venerdì , 1 Novembre 2024

Femminismo, patriarcato e violenza. Rita Laura Segato e la guerra contro le donne

di PAOLA RUDAN

Negli ultimi tempi il nome di Rita Laura Segato è circolato di frequente al di fuori degli ambiti accademici anche grazie al movimento femminista Ni una menos, che si è spesso rifatto a lei per dare ragione del proprio schieramento e della propria iniziativa contro quella che l’antropologa argentina ha definito La guerra contra las mujeres (questo il titolo della raccolta dei saggi pubblicata nel 2016 da Traficantes de Sueños). Il richiamo è significativo, soprattutto perché proviene da un movimento nato anche dalla frattura con un femminismo confinato nelle aule universitarie e addomesticato attraverso la sua istituzionalizzazione e che, proprio per questo, è stato a lungo guardato con diffidenza dalle donne per la sua incapacità di dare voce alle loro lotte quotidiane contro l’oppressione e lo sfruttamento. Il riferimento a Segato da parte di un movimento femminista di massa e «popolare» permette allora di fare emergere da subito il senso politico della sua indagine, il cui scopo è di mostrare e rivendicare il portato globale di un’epistemologia e di una presa di posizione femminista. La sua comprensione della violenza patriarcale in un contesto tanto specifico quanto esemplare come quello latino-americano non si limita a denunciare una «questione femminile», ma ha la pretesa di illuminare trasformazioni che investono la società e le istituzioni politiche di fronte ai processi neoliberali di espansione del dominio del capitale. La riflessione di Segato, in altre parole, incontra la pretesa di fare della presa di parola delle donne una critica complessiva della società globale.

Il presupposto di Segato, già definito nel suo Las estructuras elementales de la violencia (2003) e sviluppato ulteriormente in questi saggi, scritti tra il 2004 e il 2015, è che la subordinazione sessuale sia la matrice di ogni dominio. La sua è perciò un’«etnografia del potere» nella sua forma «fondativa e permanente», ovvero il patriarcato, che si configura come struttura transepocale eppure storicamente determinata. L’epistemologia femminista è quindi in primo luogo una pratica storica che, a partire dalla sua parzialità, permette di «diagnosticare» trasformazioni societarie generali. La guerra contro le donne è così il sintomo dell’epoca del «capitalismo apocalittico», di un sistema che si alimenta della crisi, di una spinta incontrollata all’accumulazione, delle trasformazioni dello Stato e della sovranità di fronte all’intreccio di poteri sociali che agiscono su scala transnazionale. Essa non può essere più considerata solo una manifestazione del dominio maschile sul «territorio privato» della sfera domestica e neppure un «effetto collaterale» della guerra tra Stati, cioè un’aggressione materiale e simbolica mirata ad asservire le donne per affermare il dominio su un territorio. Al contrario, la guerra contro le donne è un vero e proprio «comportamento militare pianificato», funzionale alla costituzione di un dominio sul territorio là dove quest’ultimo non è più marcato da confini stabili e neppure soggetto alla sovranità esclusiva dello Stato.

In questa cornice interpretativa il «caso» di Ciudad Juárez ‒ globalmente noto per il numero esorbitante di femminicidi, per la loro ferocia e per la loro sistematica impunità ‒ diventa significativo proprio per la sua posizione sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti. La frontiera è il segno della dissoluzione del territorio, spazio di transito di capitali finanziari, merci e corpi mercificati, luogo in cui si costituisce quello che Segato definisce in prima battuta secondo Stato e in seguito seconda realtà, per segnalare l’integrazione di apparati di potere statali e parastatali, pubblici e privati, ma anche la coesistenza di forme legali e criminali di produzione, traffico e controllo regionale. Interrogandosi sul rapporto tra l’uccisione delle giovani donne di Ciudad Juárez ‒ nella maggior parte dei casi operaie e studentesse stuprate in branco e mutilate, prima di essere assassinate ‒ e i traffici criminali legati ai processi di accumulazione capitalistica, Segato registra l’emergenza di una forma di violenza «espressiva» più che strumentale. Essa va decifrata all’interno di un circuito comunicativo, come un «enunciato» i cui destinatari sono, allo stesso tempo, gli agenti della violenza e la popolazione. Nel primo caso, la violenza sulle donne istituisce una «confraternita maschile», un patto di silenzio che fonda la lealtà alla corporazione mafiosa e testimonia della spietatezza dei suoi membri, una spietatezza necessaria a condurre traffici altamente rischiosi. Nel secondo caso, la violenza contro le donne determina la soggezione a un potere che si afferma come «signoria» indiscutibile. Si tratta di un potere parastatale al quale Segato riconosce un carattere «totalitario», per la sua capacità di annichilire la «nuda vita» senza conseguenze e di spezzare ogni altro vincolo tra gli individui che non sia quello conseguito imponendo loro un’assoluta soggezione. Questa signoria è perciò performativa, perché produce un’unità della popolazione sulle macerie dei vincoli comunitari, «spettacolarizzando» l’annichilimento delle donne. L’aggressione contro i loro «corpi fragili» va quindi intesa come una minaccia rivolta all’intera comunità, che viene dissolta e ricostituita come «identità» e come «territorio» attraverso questo atto di sottomissione. «Il corpo delle donne, per la sua affinità arcaica con la dimensione territoriale, è la tavola su cui sono incisi i segni di adesione» e su cui si traccia il confine dell’antitesi tra amico e nemico. Al di là del ricorso a Schmitt, Agamben e Foucault ‒ che mentre indica una trasformazione della sovranità moderna sembra estenderne le caratteristiche alle forme parastatali di  «signoria», estremizzandole ‒ ciò che va sottolineato è il modo in cui, per Segato, la «pedagogia della crudeltà» caratteristica del tardo capitalismo rende quotidiana la violenza contro le donne abituando le masse a convivere con l’arbitrio. La violenza contro le donne gioca un ruolo essenziale nella riproduzione simbolica delle gerarchie e dell’economia del potere.

