di LAVORO INSUBORDINATO
Il 2017 non sarà un anno felice per i voucher. La minaccia di un referendum e il timore di ripercussioni politiche hanno stabilito il tempo della loro fine. Privati, aziende e pubblica amministrazione potranno esaurire i voucher già comprati entro il 31 dicembre dell’anno corrente. Dopo la notizia, si è verificato un episodio prevedibile e simpatico. Le aziende nostalgiche, timorose del cambiamento, si sono subito affrettate ad acquistare gli ultimi voucher per non farsi trovare impreparate nei momenti difficili. Padroni, mantenete la calma! Non c’è motivo di tanta agitazione. Il regime del salario non vi lascerà soli, dormite sonni tranquilli perché avrete comunque a disposizione un tempo indefinito per continuare a stabilire rapporti di lavoro informali e precari con i vostri lavoratori e lavoratrici.
Non per rovinare la festa alla CGIL che, dopo anni di tristezza e malinconia, si è lasciata andare a un improvviso entusiasmo (non sarà pericoloso?), ma dobbiamo dirlo: la fine della precarietà non coincide con l’abrogazione dei voucher. Questi sono stati solo uno tra i tanti strumenti che hanno permesso l’ascesa del lavoro informale. Hanno certamente indicato nuove modalità di sfruttamento difficili da abbandonare, ma non hanno mai operato da soli. La fine della gestione dispotica del lavoro, prerogativa dei padroni, non è alle porte, anzi. Questi bravi ragazzi hanno ormai imparato la preziosa lezione che i voucher hanno loro insegnato, ovvero il comando totale sui tempi di lavoro dettati dalla produzione e di conseguenza sui salari, senza la minaccia di un contratto che vincoli le parti. Infatti ormai, anche chi non è voucherista si ritrova a lavorare più o meno nelle stesse condizioni: quelle che il regime del salario impone.
Lavoratori e lavoratrici, in questi anni, hanno dovuto fare i conti con un mercato del lavoro che li voleva sempre più flessibili e disponibili. Si sono trovati costretti a sommare lavori differenti per avere un salario a fine mese e ciò è avvenuto non solo grazie ai voucher, ma anche per un sistema complesso in cui diverse modalità di messa lavoro, sommandosi, sono andate a costruire un insieme armonioso e funzionale di precarietà lavorativa. Armonioso e funzionale per le aziende, s’intende, ma questo è ovvio. Lo abbiamo detto da subito, i voucher hanno intensificato la precarizzazione non tanto come specifica modalità di retribuzione, ma in quanto sono diventati ben presto un modello e una misura del rapporto di lavoro e dell’ammontare del salario. Per questo la loro abolizione non elimina gli effetti che hanno prodotto nel tempo, né restituisce alcunché a chi, attraverso i voucher, è stato sistematicamente umiliato e impoverito.
Le alternative ai voucher sono, peraltro, sempre state numerose e non scompariranno proprio adesso. Fa molta scena cacciare i principali imputati, quando il problema viene solo spostato con la garanzia di poter continuare a commettere lo stesso delitto. I lavori a ritenuta d’acconto, così simili ai lavori pagati con i voucher, continueranno a funzionare indisturbati. Anche in questo caso si viene chiamati a seconda delle necessità e, a fine mese, si consegna una ritenuta d’acconto all’azienda che, come costo aggiuntivo, verserà solo un 20% sul salario netto. Niente contratto, niente infortunio né ferie o malattia. Un tetto massimo di cinquemila euro al di là del quale i lavoratori si troveranno costretti a pagare allo Stato una specie di multa per aver lavorato troppo e senza costi. Chiedere un po’ di nero fuori busta può allora essere una scelta obbligata, per evitare di pagare tasse che decurtano un salario già piuttosto misero e nella prospettiva di ricevere, spesso a più di due anni dalla prestazione svolta, un contenuto ma spesso salvifico rimborso, da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’aliquota del 20% pagata dall’azienda. Di contributi, poi, non ne parliamo: se con i voucher il tutto andava nella cassa a fondo perduto della Gestione Separata, con la ritenuta d’acconto la pensione è legalmente esclusa dal quadro previdenziale. A chi lavora non spetta nient’altro che una quota parziale di rimborso spese, che, per quanto continuativo possa essere il rapporto di lavoro, fa sì che quest’ultimo si attivi e disattivi con l’inizio e la fine di ogni singola prestazione, anche più volte al giorno. La ritenuta d’acconto pare il sostituto del ventunesimo secolo della paga a cottimo, sebbene meno scandalosa del lavoro bracciantile. Oltre alla ritenuta d’acconto, tuttavia, vi sono altri modi per i datori di assumere senza mai pagarne il costo, anzi, magicamente tramutandolo in profitto.
