di LYNE MARAT – Parigi
Se potevamo considerare la prima vittoria di Macron scontata e immaginarci il povero popolo francese schiacciato in un angolo, le elezioni legislative ci dicono che invece la maggioranza dei francesi non astenuti, circa il 44%, ha ufficialmente dato carta bianca al maratoneta dell’Eliseo. In fondo questo uomo della provvidenza post-ideologica ha ottenuto alle presidenziali poco più del 20% dei voti dei francesi, più o meno la stessa percentuale ottenuta da Le Pen, Fillon e Mélenchon. Le elezioni legislative sono state decisamente più interessanti e il solo a essersene accorto pare essere stato lo stesso Macron. Con toni preoccupati, infatti, ha registrato che parlamento e governo rischiano di diventare una cosa sola. La grande «palude» dei deputati di En Marche sarà costretta a sgomitare per farsi notare in qualche modo, dal momento che è destinata ad approvare senza discussioni le decisioni del presidente e del suo esecutivo, a sua volta subito sottomesso all’accelerazionismo del nuovo enfant prodige della trasparenza, capace di macinare tre ministri in pochi giorni. Quella che appare come una grande vittoria rischia così di trasformarsi nella prova più evidente delle difficoltà di un sistema politico che, non solo in Francia, cerca ostinatamente nell’esecutivo la sua salvezza. Dobbiamo inoltre chiederci: se parlamento, esecutivo e presidente rischiano in buona misura per coincidere, se il parlamento non è lo spazio per un’opposizione credibile, quali strade può prendere l’opposizione che le misure promesse da Macron rischiano seriamente di provocare? Il successo di Macron può essere un’occasione per i movimenti?
Guardando le cose da questa prospettiva, bisogna dire che Emanuel Macron ha un grande merito. La sua elezione, infatti, ha permesso ai resti del movimento francese, fino a qualche settimana fa morente, di ritrovare un proprio obiettivo. Gli attacchi espliciti al codice del lavoro hanno fatto riemergere assi di convergenza che si erano costituiti nell’anno di lotte contro la loi travail. Si sta manifestando la volontà di non marciare al passo del modello di società che si profila e tanto meno di marcire sotto le sue future imposizioni. Si vuole togliere spazio alle idee ultraliberiste di Macron, mostrando che, nonostante l’entusiasmo unanime e sguaiato della stampa francese ed europea, la sua marcia può essere interrotta e bloccata in ogni momento. È in questa prospettiva che un Front Social si è costituito. Si può certamente discutere sull’opportunità di richiamarsi all’esperienza frontista davanti a un governo che ha tutte le intenzioni di rifare la Francia attraverso l’Europa, così come vuole un ruolo europeo grazie alla promessa di normalizzare la Francia. Sindacati e gruppi di movimento stanno in ogni caso cercando di ricostruire le basi per rispondere ai futuri attacchi al lavoro e al welfare. Ma il maratoneta è pronto anche alle stagioni di scontri che lo attendono; e per questa ragione vuole marciare ancora più veloce: vorrebbe infatti arrivare a conquistare il podio liberatorio della flessibilizzazione totale del lavoratore entro l’autunno, sperando che il Front social sia in vacanza.
Apolide per finta, Macron non si dichiara di destra, né tanto meno di sinistra, ma dalla prima ha attinto per la costruzione del suo governo, mentre dalla seconda promette di ereditare la sordità più assoluta alle richieste dei lavoratori e delle lavoratrici che vuole riformare. Da questo punto di vista, si può dire che egli è sia di destra sia di sinistra, ma di stelle gliene basta una: la sua. Nessuno potrà tacciare il corridore di non esser stato all’altezza delle proprie ideologie, dal momento che attinge a tutte quelle disponibili e ne denatura ogni senso. «Bisogna difendere il lavoratore!»… sembrerebbe una frase di sinistra estrema visti i tempi che corrono, se non fosse seguita subito dopo da una triste continuazione, poiché bisogna difendere sì il lavoratore, «Ma non il posto di lavoro!». Il lavoratore senza posto di lavoro non si è liberato finalmente da qualcosa di odioso e insopportabile. Diviene semplicemente l’oggetto preferito delle misure di riqualificazione professionale e del ricatto amministrativo al quale deve soggiacere per garantire la propria esistenza.
Macron deve costruire la propria forza in una società che lo ha eletto con un plebiscito apparente, permeato dal ricatto dell’instabilità governativa in un periodo storico in cui la Francia è attraversata da una paura costante dovuta al senso di vulnerabilità provato in seguito ai diversi attacchi. Secondo una tendenza che sta accomunando molti governanti europei o aspiranti tali – da Theresa May a Matteo Renzi ‒ al tremolio della rappresentanza si risponde con una sorta di populismo di sistema che indica chiaramente nel governo il vero e unico titolare delle decisioni politiche. Non a caso nel programma di Macron ci sono punti che ricordano il defunto Italicum: riduzione di un terzo del numero di deputati e senatori, ricalcolo della loro pensione, previsione di una procedura d’urgenza per snellire l’approvazione delle leggi. Il parlamento è ridotto a un organo di controllo dell’attività di governo.
