di ROBERTA FERRARI e CAROLINA MARELLI
Il 16 febbraio negli Stati Uniti decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici migranti hanno scioperato e occupato le strade di diverse città americane. Qualche giorno dopo a Londra un percorso nato spontaneamente ha portato all’organizzazione di un altro «One day without us» con cui i migranti minacciati dalla Brexit hanno voluto dire chiaramente che conoscono bene il loro valore per la Gran Bretagna e per l’Europa. L’8 marzo in tutto il mondo assisteremo a uno sciopero globale che vede protagoniste le donne: lavoratrici, studentesse, precarie, migranti e non, che uscendo dai luoghi di lavoro e dalle case occuperanno le strade per dare voce al rifiuto della violenza patriarcale in tutte le sue forme. Stiamo vivendo il tempo dello sciopero: un crescendo di sollevazioni improvvise in parti diverse del mondo, un ritorno continuo della parola dello sciopero, il risuonare delle voci di chi prende il coraggio per farlo e per reinventarlo.
Negli ultimi anni questo coraggio lo hanno avuto prima di tutto i migranti e le donne. In diverse parti del mondo le e i migranti hanno scioperato anche contro quei sindacati che riducevano quello migrante a uno sciopero «etnico» e che vedevano migranti e lavoratori l’uno contro l’altro. Hanno restituito allo sciopero la sua dimensione intrinsecamente politica, spingendo oltre la logica vertenziale tipica dell’azione sindacale, andando oltre la mera richiesta di un’estensione dei diritti e la debole dichiarazione dell’antirazzismo. Le lotte dei migranti hanno cioè messo ampiamente in questione il movimento antirazzista europeo. L’espressione, nelle lotte e nelle manifestazioni, dell’orgoglio migrante e della consapevolezza del proprio peso politico, oltre che economico e sociale, non è servita a separare, ma a mostrare il coinvolgimento di tutti gli altri cittadini, proprio perché la cittadinanza stessa sta subendo un progressivo svuotamento.
Nonostante tutto questo, nonostante l’appello che i e le migranti hanno lanciato negli ultimi dieci anni per una connessione delle lotte, fuori e dentro i posti di lavoro, ci ritroviamo in diversi contesti a fare i conti con discorsi che rischiano continuamente di oscurare il protagonismo che essi si sono conquistati finora. Nel tentativo di riconoscere la condizione di particolare «svantaggio» in cui si trovano i migranti, i discorsi sul privilegio dei bianchi e sulla necessità di una politica militante che si arresti al solidarismo antirazzista rischiano di perdere di vista il privilegio delle lotte migranti e la forza che esse hanno accumulato negli anni legando assieme il rifiuto del razzismo e quello dello sfruttamento e della precarizzazione. Si dice che non possiamo parlare della condizione migrante perché siamo privilegiati, ma i migranti hanno già preso parola. Non partiamo da zero, ma da anni di lotte, non partiamo dal silenzio, ma dalle grida che i migranti hanno lanciato in tutto il mondo per rivendicare libertà di movimento, salario e welfare: è da queste lotte che abbiamo tratto forza e ispirazione ed è in queste lotte che siamo stati presenti per opporci a una condizione che ci riguarda come precarie e operai. Non possiamo pensare di ricominciare da zero, non possiamo tornare a essere i cittadini solidali al fianco dei migranti, perché sappiamo che il regime dei confini è anche l’imposizione di un controllo sul nostro lavoro e sulla nostra vita. Con i migranti abbiamo scoperto che per rovesciare ciò che ci divide e indebolisce non basta la solidarietà, bisogna stare insieme nelle lotte, legare le nostre rivendicazioni e i nostri discorsi, riconoscere le catene globali dello sfruttamento. D’altra parte, chi considera il permesso di soggiorno e la cittadinanza come qualcosa da rifiutare per non scendere a patti con i governi razzisti sono sempre i cittadini che tanto si vergognano del loro privilegio, ma che evidentemente non si accorgono che il permesso di soggiorno e la cittadinanza sono per i migranti i terreni di lotta quotidiana.
