giovedì , 19 Dicembre 2024

Capitalismo, piattaforme e trasformazioni del lavoro. Dialogando a distanza con Benedetto Vecchi

di MICHELE CENTO

Capitalismo delle piattaforme è una definizione precaria che ambisce a ricomporre la realtà in frammenti che viviamo ogni giorno. In virtù della sua precarietà, l’espressione si presta a evocare un mondo di mezzo, uno stadio di transizione che inizia con la crisi degli anni Settanta senza aver ancora concluso il suo ciclo, senza cioè aver raggiunto un assetto stabile che lo identifichi con precisione, come l’assetto fordista rendeva identificabile il capitalismo industriale. Più precisamente, lo suggerisce Benedetto Vecchi nel suo ultimo volume, con il quale vorremmo dialogare a distanza (Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, 2017), agli assetti certi il capitalismo delle piattaforme preferisce quelli a geometria variabile: è un agglomerato per sua natura instabile, rifiuta le vecchie «regolazioni» e mette a valore la presenza di identità diverse e non immediatamente riconducibili a unità, spacciando per ambivalenze quelle che sono le sue contraddizioni. In questo modo va dritto al cuore degli uomini: può dominarli perfino fuori dai tradizionali luoghi dello sfruttamento e fare a meno dell’intermediazione delle cose, grazie soprattutto all’intermediazione immateriale della Rete. È il capitalismo di Uber e di Airbnb, di Amazon e Facebook, di Foodora e di Google: una potenza sociale sotto forma di software che struttura la cooperazione sociale dentro e fuori il luccicante mondo digitale. D’altra parte, è la Rete ad amplificare la cooperazione sociale e trasformarla nel segno di una moltitudine che lascia irrisolto l’enigma della classe, cioè dello scontro non solo contingente e occasionale con il comando del capitale: è vero che la comunicazione non si dispiega più dall’uno ai molti ma dai molti ai molti, ma non per questo vengono meno, rileva lucidamente Vecchi, rigide gerarchie di potere. Proprio perché porta l’accumulazione perfino fuori dai luoghi della produzione, la Rete è un tonico ringiovanente per un sistema sociale che, sia pure a cicli alterni, per tutto il Novecento si è accompagnato all’aggettivo «tardo» o «maturo». Le crisi che lo colpiscono – queste sì – regolarmente non preannunciano più alcuno Spätkapitalismus, segnale premonitore della sua imminente consunzione, ma vengono spacciate come la prova di uno stato di giovinezza intrepida, eterna e senza tempo. Sharing e gig economy, smantellamento del welfare e imposizione del workfare, rivoluzione logistica e precarizzazione, cooperazione cognitiva e lavoro informale, neotaylorismo, industria 4.0 e mercato mondiale coesistono fianco a fianco nel capitalismo delle piattaforme, garantendogli un’immagine sempre nuova, dinamica, seducente. Non c’è dunque nessun post-capitalismo all’orizzonte, come vorrebbe il socialista utopista 2.0 Paul Mason, né Vecchi fa troppo affidamento sul manifesto accelerazionista di Nick Srnicek, poiché evidentemente la tecnologia cattura e valorizza gli input della moltitudine, ma non lavora alla sua liberazione.

Il capitalismo delle piattaforme è una realtà cangiante, caleidoscopica al punto da apparire incorporea e perciò sconfinata, più post-moderna che post-industriale e/o post-fordista. In altri termini, non ha abolito la fabbrica, né ha realizzato la vecchia promessa di Alfred Marshall di fare del lavoro un’attività da gentleman. Nel capitalismo delle piattaforme ci si continua a sporcare le mani, di grasso o di bit, perché la sua post-modernità non sta nell’avvento dell’automazione e neanche dell’intelligenza artificiale, ma nell’abbattimento dei confini dell’accumulazione, in virtù del quale la società entra in fabbrica. È questa evaporazione dei confini la risposta post-moderna del capitale alla crisi di accumulazione degli anni Settanta, dettata d’altronde dal rifiuto della classe operaia di essere semplicemente una merce. Se esistesse un quartier generale del capitalismo delle piattaforme oggi vi troveremmo scritto: Accumulare aude, perché tutto a questo mondo può essere messo a valore.