Riconoscere la funzione politicamente produttiva della guerra contra las mujeres significa effettuare un salto di paradigma. Segato non si limita a parlare di femminicidio ‒ termine con il quale si intende ogni forma di violenza letale contro le donne ‒ ma di femigenocidio, un crimine impersonale che riguarda le donne come categoria, come appartenenti a un genere, e che ha carattere non sessuale ma corporativo, nella misura in cui è costitutivo delle corporazioni di potere formali e informali che amministrano risorse, diritti e doveri propri di uno «Stato parallelo». Secondo Segato, la battaglia per il riconoscimento di questa fattispecie giuridica da parte del diritto nazionale e internazionale non avrebbe semplicemente lo scopo di stabilire protocolli di indagine efficaci e adeguare la definizione della guerra alla sua forma contemporanea. La posta in gioco è soprattutto quella di dare vita a una «narrazione» capace di conferire un significato condiviso alle parole e al problema cui danno un nome, trasformando la legge in un terreno di disputa e in un’arena politica. Emblematico, in questo senso, è proprio il modo in cui il termine femminicidio è stato utilizzato dalle donne in America latina molto prima che le autorità lo includessero nel diritto, diventando la leva per la costituzione di una «comunità di interessi» e per contestare il carattere patriarcale dello Stato.

Questa prospettiva afferma una centralità della presa di parola delle donne che tuttavia sfuma laddove Segato indica la necessità di una «politica femminile» intesa come «recupero della politica domestica» propria del «mondo-villaggio». Si tratta di un sistema di rapporti nel quale lo spazio pubblico maschile e quello domestico femminile sono sì organizzati gerarchicamente, ma sono anche riconosciuti entrambi come essenziali alla vita comunitaria. In questo «patriarcato a bassa intensità», come lo definisce Segato, all’oikos e alle attività femminili sarebbe attribuita «pienezza ontologica». Quello domestico non sarebbe uno spazio «privato» ‒ costruito per sottrazione rispetto a quello pubblico maschile, che la modernità coloniale ha identificato con l’universale ‒ poiché le donne vi svolgerebbero funzioni riconosciute dall’intera comunità e nelle quali si esprimerebbe «la stabilità del quotidiano», la «responsabilità per i legami e la diversità genetica», l’esperienza di «relazioni e pratiche di vita non burocratizzabili», la capacità di sopravvivere. Così, se la dicotomia moderna pubblico/privato spezza i legami comunitari e il capitale contemporaneo li ricostituisce nella soggezione attraverso la violenza espressiva contro le donne, la «politica femminile» indicato da Segato si configura come «politica dei vincoli», che sceglie «il cammino degli affetti anziché quello delle cose».  Per lei non si tratta di una prospettiva utopica ma topica. Benché il «mondo villaggio» sia stato travolto e trasformato dalla colonizzazione ‒ che ha così creato le condizioni per l’affermazione del rapporto sociale capitalistico e dello Stato moderno ‒ la pratica delle relazioni e della reciprocità che lo caratterizzano sopravvive all’interno delle comunità indigene e afroamericane che resistono all’accumulazione senza freni e all’espansione dispotica del capitale contemporaneo.

