«Designare un individuo come persona è espressione di disprezzo».
Hegel
Tocca ancora una volta ai migranti sperimentare in anticipo il significato di trasformazioni politiche e istituzionali che coinvolgono tutti. Tocca a loro subirle direttamente, prima che molti altri uomini e donne siano costretti a provarle sulla propria pelle. La tempesta dei migranti che ormai da tempo investe l’Europa ha imposto un’accelerazione al governo neoliberale della crisi. L’accordo scellerato con la Turchia ha legittimato tutte le successive trasformazioni del regime di Erdogan, ma ha solo deviato il flusso di migranti che dall’Africa e dall’Asia si muovono verso l’Europa. In Italia, ma non solo in Italia, la risposta a questa pressione migratoria non si risolve esclusivamente in un più intenso controllo della mobilità, ma investe la società nel suo complesso. I migranti possono essere arrestati come in Ungheria, espulsi come negli Stati uniti, oppure possono diventare una parte integrante delle politiche della città, come sta succedendo in Italia.
Si deve sempre ricordare che in Italia, ma non solo in Italia, ogni canale legale di accesso al territorio nazionale e quindi europeo è stato chiuso, lasciando di fatto ai migranti solo la possibilità di presentarsi come rifugiati o richiedenti asilo. Chi non rientra in queste categorie viene immediatamente classificato come «immigrato economico». La pena per il tentativo di migliorare autonomamente la propria esistenza è l’espulsione. Obbligati dentro alla camicia di forza del diritto d’asilo, i migranti sono spogliati della loro libertà d’azione e consegnati immediatamente ai circuiti dell’accoglienza. Solo così essi divengono persone riconosciute dal diritto, anche se il prezzo da pagare è la cancellazione della loro singolare libertà di scelta. All’interno di questo percorso si diventa persone solo al prezzo di essere deprezzate, per poter poi essere disprezzate quando è necessario. I migranti divengono una sorta di effetto collaterale di potenze incontrollabili e comunque più grandi di loro: la guerra, la fame, la tratta, le oppressioni esercitate a vario titolo. D’altra parte anche l’esistenza dell’oppressione non riguarda la loro esperienza soggettiva e ormai, spesso, nemmeno la realtà. Essa dipende piuttosto dal giudizio dell’Unione europea o dei singoli Stati, per cui paesi da anni attraversati da guerre civili più o meno striscianti, o retti da governi autoritari, possono essere serenamente classificati come paesi sicuri. Il risultato di questo riconoscimento unilaterale del diritto all’asilo e all’accoglienza è comunque l’espropriazione, sempre esercitata secondo il diritto, della libertà di movimento. Nessuno può evidentemente negare la condizione di bisogno delle migliaia di donne e di uomini che si muovono attraverso i confini. La distinzione tra i rifugiati e i richiedenti asilo e i migranti economici, tuttavia, ignora il bisogno, mentre stabilisce una solida gerarchia che determina le condizioni di accesso e di permanenza in Europa. Peraltro in Italia, ma forse non solo in Italia, questa gerarchia assume una connotazione apertamente razzista dal momento che i migranti economici sono identificati regolarmente con il colore della loro pelle, perché provengono soprattutto dall’Africa. Il risultato più eclatante è che i paesi africani vengono progressivamente cancellati dal novero di quelli dai quali è possibile emigrare.
Quando non sono pateticamente ridotte a un complotto internazionale, o a una ridicola cospirazione delle Ong, le migrazioni mostrano il loro carattere violentemente politico, che consiste nell’inarrestabile spinta verso la libertà che le anima. Questo carattere politico viene negato quando esse sono considerate come un fatto prodotto e regolato dal diritto. All’interno di questa mutazione, e con un preciso calcolo di bilancio, i diritti perdono ogni residua parvenza di universalità per divenire il corrispettivo dei doveri stabiliti dalla legge. Il diritto ad avere dei doveri finisce così per determinare anche la quantità legittima di sfruttamento alla quale è necessario sottomettersi. La depoliticizzazione dello sfruttamento, che non riguarda solo i migranti, è l’esito più eclatante della neutralizzazione neoliberale del rapporto di lavoro ridotto a relazione contrattuale puramente individuale. Per i migranti, tuttavia, esso ha un doppio statuto, perché dipende sia dallo scarso potere contrattuale di ogni migrante, sia da una specifica autorizzazione amministrativa, ovvero da un permesso di soggiorno che, indipendentemente dallo status del migrante, è sempre e comunque provvisorio.
