di NICCOLÒ CUPPINI da Infoaut
Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 13 luglio col titolo Il contropotere è cittadino.
L’intervista è stata realizzata giovedì 29 giugno a Bologna, dove Harvey era presente per la Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theories. Abbiamo evidenziato col grassetto i passaggi politici a nostro avviso più significativi dell’intervista, che spazia dall’interpretazione di Marx all’analisi del capitalismo, dalla relazione tra mutazioni dello Stato e della città nel contesto neoliberale fino a una riflessione sui movimenti. Su di essi il geografo marxista analizza in particolare la dinamica di repentina diffusione delle mobilitazioni urbane a livello globale, come la sequenza di insorgenze del 2011-2013, indicando la necessità di cogliere quali elementi di profondità l’abbiano resa possibile. È su questo elemento che ci pare Harvey ponga una delle domande cruciali, ossia quale politica sia possibile costruire su questi processi. Una domanda tutt’ora senza risposta ma sulla quale rimane decisivo continuare ad interrogarsi.
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Cominciamo dalle origini della tua elaborazione, che parte da Cambridge ‒ dove non ti muovevi all’interno di un approccio marxiano – e a fine anni Sessanta muove sulla sponda opposta dell’Atlantico, a Baltimora. Qui hai modo di osservare la scaturigine o l’affermarsi di un plesso di processi che negli anni a venire e sino a oggi formano i principali vettori di analisi dell’urbano. Baltimora è infatti piuttosto emblematica per quanto riguarda i processi di razzializzazione inscritti nella geografia urbana e le forme di conflitto che a essi si accompagnano, come nei riot dei Sessanta «riapparsi» nel 2015 dopo la morte di Freddie Gray; è una tipica città duramente segnata dalla post-industrializzazione; caso emblematico di gentrification del centro cittadino col rifacimento del porto; nonché esempio iconico di sprawl urbano nella cosiddetta BA-WA, la metropoli diffusa che lega Baltimora a Washington. Sono questi elementi che ti conducono a concentrarti sulla «città» quale lente analitica privilegiata, tanto da arrivare anni dopo a dichiarare che «il mio obiettivo è la comprensione dei processi urbani sotto il capitalismo»? E come mai decidi di dedicarti allo studio di Marx e di usarlo assieme alla città quali framework della tua analisi? C’entra forse l’analisi di Henri Lefebvre?
Sono andato a Baltimora un po’ perché ero interessato alle lotte sociali che erano in corso nelle zone urbane degli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta, mentre era in pieno svolgimento quella che veniva definita come Urban Crisis. Quella era davvero una crisi, o volendo una serie integrata di crisi, che toccava l’urbano così come i soggetti dimenticati e marginalizzati, la questione razziale… Quindi sono partito con l’idea di curvare il mio lavoro verso la ricerca urbana. Quando sono arrivato stavano succedendo anche molte altre cose: il movimento conto la guerra, il movimento per i diritti civili… Erano tempi duri per la storia americana, ed era impossibile non rimanere coinvolti in quel contesto. E io rimasi profondamente coinvolto in quanto stava avvenendo a Baltimora, in particolare nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King, quando gran parte della città venne data alle fiamme, venne in pratica cacciato il governo civile dalla città e ci fu un’occupazione militare della città. Ci fu davvero un’insurrezione della popolazione, non solo a Baltimora ma anche a Los Angeles, Detroit, Chicago, dappertutto. Ho dunque cominciato a sviluppare dei progetti di ricerca per l’università per comprendere le condizioni che avevano portato a questa eruzione. Mi confrontai col problema di come scrivere di quei fenomeni in un modo che avesse un qualche senso, accorgendomi che la maggior parte dei discorsi proposti dalle scienze sociali di fatto non funzionava, parlando sia degli studi sociologici, sia di quelli economici o psicologici. Quindi andai alla ricerca di altri framework interpretativi, e assieme ad alcuni studenti decidemmo di leggere Marx per vedere se poteva avere una qualche utilità. Quindi cominciai a leggerlo, scrivendo dei testi sulla questione abitativa della città, adoperando alcuni suoi concetti come quelli di «valore d’uso» e «valore di scambio», e mi accorsi che le categorie che si possono prendere da Marx potevano essere davvero utili per spiegare la situazione. Fu davvero interessante che, iniziando a scrivere numerosi rapporti di ricerca con un linguaggio marxista e presentandoli a banchieri, persone della finanza o delle istituzioni, tutti mi dicevano che erano lavori eccellenti (perché non sapevano che venivano da Marx!). Fu lì che capii definitivamente che Marx aveva ragione e dunque proseguii in quella direzione, facendo lentamente emergere il progetto dello sviluppo di un approccio marxista all’urbanizzazione, cosa per nulla comune al tempo se non per qualche sociologo francese come Henri Lefebvre, ma io a quel tempo non l’avevo ancora letto. Conoscevo Manuel Castells e lo incontrai nel 1967, cosa che mi aiutò a conoscere ciò che stava accadendo in Francia a quel tempo. Tutto ciò mi ha portato alla pubblicazione del mio primo libro, Social Justice and the City, che è diviso tra una parte formulata in termini liberali e una marxista. […] Baltimora era una città industriale quando arrivai lì e la classe operaia bianca impiegata nei motori, nell’acciaio, nella costruzione di navi era molto sindacalizzata e stava piuttosto bene, potendosi permettere la casa nei suburb e uno stile di vita piuttosto privilegiato. Questa suburbanizzazione era intrecciata a una politica reazionaria legata a doppio filo a una dimensione razzista, implicata in ciò che stava accadendo nel centro città – che veniva letto sostanzialmente come un’insorgenza razziale. In parte ovviamente lo era, ma più che altro quel fenomeno indicava una divisione all’interno della working class tra pezzi di classe operaia bianca privilegiata e tutto il resto, che veniva lasciato davvero molto indietro.
