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La cronaca quotidiana della violenza contro le donne dice molte cose. L’assassino di Noemi è un diciassettenne bianco e italiano, che ha sostenuto candidamente di aver sterminato lei per evitare che lei sterminasse la sua famiglia. Un custode della tradizione e dell’ordine, quasi quanto i due uomini ‒ altrettanto bianchi e talmente italiani da indossare la divisa dell’Arma ‒ che a Firenze hanno ritenuto opportuno stuprare le due donne che avevano appena soccorso. Il panico si è diffuso tra le fila dei razzisti che per qualche momento, mai abbastanza lungo, hanno taciuto, nell’impossibilità di identificare migranti e stupratori. Essi hanno perciò tirato un sospiro di sollievo quando, per le strade di Roma, un giovane bangladese ha violentato una turista. Il ragazzo, però, ha di nuovo scombinato le carte in tavola dando prova di una compiuta integrazione e dell’esercizio convinto dello jus culturae tanto caro a Minniti: «era consenziente», ha dichiarato, mostrando di avere imparato la lezione dei due carabinieri fiorentini.
Come hanno sottolineato molte donne e femministe ‒ almeno quelle che non accettano che la condanna della violenza sessuale sia strumentalizzata a fini razzisti ‒ la verità di queste storie è un fatto politico. Non un problema di statistiche (l’ormai celebre «4 stupratori su 10 sono migranti») e nemmeno di tassi alcolemici («donne, l’alcol nuoce gravemente alla vostra salute sessuale!»). Il fatto politico è che tutti gli stupratori in questione sono uomini e nessun dato accidentale – religione, colore della pelle, status giuridico o classe sociale ‒ può cambiare questa realtà. Tutti questi uomini sono intimamente convinti che tutte le donne devono stare sotto, devono stare buone (cioè obbedire), devono stare zitte. La stampa e i media, che siano sociali o mainstream, fanno la loro parte nell’occultamento di questo fatto, come il padre premuroso che ha aiutato il figlio a nascondere il cadavere di Noemi. I dibattiti sulle cause (le statistiche, le birre bevute e le droghe assunte, la disoccupazione), sulle attenuanti (il consenso esplicito o implicitamente dichiarato da una spudorata minigonna), sulle aggravanti (la divisa), sul profilo degli stupratori (clandestini, irriconoscenti richiedenti asilo, ottimi mariti e padri di famiglia) e infine la scelta delle parole (la amava al punto di…) sono i dettagli che servono a nascondere la violenza degli stupri mentre li rendono pubblici e visibili, che rendono straordinario qualcosa che da molti punti di vista è sempre più ordinario. Un fatto sociale globale – la violenza maschile contro le donne ‒ diviene una serie di episodi di cronaca sul quale esercitare il proprio diritto di opinione e di scandalo. Una battaglia su come questa violenza viene raccontata, perciò, è comprensibile. Eppure è insufficiente.
Un filo rosso lega la violenza contro le donne, la colpevolizzazione di quelle che la subiscono e il razzismo. È un pensiero che si diffonde, fa presa, esercita un dominio e perpetua la violenza. È un modo di pensare gerarchico che esprime un’intimazione all’ordine che serpeggia prepotentemente nella società. Questo pensiero gerarchico si manifesta sugli scranni del parlamento e nelle leggi statali ed europee, sui posti di lavoro o nei commenti di Facebook, ai tavolini dei bar o nei salotti televisivi, nelle strade o nelle case. Esso agisce tanto più violentemente quanto più l’ordine è quotidianamente messo in questione da chi, come le donne, non accetta di stare sotto, di stare buona, di stare zitta, e anzi ha l’ardire di scendere in piazza e scioperare in tutto il mondo, in massa. È un pensiero che circola tanto più rapidamente quanto più ostinatamente i migranti e le migranti rifiutano di essere soltanto oggetti da accogliere, da spostare, da reprimere, da sfruttare. Noemi, a quanto pare, aveva troppi amici. Aveva una vita nel mondo indipendente da chi l’ha ammazzata, e chi l’ha ammazzata ha pensato che l’omicidio fosse un modo come un altro per schiacciare un’indipendenza vissuta come minaccia. E se pure è vero che non tutti gli uomini uccidono le donne, moltissimi credono e dichiarano senza remore né timore che il posto delle donne è un po’ più in basso, che ci sono cose che non possono osare. Lo stupro viene all’improvviso, la violenza però c’è tutti i giorni, silenziosa e senza scandalo. Il pensiero gerarchico impone una domanda d’ordine, simbolico e reale, riuscendo a far credere anche a chi le gerarchie le subisce che esse sono necessarie, e che non possono essere poste in questione senza mettere in pericolo l’intera società.
Secondo il pensiero gerarchico, anche la chiusura del mare operata da Minniti ‒ un mediocre custode dell’ordine ‒ è una risposta alla violenza contro le donne. Molti uomini e donne, sempre una di troppo, condividono quel pensiero. Diventa irrilevante che quella chiusura stia condannando migliaia di donne migranti a essere stuprate quotidianamente, senza troppo scandalo, nei campi libici da altri uomini in divisa, legittimati dallo Stato italiano, dall’Unione europea e dagli accordi internazionali. Altrettanto irrilevante è che il mare mantenga un’apertura soprattutto per le donne provenienti dalla Nigeria e destinate alla prostituzione, per le quali lo sfruttamento sessuale è una sorta di passaporto informale. Il pensiero gerarchico stabilisce diversi gradi di legittimità della violenza, promette la sicurezza ad alcuni al prezzo di quella di altri. Secondo il pensiero gerarchico, impedire i movimenti dei migranti e il loro arrivo è una risposta alla disoccupazione. Molti precari, uomini e donne, rischiano di pensarlo a loro volta. Intanto, i governi si organizzano per costringere al lavoro volontario ‒ cioè non pagato ‒ migliaia di uomini e donne arrivati in Europa negli ultimi mesi. Per il pensiero gerarchico è giusto che qualcuno non abbia nulla, affinché qualcun altro non pretenda di più.
La violenza dello stupro, la violenza dei confini, la violenza dello sfruttamento non sono solo parole, narrazioni tossiche, opinioni. Sono la dura realtà che il pensiero gerarchico organizza per milioni di donne, di migranti, di precarie e precari. La loro insubordinazione quotidiana, il loro rifiuto di stare al loro posto, la loro aspirazione alla libertà motivano l’intensificazione della violenza, la sua brutale visibilità, la sua invisibile presenza, e spiegano perché il pensiero gerarchico sia sempre più urlato e amplificato. Per evitare che questo richiamo all’ordine diventi senso comune non basta la battaglia sulle parole, la censura femminista, l’invocazione antirazzista della dignità. Non basta fare appello a un linguaggio democratico, rispettoso delle diversità, perché è proprio questa democrazia a richiedere un razzismo che addomestichi le diversità e soprattutto che neghi l’uguaglianza. Noi possiamo solo amplificare e catalizzare l’insubordinazione praticata da donne, migranti e precari, allargarne il campo d’azione, farla diventare una pratica collettiva di potere contro l’ordine e contro le gerarchie che si impongono con la violenza. Solo così possiamo combattere la violenza contro le donne, quella del razzismo, quella dello sfruttamento, riconoscendo nelle sue manifestazioni formali e informali, istituzionali e quotidiane, spettacolarizzate e invisibili, la pratica di un dominio.