Coerentemente con questa impostazione di fondo le più recenti norme italiane (il decreto Minniti-Orlando) concedono ai sindaci nuovi poteri, identificando così una controparte dei migranti che è allo stesso tempo il datore del loro lavoro non pagato e chi decide della tollerabilità della loro presenza sul territorio, cioè della loro occupabilità. Questo decentramento amministrativo lascia allo Stato centrale la gestione delle espulsioni, ma affida ai comuni il governo di una forza lavoro quanto mai precaria, che può essere impiegata in una serie assai diversificata di occupazioni. Non si tratta solo dei cosiddetti lavori socialmente utili, che permettono ai comuni di effettuare a costo zero opere di manutenzione che i bilanci attuali non consentirebbero. Il grado più o meno ampio di tolleranza che i comuni possono applicare permette anche la produzione assolutamente elastica di un bacino di forza lavoro che può essere pagato o sottopagato, che può vivere sul confine incerto dell’attesa della risposta alla richiesta di asilo oppure entrare in una clandestinità tollerata, trovando di conseguenza un impiego regolare o arrangiandosi con quelli in nero. La difesa del decoro urbano, un concetto indeterminato e pressoché impossibile da definire in maniera precisa, apre la strada a una discrezionalità amministrativa che consente ai sindaci di vivere in una sorta di campagna elettorale permanente, nella quale il nemico del decoro e la sua pericolosità possono variare con gli umori di una cittadinanza ridotta a pubblico impaurito.
Tutto perfettamente legale, al punto che il diritto può anche cercare di modificare legalmente i gradi di giudizio in modo da rendere più rapide le espulsioni, ma soprattutto più evidente la gestione dell’insicurezza. Tutto questo sforzo di ridefinizione giuridica delle migrazioni mira a stabilire una nuova economia delle città, che attraverso i migranti ridefinisce amministrativamente i rapporti tra centro e periferia. La ridefinizione del potere stabilisce un dominio sui movimenti, il lavoro, l’esistenza di uomini e donne, migranti e non.
I migranti sono parte della quota di potere concessa alle città devastate dalla crisi. Essi sono una sorta di risarcimento per il benessere perduto. All’interno di questo processo il governo delle città può certamente aprire spazi di contrattazione e di azione collettiva, ma ciò avviene comunque dentro alla cornice di una ristrutturazione complessiva dei rapporti di potere che non si esaurisce negli spazi urbani, ma rimanda sempre al piano istituzionale nazionale ed europeo. Decentrare la democrazia è il modo per stabilire canali differenziati di accesso alle prestazioni di welfare, dislocando anche il potere di stabilire chi ne ha diritto e chi no. Questa politica delle città ha d’altronde una storia già consolidata che trova i suoi precedenti nell’esclusione dei migranti dalle graduatorie dell’edilizia popolare, o più recentemente nell’introduzione dell’obbligo di residenza da almeno 15 anni in Veneto per poter accedere agli asili nido. Queste misure, ormai frequenti non solo nei comuni amministrati dalla Lega, sono significative da almeno due punti di vista. In primo luogo, per far salvo il diritto, esse accomunano migranti e italiani, confermando la tendenza a stabilire delle gerarchie complessive da amministrare su scala locale. In secondo luogo, esse mostrano come il nucleo localistico delle politiche leghiste stia progressivamente penetrando in quelle proposte dei partiti di centro-sinistra. Lo specifico federalismo italiano si sta affermando come riconfigurazione del legame tra democrazia, decentramento e welfare. Decentramento amministrativo significa qui possibilità di stabilire criteri legali di discriminazione.
I migranti sono perciò additati come coloro che turbano un equilibrio che però non si intende seriamente ristabilire. Espellere i migranti, o anche solo obbligarli al lavoro, serve a mostrare una capacità in realtà inesistente di governare l’insicurezza. Il controllo coatto dei movimenti dei migranti, così come il loro assoluto rifiuto lepenista o leghista, non sono il segno di una forza rinnovata degli apparati dello Stato, bensì la prova di una debolezza che viene nascosta a fatica. Sarebbe perciò sbagliato attardarsi nella riscoperta di una rinnovata tolleranza zero o del ritorno delle politiche securitarie del neoliberalismo delle origini. Governare l’insicurezza che quotidianamente il neoliberalismo produce è lo scopo reale di questa politica amministrata. I migranti con i loro movimenti indisciplinati e di massa mettono costantemente in discussione un meccanismo che per funzionare ha invece bisogno di introdurre una specifica disciplina della frammentazione e dell’individualizzazione.
