di ELEONORA CAPPUCCILLI – VANESSA BILANCETTI, Non Una di Meno
→ dal reader Power Upside Down: Women’s Global Strike, a cura della Transnational Social Strike Platform; leggi anche l’Introduzione, Le donne attaccano l’impero: lo sciopero femminista negli Stati Uniti, di Cinzia Arruzza; Verso lo sciopero internazionale delle donne. L’esperienza spagnola, di Marea Granate – Femigrantes; Svezia: il messaggio è lo sciopero, di Sarah Kim e Sarah Liz Degerhammer; Voci dalla Women’s Strike Assembly, di Shiri Shalmy e L’internazionale femminista: appropriarsi dello sciopero e farlo straripare, di Verónica Gago.
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Cosa succede quando lo sciopero incontra un movimento globale delle donne? Succede che può innescarsi un processo di rifiuto della violenza maschile e di genere come violenza strutturale. Questo è ciò di cui stiamo facendo esperienza dalla fine del 2016, quando anche in Italia ha preso avvio un forte movimento che ha impiegato lo sciopero come pratica potente per sovvertire la produzione e riproduzione sociale e contestare la violenza patriarcale in tutte le sue forme. Dopo aver preso parte allo sciopero globale delle donne nel 2017, l’8 Marzo 2018 sciopereremo ancora. La posta in gioco è come continuare a smascherare e mettere in discussione le relazioni sessuali di potere e le gerarchie sociali che danno forma a un complesso sistema di dominio che va ben oltre i confini nazionali. È precisamente l’estensione del processo, il suo essere transnazionale, sociale e politico, che ci ha spinto a continuare a riflettere sulla violenza come un attacco pienamente dispiegato non solo alle donne e ai soggetti LGBTQI+, ma anche contro tutti coloro che subiscono il neoliberalismo patriarcale e vi si ribellano. Nella misura in cui la violenza sessuale serve a rafforzare la subordinazione delle donne, essa diviene uno strumento materiale e simbolico di naturalizzazione e legittimazione della necessità di gerarchie sociali e sessuali, favorendo in questo modo lo sfruttamento.
Sin dal principio il movimento italiano Non Una di Meno ha dato una lettura sistemica della violenza, la cui contestazione si è concretizzata nel riuscito sciopero dell’8 Marzo e nelle manifestazioni numerose e rumorose che hanno avuto luogo in dozzine di città italiane. Ma il lavoro di Non Una di Meno non si è fermato all’8 Marzo. Dopo più di un anno di incontri, manifestazioni, assemblee pubbliche, riunioni informali con lavoratrici, migranti, precarie, dopo l’intensa attività dei gruppi di lavoro, abbiamo pubblicato il Piano femminista contro la violenza maschile e di genere. Il Piano, che è un’elaborazione collettiva di discorsi e pratiche contro la violenza patriarcale, non costituisce né un punto di arrivo, né uno strumento di negoziazione con le istituzioni, complici della violenza sociale e sessuale che stiamo combattendo. Si tratta piuttosto di un punto di partenza per definire autonomamente gli obiettivi della nostra iniziativa politica: il Piano può vivere solo all’interno del processo complessivo di sciopero globale delle donne. «Abbiamo un piano» ‒ come abbiamo affermato a gran voce durante la manifestazione nazionale dello scorso 25 novembre – e non ci fermeremo finché non avremo ottenuto quello che vogliamo: un reddito di autodeterminazione, welfare, un salario minimo europeo, un permesso di soggiorno europeo senza condizioni per le migranti e i migranti e nuove pratiche di riproduzione sociale.
Questa capacità del movimento Non Una di Meno di contrastare la violenza in tutte le sue forme permette di denunciare condizioni e avanzare pretese che non riguardano solamente la condizione femminile. Un esempio molto chiaro in questo senso è il tentativo di prendere posizione in maniera chiara contro la violenza del regime dei confini e del razzismo istituzionale, che si traduce per le donne migranti in ogni forma di abuso sessuale durante il loro viaggio verso l’Europa, ma che colpisce tutti i migranti attraverso il ricatto del permesso di soggiorno e della continua minaccia di espulsione. I recenti fatti di Macerata, il tentato omicidio a mano armata di cinque uomini e una donna – giustificato come una «vendetta» contro un uomo nigeriano sospettato dell’omicidio di una ragazza – hanno mostrato in che modo il delirio patriarcale protegga e giustifichi il razzismo più brutale e, viceversa, come il razzismo nasconda la violenza patriarcale sulle donne. Si tratta di un’ulteriore prova del reciproco rafforzarsi di patriarcato e razzismo, che ci spinge a prendere posizione dalla parte delle e dei migranti. Ecco perché quest’anno è ancora più importante scioperare per la libertà di movimento e contro questo patriarcato razzista, contro l’invisibilizzazione, la vittimizzazione e lo sfruttamento delle donne migranti.