Hai fatto accenno a Castells, e mi pare interessante il fatto che tra voi due ci sia una sorta di parallelismo, anche se segnato da nette e molteplici divergenze. Il primo tuo libro di cui parlavi segue di un anno La questione urbana di Castells (1972). Nel 1989 escono due vostri testi ‒ The Urban Experience (Harvey) e The Informational City (Castells) – mentre più di recente avete affrontato entrambi il tema dei «movimenti urbani» con Rebel Cities (Harvey, 2010) e Networks of Outrage and Hope (Castells, 2012). Avresti voglia di spendere qualche parola rispetto a convergenze e differenze tra il tuo approccio e quello di Castells?
In qualche modo dovresti chiederlo più a lui che a me, perché io ero molto vicino a lui durante gli anni Settanta, ma con The City and the Grassroots (1983) egli iniziava a ritenere che i movimenti urbani non fossero movimenti di classe, abbandonando quindi la prospettiva marxista. Io invece non vedevo il motivo di tale abbandono, e non ho mai capito cosa lo portò a tale cambio di direzione. Probabilmente ha a che fare col lavoro politico che stava facendo con il Partito Socialista, che aveva il suo istituto di ricerca col quale collaborava, e lavorare all’interno del filone socialdemocratico avrà sicuramente influito sul condurlo verso modelli interpretativi socialdemocratici. È un passaggio che ha coinvolto molti comunisti spagnoli, come ad esempio Jordi Borja. Più tardi, ai tempi degli scritti sulla città informazionale, Castells rientra in qualche misura all’interno di una posizione marxista, di quelle che ritengono che sono le forze produttive a guidare la storia. Ma questa non è la mia posizione, e credo che nemmeno Marx abbia mai assunto questa postura teorica. Ritengo dunque che Castells abbia avuto un’interpretazione di Marx piuttosto limitata, relativa appunto alle sole forze produttive e molto legata a quello che si potrebbe definire come il dogma dei Partiti comunisti europei (penso a quello francese, a quello spagnolo, a quello italiano ecc…). Lui è sempre stato molto coinvolto in quei mondi. Io ho invece sempre pensato che ciò che accade nella produzione debba costantemente essere messo in parallelo con l’analisi di classe e con le dinamiche della riproduzione. E da questo punto di vista ritengo che l’urbano sia il quadro all’interno del quale questi vettori possono essere meglio interpretati congiuntamente. Ho sempre interpretato Marx in questa direzione: c’è una politica della produzione, e c’è una politica per la realizzazione del valore, che avviene nelle città. E il processo complessivo è importante tanto quanto il momento produttivo. Diciamo che cerco di tenere assieme quella che potremmo definire come la «totalità» marxiana, mentre la posizione di Castells è molto più ristretta, esclusivamente produttivista […] e in questa direzione si capisce come si possa arrivare ad abbandonare Marx. […] Ciò non vuol dire che alcuni concetti di Castells non siano comunque molto rilevanti.
A partire dagli anni Ottanta vieni definendo uno dei temi che contraddistingueranno la tua ricerca, ossia l’analisi critica del neoliberalismo. Potresti mettere questo tema in relazione alle mutazioni dello Stato nel suo rapporto con la città? Quali sono le implicazioni del trasformarsi di questa relazione?