Oltre che all’antirazzismo, la condizione migrante sta ponendo questioni dirimenti anche al femminismo. Si dice che non si può parlare al posto delle donne migranti, sempre presumendo che stiano lì ferme ad aspettare che qualcuno metta loro le parole in bocca, salvo poi diventare tutte e tutti sordi quando parlano in prima persona nelle assemblee. Questa presa di parola dà voce a una complessità che richiede di ripensare la libertà e l’autodeterminazione delle donne a partire dalle condizioni materiali e politiche che vengono quotidianamente imposte loro. Se le migranti dicono che il permesso serve anche per lottare è problematico rispondere, a partire dal proprio privilegio, che non capiscono che il femminismo ha già decostruito la cittadinanza di «genere» e che l’autodeterminazione è tutta una questione di scelte. Le migranti dicono: noi ci portiamo addosso una differenza, il confine non ci blocca soltanto dentro i CIE o alle frontiere, il confine ci attraversa, come affermavano negli Stati Uniti ormai più di dieci anni fa. Ma le migranti, dentro al percorso di non una di meno, hanno anche detto che lottiamo contro lo stesso sistema patriarcale, provocando l’indignazione di chi, per sentirsi davvero antirazzista, deve pensare che loro siano in una condizione per forza peggiore della nostra. Così, rifiutare il proprio privilegio finisce per riaffermare la propria supremazia bianca. Intanto, le migranti pongono delle questioni cruciali non solo al femminismo, ma anche a un movimento globale dello sciopero.
Privilegio bianco, sfiga nera, ognuno sta dove deve stare: questo sembra il pensiero dilagante nel movimento globale antirazzista che attraversa lo sciopero. Dispiace però anche per tutti i poveri bianchi che di privilegi non ne hanno mai sentito parlare, ma c’è chi vede solo in modo binario le cose. E quelli dell’est Europa sono anche loro bianchi privilegiati? Che dire allora dei meticci? Ovviamente debbono lottare solo con, per e a fianco di soli meticci, non sia mai che un puro sangue si intrometta sostenendoli. Oppure potremmo valutarne la linea di colore dominante e da lì capire da che parte possono legittimamente stare. A ognuno la sua negrità, a ognuno il suo patriarcato. Con la scusa che ognuno è nero o bianco a partire dal suo particolarissimo posizionamento, che ognuna è donna o soggettività altra a modo suo, si afferma una libertà non collettiva ma l’individualismo delle lotte.
Ognuno guarda interessato gli altri che lottano e, pur comprendendone e condividendone le ragioni, non fa altro che constatarne l’importanza, per loro. Mica per i privilegiati certo, come se lo sfruttamento dei migranti non ci riguardasse, come se non ci indebolisse globalmente, bianchi, rossi, marroncini e via dicendo. Nelle conseguenze pratiche di questa visione, quale differenza ci sarebbe tra il rifiuto di esercitare il privilegio bianco e il lasciare che «gli altri» se la cavino da soli? O forse si pensa che questi migranti, che passano gran parte del tempo in posti di lavoro precari e mal pagati per rinnovare un permesso, siano super-eroi alla Django e che possano tranquillamente muovere le masse nel tempo libero? O che le badanti, le facchine, le recluse possano con facilità frequentare le assemblee delle attiviste, scendere in piazza quando ne hanno voglia anche senza il concreto sostegno di chi dovrebbe stare dalla loro parte? No, e però non potendo parlare, come con noioso adagio si continua a dire, «al loro posto», noi che dalle loro condizioni siamo ridefinite, noi che delle loro lotte passate e presenti facciamo un’occasione di libertà per tutte e tutti, noi dobbiamo scendere in piazza e parlare solo di noi, anche se questo significa che noi buttiamo il privilegio di lottare e il dovere di nominare le migranti contro chi vuole farle continuamente sparire, dai giornali, dalle strade, dai confini dove lottano ogni giorno. Come se il permesso di soggiorno legato al lavoro, il ricongiungimento familiare che lega le donne ai mariti, l’asilo negato anche a tutte quelle donne che affrontano la violenza maschile in tutte le sue forme, la divisione sessuale del lavoro che appalta la cura a noi donne e ci espone alla povertà dei salari da fame e al rischio dei licenziamenti facili non fossero tutte questioni che ci riguardano politicamente e soggettivamente, non fossero le sbarre dello stesso patriarcato che nelle sue diverse forme, tradizionali e neoliberali, continua ad esercitare la sua oppressione.