Il punto è che non c’è nessun quartier generale, nessun centro di un capitalismo delle piattaforme senza confini, ma non per questo siamo di fronte a una realtà evanescente. È invece una realtà sfaccettata ma granitica nell’attivare i suoi dispositivi di comando, sia pure camuffati dal mantra della condivisione, del peer-to-peer e dall’apparente neutralità dell’algoritmo. Non è tanto il passaggio da un modo industriale a uno digitale di produrre valore a caratterizzare il capitalismo delle piattaforme, quanto la sua capacità di assemblare vecchie e nuove forme di produzione con il fine di piegare la natura umana alla regola aurea dell’accumulazione. È la piattaforma a consentire, scrive Vecchi, la coesistenza tra intelligenza artificiale e lavoro servile, tra gli sweat shop e gli scintillanti laboratori dell’hi tech. Tale coesistenza viene garantita da una rivoluzione logistica che nella Rete ha il suo elemento di punta, ma che prende corpo nei corridoi terrestri, aerei e marittimi che solcano il globo. È allo stesso tempo la piattaforma a veicolare su scala altrettanto globale un regime del salario onnipervasivo, che ottiene dagli uomini obbedienza e – soprattutto – valore in cambio del libero desiderio di arricchirsi, di farcela, di avere successo. D’altra parte, chi non vorrà essere libero, sarà ugualmente costretto a esserlo da un regime del salario che non lascia scampo. Il fascino del capitalismo delle piattaforme deriva dalla sua promessa di libertà radicale, che viene però realizzata tramite la massimizzazione dello sfruttamento. Il desiderio è il feticcio a cui gli uomini e le donne si rivolgono in assenza di un salario adeguato per acquistare le merci a cui il vecchio individuo della società dei consumi aveva accesso. Mentre lo spettro del debito aleggia minaccioso sul desiderio, quest’ultimo sembra poter essere esaudito solo tramite un’impresa privata e più o meno solitaria, di cui la start-up è l’incarnazione ultima. Nel capitalismo delle piattaforme la libertà più foolish si materializza sotto il giogo di una coazione tanto più intensa quanto più a scarseggiare sono le alternative plausibili. Occultando l’elemento coattivo e proiettando tutti in un mondo che sembra fuoriuscito dalla mente di Steve Jobs, il desiderio svolge così la funzione ideologica di oliare i meccanismi dell’assoggettamento degli individui al regime globale del salario, «senza aver bisogno – per riprendere la definizione althusseriana di ideologia – di un gendarme individuale alle spalle». D’altra parte, anche in assenza del gendarme ideologico, il capitalismo delle piattaforme, nota Vecchi, fa solo retoricamente a meno dello Stato, poiché si serve del suo apparato giuridico, infrastrutturale e repressivo a cui si associa ora un apparato governamentale a sfondo sociale che elargisce forme di reddito in cambio della piena disponibilità al lavoro.

Solo nella propaganda neoliberale questo individuo desiderante piegato alla nuova ragione neoliberale è la riedizione del vecchio individuo proprietario. È piuttosto un individuo radicalmente spossessato, a cui si prospetta la possibilità di riappropriarsi della sua piena individualità: di poter decidere della propria vita, che assume ora le forme contorte di decidere della propria «fortuna» e del proprio tempo, fino a scadere in quelle più sanguigne del decidere del «proprio» territorio e perfino della «propria» donna. Semmai, smantellato ormai ogni piano di mediazione, l’illusoria proprietà del territorio e/o della donna è l’ultimo risarcimento che il neoliberalismo è disposto a concedere alla folla di espropriati che popolano la società, senza che il lavoro costituisca più il canale per (ri-)acquistare la proprietà di sé, ma soltanto una necessità dettata dal comando del denaro. È in questo specifico senso che diventare imprenditori di se stessi palesa una funzione ideologica, proprio perché ciò che davvero garantisce è unicamente la possibilità di espropriare le vite altrui, siano esse precarie o migranti. E di farlo incessantemente nella speranza di riappropriarsi di un’esistenza ormai fuori dalla propria disponibilità e interamente ceduta alle illimitate potenzialità accumulative del capitale. Stay hungry and stay foolish, dunque, ma senza dimenticare una gloriosa tradizione di dominio sessuale e razziale. Il capitalismo delle piattaforme è dunque un coacervo di accelerazioni del tempo storico e repentine marce indietro: è la promessa del regno della libertà – automatizzata e artificiale – che si staglia seducente ma inerte sul ferreo regno della necessità – materiale e reale – in cui viviamo.