Quando lo Stato ha iniziato a ritirarsi dalla fornitura di servizi sociali, il progressivo declino del welfare state, si sono aperte una serie di questioni rispetto a chi e come si dovesse sviluppare la distribuzione dei servizi sociali. E uno dei modi coi quali lo Stato si è relazionato a tale problema è stato quello di ributtare tutte queste funzioni addosso ai governi delle città dicendo: «non è un mio problema, risolvetevela voi». E chiaramente a quel punto non è che lo Stato ha inviato maggiori risorse alle città, nonostante queste stessero affrontando un numero crescente di problematiche come il social housing, l’aumento delle povertà ecc… Le municipalità vennero abbandonate, dovendo cominciare a trovare le risorse in maniera autonoma. È quello che ho definito come il passaggio da una forma manageriale del governo locale a una governance urbana di tipo imprenditoriale. A quel punto il tema dello «sviluppo» urbano è divenuto centrale, con un peso sempre più rilevante acquisito dai developer, di fatto gli unici soggetti a garantire un gettito fiscale per il bilancio delle città per poter affrontare i problemi sociali. Purtroppo ciò ha prodotto uno spostamento netto delle risorse, che sono andate sempre meno a coprire i costi necessari per il sociale e sempre più a sussidiare le corporation, proprio mentre i fondi statali diminuivano. E nessuno si oppose a ciò. Qualcuno disse che si poteva costruire una città in cui i bisogni sociali sarebbero stati affrontati col gettito proveniente dallo sviluppo urbano. Ad esempio Bloomberg a New York diceva che solo le industrie che versavano contributi alla città sarebbero potute rimanere in città. Ma il retro-pensiero di tutto ciò è che la stessa regola sarebbe dovuta valere anche per le persone… E quel modello si è realizzato, come abbiamo da poco visto rispetto a quel terribile incendio che c’è stato a Londra alla Greenfell Tower. È stato l’emblema di come un municipio ricco tratta e considera i poveri, di come di fatto ci si occupi di disfarsi di loro non preoccupandosi del tema della sicurezza abitativa. È questo il tipo di gestione che si è sviluppato nella città imprenditoriale, un modello contro i poveri che si è diffuso nella maggior parte dell’Europa occidentale e del Nord America.
Colleghiamoci a quest’ultimo tema per porre una domanda sui movimenti sociali, in particolare in relazione alla loro possibilità di incidere su queste dinamiche, dunque rispetto a un nodo che per molti anni è stato rimosso, ossia quello della relazione tra movimenti e la questione del potere. Nello specifico, negli ultimi anni si stanno confrontando diverse esperienze ed elaborazioni teoriche. Giusto per menzionarne alcune, si potrebbe citare una posizione che guarda all’«assemblea» quale forma specifica dei movimenti sociali (penso ai recenti scritti di Judith Butler o a Negri e Hardt), ci si potrebbe riferire a un’esperienza come il Rojava, dove una forma-partito piuttosto tradizionale si è misurata con una dimensione inedita (riassumibile a livello teorico nell’incontro della riflessione di Abdullah Öcalan con le idee municipaliste di Murray Bookchin), passando infine per una spinta a riconsiderare il ruolo dello Stato (soprattutto, ma non solo, all’interno del cosiddetto «populismo di sinistra»). Ti chiederei dunque qualche riflessione in proposito, legandola magari al discorso di prima sullo Stato.
Io sono stato molto d’accordo con quanto diceva ieri sera Sandro [Mezzadra, all’evento «Critical Dialogue» che ha visto un confronto tra i due, nel contesto della Summer School bolognese «Sovereignty and Social Movements»], ossia che lo Stato ha un ruolo davvero importante in qualsiasi tipo di trasformazione radicale dell’ordine sociale. Ossia non dobbiamo essere Stato-fobici, con ciò intendendo che non vogliamo avere nulla a che fare con lo Stato. Allo stesso tempo, se si assume una postura Stato-centrica ci si allontana dalla possibilità di realizzare effettivamente una trasformazione radicale. L’unica possibilità è che si costituiscano una serie di poteri al di fuori dello Stato, che siano però in grado di intrattenere una relazione forte con esso. Ma appunto, senza questo «fuori» dallo Stato, non ci sono possibilità. È quanto abbiamo visto ad esempio con l’esperienza di Syriza e il suo progressivo identificarsi col potere dello Stato, che ha prodotto un drastico esaurirsi dei poteri dal basso. Anche in Spagna credo che Podemos sia in qualche modo di fronte allo stesso dilemma, non che siano nella stessa posizione di Syriza, ma potrebbero arrivarci. Io penso ci siano grandissime potenzialità in questa relazione: lo sviluppo di movimenti sociali indipendenti dall’apparato politico e come questi possono interagire sullo Stato. Un’organizzazione politica davvero forte non può che svilupparsi assemblando differenti strutture e molteplici livelli, cosa che in qualche misura si sta determinando in Rojava, nel nord della Siria. In questo senso credo sia necessario trovare un bilanciamento rispetto a questo continuo timore di rapportarsi allo Stato, proprio nel momento in cui gli Stati sono sempre più dominati dal potere finanziario che lavora di continuo contro i movimenti sociali.