Questo ripensamento non troppo originale della forma Stato serve a rilanciare in maniera post-ideologica l’economia francese. La grande riforma del lavoro, una riforma in continuità con quanto iniziato dalla loi travail (già approvata scavalcando il parlamento con un decreto di emergenza), mira a rafforzare la contrattazione aziendale, riducendo di conseguenza la rilevanza dei sindacati come strutture di tutela e lotta dei lavoratori. Alla centralizzazione politica dell’attività di governo corrisponde così un decentramento delle possibilità di conflitto sociale. Quello che viene definito un nuovo modello di «dialogo sociale» si concretizza in realtà nella frantumazione del potere di contrattazione dei lavoratori, che potranno dire la loro sull’orario di lavoro esclusivamente a livello di azienda con un referendum o un accordo sancito a maggioranza. Se a questo si aggiunge la promessa di togliere gli oneri sociali dallo straordinario è facile capire che il post-modernissimo Emanuel promette alle imprese francesi un dominio assoluto sul tempo dei lavoratori. Questo evergreen che si ripete nel tempo con la maestosità di un classico è il nocciolo della promessa di «liberare il lavoro e lo spirito d’impresa»: liberare i lavoratori dalla possibilità di determinare i modi della propria messa al lavoro, liberare le imprese dalla necessità di fare i conti con il potere quotidiano dei lavoratori, liberare i posti di lavoro dai lavoratori quando si vuole, liberare aziende intere per farle fluttuare in zone economiche speciali. Una politica liberante o forse più liberatoria. In effetti è liberatorio potersi sbarazzare degli ostacoli di chi «blocca un paese» perché non concorda con le regole della gara, di chi sicuramente il voto non lo ha dato al maratoneta e, se lo ha fatto, lo ha fatto di corsa per evitare di ripensarci.
Si suppone sempre in nome della libertà, il neo-presidente vuole modificare radicalmente i criteri di attribuzione delle indennità di disoccupazione per i quali sarà necessario fissare un tetto economico inferiore a quello attuale. Un Piano che imporrà logiche sempre più meritocratiche per l’ottenimento delle prestazioni che spettano di diritto, sottoponendole in modo ancor più rigido alla capacità del disoccupato di adattarsi alle esigenze del mercato del lavoro. Un workfare e non un welfare – ovvero l’assoluta disponibilità del lavoratore alle esigenze di profitto delle imprese – è l’obiettivo evidente, obiettivo che si traduce in slogan che ripetono il mantra del «cambiamento del lavoro». L’immagine dei lavori perduti, il lavoratore che conduce un calesse, così come i «portatori d’acqua» sono mobilitate all’interno del programma politico di Macron per esemplificare l’ineluttabilità di un progresso che rende inutili certe figure lavorative. Scaricando sul progresso gli effetti precarizzanti di questi cambiamenti, Macron identifica nelle politiche di flessibilizzazione dei lavoratori che la Francia attuerà una soluzione certa, che dovrebbe produrre nuovi posti di lavoro. Per ora, tuttavia, il programma prevede di arruolare 10.000 poliziotti, di aumentare di 15.000 unità la capienza delle carceri francesi, di assegnare alla polizia il «nuovo potere» di impedire a chi ha commesso un reato l’accesso al quartiere dove è avvenuto il fatto. L’insicurezza che produrranno le riforme del lavoro deve ben essere governata in qualche modo.
Come Macron ha affermato, tutto questo dovrà avvenire «non perché l’Europa ce lo chiede, ma perché la Francia ne ha bisogno». Il maratoneta lo sa benissimo e forse il 56% che non ha votato a questo punto ha capito che: i francesi devono rinunciare a un margine minimo di contrattazione collettiva, i francesi devono essere più flessibili, i francesi devono volere un tetto più basso alle indennità di disoccupazione, i francesi devono essere disposti a vivere sotto uno stato di emergenza perenne con poteri straordinari conferiti alle forze dell’ordine e devono essere disposti a lasciare il loro posto di lavoro a comando, tanto loro saranno tutelati a colpi di formazioni e assegni su presenza. Queste sono le occasioni che i movimenti dovrebbero cogliere per rispedire al mittente la politica che vuole imporre quelle misure come indispensabili. I movimenti, infine, dovrebbero cogliere l’occasione del dichiarato eurocentrismo di Macron per combatterlo sul piano europeo che lui promette di praticare.
La Francia di Macron, in effetti, ha bisogno di un’Europa che vada a due velocità, in modo tale da evitare a se stessa e alla Germania di porsi troppe domande e di dover finanziare indirettamente, attraverso le casse europee, i paesi il cui sviluppo non è come lo vorrebbero. Macron riuscirà laddove Hollande non è arrivato. Costruire per trattati un asse franco-tedesco forte e che permetta alle due economie di correre e federare gli altri Stati in un’Europa lenta. In questo modo sarà possibile tutelare più efficacemente le imprese franco-tedesche, promettendo ai lavoratori che perdono il posto a seguito delle dinamiche competitive una protezione che – per quanto minima – altri non hanno.
Quello che dovrebbe essere invece chiaro a tutti è che questa partita non è solo francese. Per fare questa Francia, Macron ha recentemente dichiarato in un’intervista a otto quotidiani nazionali europei la necessità di prendere sul serio il «destino comune» europeo, togliendo di mezzo gli eccessi neoliberali a cui ha imputato la Brexit e unendo le forze per la stabilità. Questa stabilità, afferma Macron promettendo un’ulteriore riforma del diritto d’asilo, ha anche bisogno di una «filosofia europea» per rendere più coordinato, efficiente e funzionale il governo della mobilità. Il piano europeo, per Macron un elemento fondamentale per legittimare la sua azione, sarà decisivo per opporsi a delle politiche che non solo si ripetono ormai con regolarità nei diversi paesi dell’Unione, ma che sono imposte e accettate grazie alla potenza più finanziaria che politica dell’Unione stessa. È chiaro oggi più che mai che opporsi a Macron dovrà necessariamente voler dire opporsi a questa Europa. Se il Front social si limiterà alla Francia, con l’illusione che sia ancora possibile isolare ciò che accade dentro i suoi confini dai processi globali entro cui si inscrive, un incendio come quello scatenato contro la loi travail rischia di essere spento in fretta e senza troppi problemi.