Di questa resistenza le donne sono protagoniste, combinando il senso di appartenenza a un pueblo, alla comunità, con pratiche di negoziazione dei rapporti e delle gerarchie tra i sessi al suo interno. Il vincolo che tiene unita la comunità rischia però di prevalere su una pretesa di libertà che non è rivolta indietro e neppure attecchisce sui resti di un «mondo-villaggio» travolto dalla modernità coloniale. Si tratta di una libertà che guarda in avanti, come quella praticata da donne e uomini migranti disposti a rischiare la vita nell’attraversamento delle frontiere per conquistarsi il proprio avvenire contro i rapporti sociali e sessuali che li opprimono. Eppure per Segato i movimenti delle e dei migranti sembrano soltanto un effetto del «desiderio prodotto da un eccesso», il desiderio delle cose, un’aspettativa indotta dal capitale che li spinge a inseguire dei feticci. È certamente vero, come dice Segato, che questo desiderio può rompere i vincoli comunitari ed effettivamente li rompe, tanto più quando la comunità che i migranti e le migranti si lasciano alle spalle è vissuta come un’ipoteca sul loro destino individuale. La logica «diseguali però distinti» che, secondo Segato, organizza la comunità può forse salvare le differenze dal dominio dell’universale ‒ maschio, bianco e proprietario ‒ che le pone al proprio servizio, ma il prezzo in tutti i casi è la subordinazione delle donne, per quanto a bassa intensità, come pure la riproduzione delle posizioni simboliche che la giustificano attraverso le epoche, come l’identificazione del corpo femminile con la terra e la natura.

Anche riconoscendo l’importanza della resistenza indigena contro le espropriazioni, le privatizzazioni e lo sfruttamento delle risorse, ciò che turba il desiderio di accumulazione del capitale e scatena la demonizzazione neoconservatrice dell’«ideologia di genere» che Segato registra nelle pagine introduttive del volume non è tanto questa pratica femminile di «addomesticamento della politica» ispirata all’ordine tramontato dell’oikos, che in definitiva riproduce un’altra divisione sessuale del lavoro, quanto piuttosto il rifiuto delle posizioni che, in modi diversi, il patriarcato impone. Le donne assassinate a Ciudad Juárez, dopo tutto, sono per la maggior parte – come abbiamo già detto – operaie e studentesse. Queste giovani donne hanno forse fatto esperienza di un diverso tipo di «addomesticamento»: quello che ‒ per riprendere la riflessione di Maria Mies ‒ intensifica il loro sfruttamento attraverso l’informalizzazione del lavoro, l’inferiorizzazione e la disciplina imposte con le molestie, mettendo a profitto le gerarchie sessuali che si riproducono attraverso la violenza. In tutti i casi, uscendo di casa, queste giovani donne hanno praticamente contestato quelle gerarchie sessuali e il loro destino domestico e poco importa che questo fosse imposto dalla logica «duale» della comunità o da quella «binaria» della modernità coloniale. Le centinaia di migliaia di donne che negli ultimi anni in America latina e in tutto il mondo hanno marciato, protestato e scioperato contro la violenza maschile non hanno portato in piazza una capacità di sopravvivere, ma una pretesa di vivere e di fare del proprio desiderio il punto di partenza per una radicale messa in questione dell’ordine patriarcale e neoliberale, di una rivoluzione, dunque, e non soltanto di una forma di resistenza. La riflessione di Segato incontra questa pretesa perché non confina le istanze avanzate dalle donne a una questione di «minoranza», ma ne fa il centro di una critica globale dei rapporti di potere. Questa critica perde però il suo portato globale, se l’alternativa allo stato di cose presenti è data dall’esperienza di comunità indigene identificate con il loro territorio, mentre le donne rischiano di scomparire quando il riferimento al sesso è cancellato dalla definizione della violenza e il genere diventa il nome generico di una categoria di esseri umani. Il carattere spettacolare, pubblico e visibile della violenza contro le donne non è soltanto espressione di un discorso e di un rapporto tra uomini, di un dominio maschile di cui le donne sono solo oggetto e vittime sacrificali. La violenza si intensifica e diventa sempre più visibile e pubblica perché le donne in modi diversi rifiutano, contestano e combattono quel dominio. Per questo, riconoscere l’«enunciato» veicolato dalla guerra contro le donne ‒ l’ingiunzione che impone a tutti di accettare in silenzio la propria subordinazione a un dominio dispotico, fondamentale per la riproduzione dell’ordine sociale e delle sue gerarchie ‒ non deve cancellare il messaggio, gravido di futuro, che le donne comunicano rifiutando quel dominio. In America latina e in tutto il mondo donne indigene e afroamericane, studentesse e precarie, operaie e migranti hanno urlato nelle piazze nos mueve el deseo, ci muove il desiderio, rivendicando qualcosa che ancora non è dato e che, collettivamente, va conquistato.

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