Proprio rispetto a questo, tu in passato hai adottato la formula del «Partito di Wall Street» per indicare come lo Stato fosse sempre più colonizzato dalla finanza. Non è un rischio, o una potenziale contraddizione, guardare allo Stato proprio in questo contesto?
Bisogna considerare che il Partito di Wall Street è stato recentemente sfidato dal movimento che si è prodotto attorno alla candidatura di Bernie Sanders, anche se probabilmente da quando lui ha deciso di accettare la politica corrente l’emergenza che si era prodotta attorno alla sua figura è in qualche modo rientrata. Ma il punto è che bisogna chiedersi perché il Partito di Wall Street controlla il Congresso, di fatto comprandoselo. Poi ci sono chiaramente altri livelli dove le cose possono andare in modo differente. I municipi possono essere luoghi per una possibile rivalsa di una politica di sinistra, e ciò sta accadendo a Seattle, Los Angeles, e in molte altre città. Anche a livello amministrativo ci sono molti governi urbano estremamente più radicali delle stesse forme a livello nazionale. A questo livello Wall Street non ha lo stesso tipo di presa, anche se ovviamente esistono altri tipi di poteri che contrastano questa possibilità. Penso in primo luogo ai developer e alle loro lobby, in generale al mondo delle costruzioni (anche i sindacati dei costruttori in fondo hanno posizioni pro-development). È dunque in corso una battaglia in molte città. Per esempio a New York c’è un sindaco molto di sinistra, ma di fatto non è in grado di contenere il potere delle lobby del real estate (che qui sono davvero forti, più che da ogni altra parte), anche perché bisogna considerare che l’attuale piano di sviluppo urbano è stato per lo più disegnato dal precedente sindaco Bloomberg, con una forma tutta protesa verso la speculazione. Quindi c’è anche un problema di tempo, per cui anche una posizione molto di sinistra come quella di De Blasio fatica a incidere per davvero.
Facendo un salto nel discorso per arrivare alle ultime due domande, potresti sviluppare una riflessione rispetto alla proliferazione di teorie che negli ultimi decenni sempre più stanno mettendo in relazione la città e il globale. Dalla rete di città-mondo di Allen J. Scott alla nota città globale di Saskia Sassen, passando per la più recente concettualizzazione sull’urbanizzazione planetaria proposta da Neil Brenner e Christian Schmid, fino ad arrivare alla relazione tra urbano e antropocene sulla quale riflettono Ash Amin e Nigel Thrift in Seeing Like a City o alla Connettografia basata sul ruolo geopolitico delle mega-città proposta da Parag Khanna, la relazione tra urbano e globale pare in qualche modo ormai costitutiva. Cosa ne pensi? Come interagiscono per te queste due dimensioni soprattutto in una prospettiva politica?
