a porre un’ipoteca radicale su ogni processo istituzionale e politico nel tempo a venire.
Mentre collega politicamente momenti e pratiche diverse di insubordinazione, la sollevazione delle donne punta a strappare lo sciopero all’impotenza a cui lo ha condannato il governo neoliberale del lavoro. Gli scioperi delle insegnanti del West-Virginia o delle università del Regno Unito non avrebbero avuto la stessa rilevanza sociale e globale senza il femminismo dello sciopero. Le proteste localizzate contro le politiche dei diversi governi non sarebbero uscite dai loro confini nazionali senza la potenza transnazionale dello sciopero femminista. Questo si conferma allora come un movimento che vive tra un 8 marzo e l’altro e che va al di là dei confini dell’organizzazione militante, ovvero come lo spazio nel quale le strutture diventano movimento, così come il movimento diviene una struttura politica. I nuovi significati, i diversi ambiti, i mille comportamenti che il femminismo sta scoprendo in una pratica della lotta di classe è ciò che non soltanto modifica ed espande le forme tradizionali dello sciopero, ma permette anche di fare del rifiuto della violenza patriarcale che le donne stanno esprimendo in ogni luogo un’istanza politica universale e perciò globale. Per questo possiamo dire che, anche in Italia, lo sciopero femminista è riuscito. Se questo movimento non è e non può essere omogeneo, se la sua capacità locale di mobilitazione non può essere pensata secondo una logica incrementale, ma è inevitabilmente legata a condizioni contingenti, in tutti i casi le esperienze territoriali si innestano all’interno del processo globale e da qui vanno osservate. Ancora una volta ‒ anche contro l’inerzia e l’opposizione dei sindacati confederali che, ignorando questo movimento reale di insubordinazione, si condannano una volta di più all’irrilevanza politica ‒ decine di migliaia di donne, uomini, precarie e migranti di ogni genere sono scesi in piazza in nome dello sciopero femminista e hanno preso parte al suo momento globale. Abbiamo incontrato il limite delle franchigie elettorali e del divieto di scioperare che ha colpito moltissimi settori. Ciononostante, rispetto a queste elezioni abbiamo tracciato la linea ineludibile di uno schieramento contro chi costruisce sulla violenza la sua legittimità politica, prima ancora che elettorale.
Anche per questo, Non Una di Meno deve continuare a puntare ostinatamente sul movimento dello sciopero femminista. Lo sciopero femminista è un linguaggio nuovo che si apprende praticandolo. Con lo sciopero femminista abbiamo modificato le forme tradizionali dello sciopero, facendone la possibilità per una presa di parola e di potere di tutti quei soggetti che oggi tenacemente cercano un modo per opporsi alla violenza neoliberale del presente. Il nostro deve essere perciò un costante lavoro di comunicazione che con il linguaggio dello sciopero punti a intensificare il tempo tra gli eventi, ovvero tra le occasioni di una presenza di massa che possono aprirsi in modo imprevisto e che dobbiamo essere pronte a cogliere. Il movimento globale di cui siamo parte ci impedisce di tornare a parlare il gergo di una sfera separata, che si occupa esclusivamente della sua specifica oppressione. Se la violenza maschile e di genere è una violenza sistemica, sulla quale si edificano e attraverso la quale si riproducono rapporti globali di potere, allora dobbiamo riconoscere che la nostra parte è una parte universale. Per questo non possiamo ammettere chi pratica e legittima la violenza su donne e uomini migranti e per questo la mattina dell’8 marzo, a Bologna, abbiamo messo a tacere senza esitazione la senatrice leghista che pretendeva di parlare «come donna» dalla nostra piazza. Dopo le vicende di Macerata e l’attentato razzista e fascista contro sei migranti, cinque uomini e una donna, in nome di un sedicente femminismo alcune hanno lamentato che la mobilitazione antifascista e antirazzista dimenticava Pamela, il cui omicidio ha coinvolto uomini nigeriani ed è stato invocato come giustificazione dell’attentato. Di fronte alla pretesa di stabilire una gerarchia tra le forme di violenza, tra femminicidio e omicidio razzista, il femminismo dello sciopero ci impone più che mai di portare alla luce e contestare il loro indissolubile legame. Il punto non è inventare nuove coalizioni, ma riconoscere in queste diverse forme di violenza omicida, nella pretesa di poter disporre pienamente di alcune vite fino ad annientarle, la legittimazione di una società del dominio. Una donna può essere uccisa, un nero può essere ammazzato, affinché tutte e tutti riconoscano che qualcuno deve pur sempre essere subordinato. La vera differenza la fa il rifiuto: il momento in cui – in tutte le piazze italiane dello sciopero femminista, come per le strade di Firenze ‒ decine di migliaia di donne e uomini, migranti e non, affermano che nessuna donna e nessun migrante può essere ucciso, il momento in cui collettivamente e in massa rifiutiamo di essere violentate e oppressi, sfruttate e dominati. Il momento in cui questo rifiuto, tradotto nel linguaggio globale dello sciopero femminista, può diventare un progetto e una scommessa sul futuro. Non una di meno è la parola d’ordine dello sciopero femminista che afferma un’inesauribile pretesa di uguaglianza contro la società globale della violenza e dello sfruttamento.