Queste misure politico-amministrative non riguardano perciò la persecuzione degli «anormali» o dei marginali. In una situazione in cui la povertà tende a divenire una condizione diffusa il problema diviene piuttosto il governo della normalità. Povertà non è solamente la condizione di coloro che rientrano nelle statistiche sulla soglia di povertà e sulla povertà assoluta. Anche se in Italia il numero di questi poveri sta costantemente aumentando, la povertà è l’effetto «normale» del carattere sempre più informale del lavoro, che introduce nella precarietà la minaccia sempre presente di un potenziale impoverimento delle proprie condizioni di esistenza. L’insicurezza non può essere eliminata perché è il correlato necessario del rischio dell’individualità neoliberale. Da questo punto di vista i migranti non sono individui marginali, bensì individui che più di tutti gli altri si assumono il rischio della loro esistenza, cercando di aggirare le logiche politiche dello sfruttamento, spostando continuamente il loro disordine proprio lì dove non può essere tollerato. Proprio per questo il governo delle migrazioni ha di mira la possibilità di regolare dall’interno una tendenza generale che accomuna migranti e italiani. D’altra parte, a differenza da quanto avviene in altri paesi europei, in Italia il problema dell’integrazione dei rifugiati nemmeno viene posto. Esso esiste come integrazione differenziale all’interno di un mercato del lavoro dominato dall’informalità e dalla precarietà. Questa integrazione negativa riguarda tutti coloro che sollevano pretese a prestazioni di welfare e a condizioni di vita che non sono più, e non possono più essere, garantite come diritti. Proprio questa impossibilità fa sì che le pretese portate avanti attraverso la lotta stabiliscano un’antitesi pratica alla personificazione promessa dal diritto e dai diritti. Lo sono perché, anche quando attraversano il linguaggio dei diritti, ne registrano il tendenziale anacronismo. Lo sono perché si oppongono alla gerarchia alla quale anche i diritti implicitamente rimandano che è quella di una accumulazione sconfinata possibile solo grazie alla continua imposizione di confini.
La lotta come risposta politica non può accettare la frammentazione neoliberale con le sue gerarchie, così come non può restare chiusa nell’accoglienza e nelle città. Se la lotta è l’antitesi pratica del diritto, essa forza le maglie dell’accoglienza, rivendicando con i migranti una possibilità di movimento e di soggiorno che non dipenda esclusivamente all’autorizzazione giuridica concessa dal diritto d’asilo o dal permesso di soggiorno. Lottare dentro e contro l’accoglienza non significa solo rifiutare la separazione tra richiedenti asilo e migranti economici, ma anche la gerarchia che esclude i migranti già presenti sul territorio europeo in base alla data del loro arrivo. La risposta politica alla politica delle città e dell’integrazione negativa non può accettare il decentramento dell’insicurezza. Le rivendicazioni non possono essere costantemente portate avanti privilegiando il piano locale e quello nazionale, perché questa è esattamente la logica che unisce l’Unione europea alla politica delle città. Il paradosso non è che l’Europa è troppo grande o troppo lontana. Il problema vero è che il piano locale è moltiplicabile all’infinito: dallo Stato alla città, al quartiere, alla singola vertenza, ed è proprio questa sua inesauribile malleabilità che finisce per favorirne il governo. Muovere da un piano di intervento transnazionale, e quindi quanto meno europeo, significa allora puntare a imporre un punto di vista autonomo contro la costituzione giuridico-amministrativa praticata dall’Unione europea. Significa rompere la logica delle persone per cui esistono condizioni solo particolari – dei migranti, dei precari, delle donne – che devono essere sanate grazie a interventi settoriali. Significa fare della lotta un processo collettivo e di parte che non punta a confermare il modello universale d’ordine previsto dal diritto. Significa ricostruire le connessioni materiali tra lavoratori migranti e lavoratori italiani, per agire collettivamente contro il comune rischio della povertà.