Penso che in effetti questa concezione di un’urbanizzazione planetaria sia un fatto indubbio. Siamo di fronte a una configurazione di poteri politici locali che possono essere giocati nei termini di una mobilitazione di massa per incidere nella politica. Credo che l’esempio più recente cui possiamo guardare rispetto a questo tema è relativo a ciò che avvenne nel 2003, il 16 febbraio, quando milioni e milioni di persone scesero in strada contro la possibilità di una guerra. In milioni per le strade di Roma, Madrid, Londra, New York… E ovviamente senza nessun tipo di organizzazione specifica né tanto meno una sorta di grande mano invisibile cospirazionista alle loro spalle! Si trattava di una rete complessa che aveva generato un movimento globale di massa. E fenomeni del genere hanno luogo anche a livello nazionale, come accaduto in Turchia quando, dopo la sollevazione di Istanbul, moltissime altre città si sono mobilitate. O ancora in Brasile, quando dopo San Paolo in tantissime altre città le persone sono scese per strada. Quando succedono cose simili non si può far finta di nulla, o pensare che non ci sia una qualche dinamica in atto nel profondo… Sarebbe una pura fantasia sennò. Il punto, ovviamente difficile, ma che andrebbe pensato, è cosa sarebbe successo se tutte quelle persone scese in strada nel 2003 contro la guerra fossero rimaste in strada… Cosa sarebbe successo? Cosa sarebbe successo, politicamente, se si fosse realizzato uno sciopero di massa di quello dimensioni e in tutto il mondo? Se tutte quelle persone avessero detto: «Basta, questa guerra non la farete, noi rimaniamo per strada finché non capitolerete». Credo davvero ci sia una concreta possibilità in ciò. Al contempo non è che voglio romanticizzare, parlando troppo delle reti di città liberate o cose simili… Ma comunque su questo non bisogna sminuire. Voglio dire: l’insorgenza brasiliana è iniziata una settimana dopo quella di Gezi, e quello che mi ha colpito quando ho parlato con alcuni attivisti coinvolti in quella protesta è mi hanno detto: «Certo, stavamo guardando ciò che stava accadendo a Gezi!». Insomma, l’«effetto contagio» può davvero essere molto forte e veloce. Ora, la domanda difficile è: quale politica è possibile costruire su tutto ciò? Quale politica sta dietro a questi movimenti di sinistra? […] Ma il punto è che, per me, in questo momento c’è un’enorme alienazione della popolazione urbana, a causa di una sempre minor democrazia, sempre minor potere, il declino della qualità della vita, l’austerità e il taglio dei servizi sociali, un mercato immobiliare divenuto totalmente pazzo, fuori dal controllo e totalmente speculativo, coi prezzi che sono schizzati a livelli ridicoli… Abbiamo tutti questi temi ai quali vanno aggiunti il declino degli investimenti nell’educazione e tanti altri fattori… E i partiti non rispondono a questi temi, i governi sono guidati dai developer e dalla finanza… Ecco, credo davvero ci sia la possibilità che accada qualcosa di molto rapido per una trasformazione urbana.
Ultima domanda. Tu sostieni che il modo nel quale organizziamo le nostre città dev’essere legato al tipo di persone che vorremmo essere e, da un punto di vista in qualche misura analogo, che dobbiamo sempre più chiederci se le città debbano essere spazi per l’investimento o luoghi per l’abitare. A me questa «scissione» riporta in mente l’antica distinzione latina tra urbs e civitas, tra la città intesa come infrastruttura fisica e la città come insieme dei cittadini, elementi che per i romani rappresentavano un campo di tensione e che invece la modernità ha progressivamente separato fino a rendere la città meramente un urbs. Si potrebbe dire che sarebbe oggi necessario riconnettere i due termini?
Sì, penso che il punto stia esattamente qui. Sarebbe decisivo rivitalizzare l’idea di cittadinanza nei termini della città, un qualcosa che si è assolutamente perso. In qualche modo penso sia possibile ripartire dalle forme di democrazia praticate dai «movimenti delle assemblee» per recuperare quella concezione. Allo stesso tempo sarebbe necessario riuscire a esercitare una qualche forma di influenza sugli investimenti urbani e sui progetti che su di essi vengono elaborati, insistendo sulla direzione di questi investimenti: da dove vengono? A quali interessi rispondono? Stanno funzionando per migliorare l’ambiente nei quartieri e la vita delle persone? Danno una possibilità egualitaria di accesso all’educazione? Consentono una eguale distribuzione delle possibilità di vita nella città? Sono orientati all’integrazione delle popolazioni migranti all’interno della città (mentre le attuali politiche migratorie stanno attualmente distruggendo le città)? Invece gli urbanisti stanno per lo più producendo e riproducendo il modello della gated community, e l’isolamento di questa popolazione segregata dentro le loro mura… Ronald Regan disse a Gorbačëv «abbatti quel muro!», ma avrebbe dovuto dirlo ai costruttori americani dei suburb, dei veri e propri costruttori di muri. Adesso le mura sono ovunque in America, questi spazi chiusi alla città dove non c’è nessuna possibilità di sviluppare un’idea di appartenenza alla totalità della città, e dunque non si realizza nessun interesse rispetto a ciò che in essa accade, non c’è nessuna attenzione nemmeno a ciò che succede al proprio fianco.
Questo discorso rimanda a quanto scrisse in uno dei suoi ultimi articoli Henri Lefebvre, che nel 1989 in Quand la ville se perd dans la métamorphose planétaire uscito su «Le Monde Diplomatique» chiudeva, facendo in qualche modo il punto sulla sua intera prestazione intellettuale, dicendo: «Il diritto alla città non implica nulla di più che una concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica».
Esatto, penso ci sia ancora molto da pensare proprio partendo da lì.