I lavori a chiamata, con un massimo di 400 ore in tre anni ‒ con i voucher il monte ore dichiarato non era certo di più ‒ saranno estesi a tutte le fasce d’età e non solo limitati a chi ha meno di 25 anni o più di 55. Certo, il lavoro a chiamata consente di avere un minimo di TFR e qualche vantaggio in più, ma chi lo utilizza spesso paga molto poco i propri lavoratori, anche 5 o 6 euro l’ora. Si gioca a ridurre il salario perché le aziende non sono più disposte a farsi carico dei costi del lavoro e in un modo o nell’altro li scaricano sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici. Questo è possibile nel momento in cui un contratto diviene una pura formalità del tutto informale. Ma la lista delle alternative papabili ai voucher è ancora parecchio lunga.
I contratti a tempo determinato possono essere rinnovati mensilmente dalle imprese, prorogando l’incertezza dei lavoratori all’infinito. Molto spesso, anche in questi casi, non si stabiliscono più dei turni regolari con una certa continuità, ma il tempo dei lavoratori viene gestito strumentalmente in favore del massimo profitto. Per non parlare del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che è altrettanto precario e non prevede quasi nessuna tutela se non la possibilità di essere licenziati in qualsiasi momento prima dello scadere della soglia dei tre anni. La gig economy, ovvero l’economia dei lavoretti, ha addirittura fatto un salto in avanti in questa direzione. Non sono solo i contratti a scomparire, ma gli stessi padroni si eclissano dietro le quinte per cedere il posto a sofisticati algoritmi che, tramite specifiche applicazioni, sono in grado di gestire lavoro e lavoratori. Scandiscono turni in base alla domanda e chi prima accetta la chiamata lavora, mentre gli altri aspetteranno quella successiva, oppure Godot. La speranzosa attesa della chiamata non viene retribuita perché è il tempo morto del guadagno sul quale le aziende hanno deciso di scommettere per ottenere profitti: scaricando sulla retribuzione dei fattorini i costi fissi dell’azienda, l’economia delle piattaforme ha trovato la ricetta perfetta per realizzare il suo sogno di sfruttamento. Non è questo un meccanismo molto simile a quello dei voucher? Uno scambio tra lavoro e denaro senza alcuna possibile mediazione tra le parti, uno scambio che crea uno squilibrio di potere tutto in favore dei padroni. A questa golosa opportunità non vuole certo rinunciare il colosso statunitense Uber, che, pur di risparmiare corposamente sul salario degli autisti, propone di ricompensare preliminarmente i tassisti italiani per la svalutazione delle costose licenze. Tutto, certo, nell’interesse dei cittadini, ma anche i voucher, si ricorderà, erano stati venduti come opportunità per la cittadinanza tutta di eliminare il lavoro nero.
E infatti molti già temono che, con la repentina scomparsa dei buoni lavoro, ritorni a gamba tesa il lavoro nero, come avverte coscienziosamente il paladino della giustizia, ex presidente della Legacoop e ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Ma i voucher non sono mai stati uno strumento efficace per abolire il nero, anzi, è vero proprio il contrario. Sono stati molto spesso una copertura nel momento in cui, si sa, poteva essere tranquillamente elargito un solo voucher a fronte di un’intera giornata di lavoro oppure il buono poteva essere attivato solo nel caso di infortunio. Sono da sempre stati uno strumento flessibile degno del contorsionismo che oggi si chiede a lavoratori e lavoratrici. In questo quadro poco rassicurante, anche il lavoro gratuito che il signor Minniti esige dai richiedenti asilo non sembra poi così fuori posto.
Allora, non è che noi vogliamo a tutti costi dire che la CGIL non fa niente. Bisogna onestamente riconoscere che qualcosa fa. Per esempio, lo scorso 8 marzo ha cercato inutilmente di boicottare lo sciopero delle donne, declassandolo a pura manifestazione simbolica. Di fronte alla disperata ricerca di recuperare qualche briciola di consenso da parte di un governo disperato, ora la CGIL sembra quasi convinta di aver abbattuto la precarietà. Si sbagliava l’8 marzo e si sbaglia oggi. Sarà uno sciopero che vi seppellirà.