Ad ogni modo, dopo il primo esperimento di sciopero globale delle donne dell’8 Marzo 2017 e dopo la pubblicazione del Piano femminista, il movimento Non Una di Meno sta affrontando molte sfide. Le assemblee pubbliche, tanto nazionali quanto locali, sono molto partecipate e altrettanto eterogenee. Ci troviamo di fronte all’esigenza di organizzare un processo che per sua natura incontrollabile perché va ben al di là delle strutture organizzate, sia per la sua scala sia in termini di partecipazione. Proprio quest’esigenza ci spinge a ripensare collettivamente pratiche, discorsi e forme dell’iniziativa politica per rafforzare la nostra capacità condivisa di interrompere la produzione e riproduzione della società. Inoltre, l’8 Marzo impone la questione urgente di come rendere lo sciopero uno strumento utile non solo per le donne e i soggetti LGBTQI+, ma anche per i migranti, i precari e gli operai di tutti i generi. Dobbiamo continuare a chiederci come fare dello sciopero un’esperienza collettiva di rifiuto, chiamando in causa tutti coloro che non vogliono essere complici della violenza del presente, dentro e fuori i posti di lavoro e nell’intera società. In altre parole, dobbiamo prendere sul serio la sfida di portare la lotta contro la violenza dentro i posti di lavoro e lo sciopero dentro la società, di legare le denunce individuali del #metoo al rifiuto collettivo e all’organizzazione del #wetoogether. Come fronteggiare questa sfida ambiziosa, verso il prossimo 8 marzo e oltre, rimane un problema aperto.
Quest’anno, peraltro, in Italia lo sciopero è una sfida ancora più complessa, per via delle elezioni nazionali del 4 marzo. Da un lato, le elezioni ci costringono a riflettere sul ruolo di Non Una di Meno, sulla sua autonomia dai partiti politici e dalla campagna elettorale, sul difficile ma fondamentale compito di evitare ogni strumentalizzazione e affermare la nostra iniziativa politica. La nostra forza sono le mobilitazioni di massa, che stanno dando prova del nostro potenziale perturbante. Questa consapevolezza, tuttavia, non risolve il problema di come continuare a costruire una forza autonoma e di massa, ma può essere una buona occasione per discutere delle nostre pratiche collettive. Dall’altro lato, le elezioni costituiscono un ostacolo reale e formale allo sciopero, in quanto in molti settori ‒ ministeri, regioni, comuni ed enti locali ‒ è vietato scioperare fino a cinque giorni dopo il voto. Nonostante tutto, sappiamo che la questione non è tecnica ma politica. Anche senza un divieto formale, scioperare è sempre un rischio e una sfida a causa delle condizioni materiali di precarietà del nostro lavoro e delle nostre vite, delle difficoltà di organizzarci nei posti di lavoro, nelle università o nelle scuole, oppure a causa del ricatto del permesso di soggiorno che colpisce le migranti. Sappiamo che una discussione come questa sta avendo luogo in molti paesi in cui lo sciopero non è un diritto costituzionale, come invece è in Italia. Come si può scioperare quando non è tecnicamente possibile? Come possiamo far sentire il nostro rifiuto in massa senza essere addomesticate da limitazioni tecniche e legali? Per affrontare questo problema, abbiamo lavorato alla costruzione di strumenti pratici – un «vademecum per lo sciopero», una cassa di solidarietà e un’inchiesta sulla violenza nei luoghi di lavoro ‒ per comunicare con efficacia come scioperare e per mettere le donne nella condizione di farlo. Quattro sindacati di base (Slai Cobas, USI, COBAS e USB) hanno già rilanciato lo sciopero accettando la nostra sfida. Ma siamo consapevoli che ciò non è abbastanza.
Vogliamo contribuire a organizzare uno sciopero femminista globale, un esperimento potente di sciopero sociale transnazionale. Per l’8 Marzo abbiamo indetto uno sciopero dal lavoro produttivo, ma anche uno sciopero di 24h dal lavoro sociale riproduttivo, ovvero uno sciopero dal lavoro domestico retribuito e non, uno sciopero che esprima il rifiuto di ruoli e dalle posizioni di genere, uno sciopero che abbia lo scopo di esplicitare le condizioni nascoste della nostra oppressione e del nostro sfruttamento. Solo attraverso questo sciopero femminista globale possiamo politicizzare il #metoo trasformandolo ancora una volta in un #wetoogether. La nostra sfida non si ferma l’8 Marzo.