In fondo, da sempre il capitalismo è il sistema sociale delle contraddizioni e si è storicamente riprodotto in virtù della sua capacità di mantenerle in movimento. Perché allora il capitalismo delle piattaforme segna un mutamento di insieme del regime di produzione dominante? Perché la produzione diventa sociale. Perché, scrive Vecchi, il plusvalore e il pluslavoro vanno declinati come concetti che non riguardano solo la produzione in senso stretto, ma l’intera triade – produzione, circolazione, distribuzione. Come appare evidente dall’ultimo capitolo dedicato alle trasformazioni del lavoro vivo, le piattaforme hanno aperto alla fabbrica i cancelli della società, garantendo un costante flusso bidirezionale. Si sono avvantaggiate delle svariate forme di precarizzazione, ma al tempo stesso ne hanno sperimentate di nuove, informali e non regolarizzate, ma non meno efficaci nell’incatenare gli individui al regime del salario, secondo il modello del turco meccanico di Amazon. Imponendo il dominio mansueto e al contempo violento dell’algoritmo, le piattaforme mandano in soffitta il mito della cooperazione autonoma, poiché stabiliscono le forme in cui essa deve dispiegarsi. Il capitale non è solo un parassita ma organizza ancora il vivere in comune degli uomini e delle donne. Lungo questa via Vecchi non può che rilevare la continuità tra lavoro cognitivo e lavoro operaio. Il lavoratore cognitivo è sì un’articolazione fondamentale nella produzione sociale, ma non è la figura politicamente centrale nella composizione di classe contemporanea, dal momento che i knowledge workers finiscono spesso per sposare la causa della fabbrica-piattaforma applicata alla società-piattaforma. Certo, ciò non significa che non possano esserci margini di autonomia, ma, rileva Vecchi, sono appositamente predisposti dal capitale per superare i colli di bottiglia del processo di accumulazione. È qui che il capitale cattura il valore aggiunto di una cooperazione che, anche quando appare autonomamente produttiva, arride interamente al capitalista. D’altra parte, sembra che qui si approfondisca la distinzione tra il knowledge worker di Google, il cui contratto prevede ore di lavoro autonomo retribuito, e il facchino di Amazon o il biker di Foodora o, ancora, tra il programmatore di software e l’operaio digitale del data entry. Mentre i primi sembrano parte di una new class che ha ormai assorbito i valori del capitalismo delle piattaforme e su di esso ha costruito ruoli di comando, i secondi sono sottoposti al potere logorante dell’app, dell’algoritmo, di una macchina che impoverisce il lavoro invece che liberare dalla schiavitù del salario. In altri termini, esiste un neotaylorismo digitale che approfondisce la distinzione tra questa folla messa al lavoro (crowd-work) di executants poveri, senza diritti e la cui vita è marchiata dall’intermittenza di un lavoro sfuggente e una classe che sta invece al di qua del software, perché ne stabilisce la razionalità in accordo con la filosofia d’impresa. Da una parte, la mandria docile e mansueta che aveva in mente Frederick Taylor, dall’altra gli ingegneri delle piattaforme che invece del cronometro maneggiano i codici. Per questo appare come un esercizio di wishful thinking quello di chi, anche nel movimento, scommette sul potenziale di rottura di un ceto medio che agisce in realtà come una new class che, almeno per il momento, ha deciso da che parte stare. E non è la nostra, ma quella di delegati al comando del capitale sulla società.

D’altra parte, qualche perplessità conviene mantenerla anche sul grado di unitarietà della folla-lavoro che, sebbene non sia per nulla docile e metta in scena sorprendenti forme cospirative e organizzative – vedi i riders di Foodora –, inclina pericolosamente verso il modello folla solitaria, i cui atomi, cioè, rincorrono individualmente ma con modalità e valori analoghi un’impossibile riappropriazione del sé. In questo senso, il lavoratore-folla parte da una condizione simile all’operaio massa, ma rischia di tracciare una parabola dagli esiti completamente opposti.

Forse è per questo che Vecchi conclude sull’incognita del politico, il punto interrogativo che emerge una volta mappato il capitalismo contemporaneo. È l’interrogativo sul «che fare» di fronte alla catastrofe della democrazia e alla crisi della rappresentanza, all’incapacità della politica di governare l’economia, all’insufficienza delle forme organizzative disponibili. Moltitudine, sindacalismo di tipo nuovo («reticolare») – alcuni dicono sociale – e il comune sembrano per Vecchi tracciare una pista da battere. Occorre però registrare che sempre più frequentemente segmenti rilevanti di quella moltitudine individuano e agiscono punti di impatto con le catene globali del valore e chiamano la loro azione sciopero. Senza rimanere impigliato nei luoghi di lavoro, lo sciopero interrompe la dinamica sociale della produzione e per questo è stato la pratica e la parola risuonata nelle piazze francesi in rivolta contro la loi travail. Uno sciopero contro i confini, uno striking the borders, è però anche quello che quotidianamente i migranti convocano contro il governo europeo della mobilità. E, ancora, la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo si è data l’8 marzo attraverso lo sciopero lanciato dalle donne. Non si tratta di fare dello sciopero un feticcio. Lo sciopero registra la molteplicità di punti di impatto con il capitale, riflettendo la natura multiforme e composita di pratiche che indicano a precarie, operai e migranti l’alternativa all’ingannevole riappropriazione del sé tracciata dalla ragione del mondo neoliberale. E lo ha fatto uscendo radicalmente dai ristretti recinti del movimento: attraversando la società, ha costretto donne e uomini a scegliere letteralmente da che parte stare. Ha imposto cioè un regime discorsivo ampio su cui è stato possibile costruire conflitto. Sia pure in maniera limitata nel tempo ha spezzato l’intreccio perverso tra fabbrica e società su cui il capitalismo delle piattaforme si muove incessantemente. Lo sciopero è interruzione della produzione di società. Per la sua vocazione globale e la sua capacità di attraversare spazi apparentemente incomunicabili – la casa e il luogo di lavoro, il confine e la città, il corteo e il riot – lo sciopero è all’altezza del suo avversario. In questo senso, lo sciopero non è la risposta, ma parte dell’«incognita del politico», che è allora l’incognita del potere, di come esercitare forza contro forza per rendere duratura ed emancipativa la frattura che lo sciopero produce ogni volta che si materializza nella sua faccia sociale e transnazionale.

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