Per cogliere il tempo dello sciopero come l’occasione per potenziare le nostre lotte, per dare finalmente visibilità alla connessione tra migranti, precarie e operai, non possiamo tornare al solidarismo antirazzista, dopo che proprio le lotte migranti hanno dimostrato la sua insufficienza. Questo rinnovato appello ad arrestarsi alle azioni di solidarietà e all’antirazzismo bianco finisce per creare gabbie in cui ognuno se la cava per «i suoi» e in cui si fa finta di non vedere i tracciati comuni che costituiscono le gabbie stesse in cui ci vogliono chiudere e in cui, «ahinoi», rischiamo di chiuderci da soli anche quando lottiamo.
Certo, concepire un privilegio bianco e su questa base giustificare la propria assenza fisica da un movimento di lotta migrante, o il proprio silenzio sulle questioni che riguardano la libertà di movimento di tutte e di tutti, rimanda inevitabilmente all’idea che il «bianco privilegiato in quanto bianco» non possa che colonizzare la lotta migrante e che soprattutto il migrante si faccia inesorabilmente schiacciare dalla parola bianca. Ma è accaduto così spesso di vedere migranti e privilegiati bianchi lottare assieme al punto da aver deciso che non sia più il caso di farlo? È possibile che i bianchi privilegiati siano inconsciamente dei burattinai e che in quanto tali sfruttino sempre la condizione migrante a loro profitto determinandone il contenuto politico? E perché allora lottare per i bianchi senza case e per quelli sfrattati? I privilegi e i privilegiati lì non ci sono o, solo in quel caso, privilegiati e non riescono a costruire una lotta comune. I migranti l’hanno già detto: il solidarismo antirazzista finisce troppo spesso per riprodurre divisioni e per rimarcare la linea del colore che si vorrebbe cancellare. Il punto sarebbe vedere e capire che quella linea c’è e serve anche per discriminare e indebolire le lotte. Per questo si tratta di metterne a valore la politicità per costruire lotte comuni, a partire dal fatto che la condizione migrante ci attraversa. Se il corpo delle migranti è attraversato da confini, è vero anche che questi segnano un confine per tutte le donne. Sul corpo dei migranti, uomini e donne, vengono stabilite barriere che producono una continua intensificazione dello sfruttamento che mira a precarizzare tutti, fuori e dentro i luoghi di lavoro, producendo gerarchie e differenze che impongono un dominio sempre più totale. Il regime dei confini ha un effetto complessivo che ci costringe a lottare non contro il nostro labile privilegio, ma per conquistarne uno reale che è possibile ottenere solo al fianco delle e dei compagni migranti.
Questa non è una novità, ma è un modo consolidato di fare politica e di stare nelle piazze che abbiamo pensato e costruito negli anni assieme alle e ai migranti. Un conto è riconoscere di essere dei privilegiati, un altro è decidere di fare i privilegiati stando a guardare chi lotta. In questi anni abbiamo imparato, oltre qualsiasi solidarismo antirazzista, che la nostra lotta è migrante e che questo è il nostro vero privilegio. Da qui che dovremmo ripartire per raccogliere l’occasione dello sciopero.