La presenza di piattaforme per le consegne a domicilio nell’ambito della ristorazione, soprattutto nelle grandi città, è un fenomeno che esiste già da parecchi anni. Tuttavia, esso è venuto alla ribalta soprattutto negli ultimi mesi, non solo per la crescita esponenziale del servizio, ma anche per la vasta eco prodotta dalle proteste e dagli scioperi dei lavoratori di Deliveroo e Ubereats a Londra e di Foodora a Torino, contro la riduzione dei salari e la trasformazione della paga oraria in paga a consegna. C’è da chiedersi di fronte a quali novità ci pongono la diffusione delle piattaforme on demand e le lotte che ne sono conseguite: è in corso una radicale e più larga trasformazione del mondo del lavoro o le suddette novità riguardano esclusivamente i fattorini? Bisogna guardare a queste nuove app come il nuovo che avanza o è semplicemente un restyling di vecchi sistemi di sfruttamento?
Sicuramente una novità c’è, abbastanza grande da mettere in difficoltà i giuslavoristi europei. Se il rapporto di lavoro ha inizio tramite la registrazione su una app, se non esistono capi e coordinatori che ti ordinano quello che devi fare, se è un algoritmo a decidere quali consegne affidarti e se tu lavoratore valuti di volta in volta quali accettare, vieni considerato un lavoratore autonomo o un lavoratore dipendente? Con una sentenza che ha destato scalpore, nell’ottobre del 2016 il Tribunale del Lavoro di Londra ha dichiarato che gli autisti di Uber devono essere considerati a tutti gli effetti lavoratori dipendenti, e che dunque vanno loro riconosciuti i diritti e le garanzie dovuti alla loro categoria. Ma la sentenza di un solo paese non fa giurisprudenza e nemmeno tendenza, dentro e fuori i suoi confini, soprattutto se sul piano transnazionale la vera tendenza del momento va verso una crescente informalizzazione del lavoro capace di erodere ogni rigida distinzione tra lavoro dipendente e non: freelance che lavorano esclusivamente per un cliente, false partite iva, voucher che camuffano il nero sono solo alcune forme possibili di un lavoro informale ‒ che non è regolato da alcuna relazione contrattuale ‒ in cui ciò che conta è l’immediata risposta a una chiamata e la piena disponibilità da parte di chi lavora. La app diventa in altri termini lo strumento attraverso cui si impone un regime del salario che aggira ogni mediazione. La app non è semplicemente un’innovazione tecnica, ma l’espressione di una specifica tecnologia di comando del capitale.
Dal punto di vista dei fattorini, lavorare per un singolo ristoratore con una paga da fame o per una piattaforma non è poi così diverso, se non che con quest’ultima si può guadagnare di più, letteralmente pedalando più veloce. La piattaforma spaccia il suo «lavoretto» per uno «stile di vita»: il modello sarebbero i corrieri in bicicletta delle grandi metropoli statunitensi, ragazzoni super-allenati che sfrecciano con le loro iper-tecnologiche bici nel rischiosissimo traffico cittadino per battere i record di consegne, con tanto di gare annesse. Quale migliore lavoro di quello che unisce passione e guadagni? Tutto molto cool. Peccato che a guardar meglio sorga una serie di problemi. Prima di tutto, le aziende della gig economy obbligano la manodopera a sobbarcarsi tutti i rischi necessari per aumentare i profitti senza avere in cambio nient’altro che il salario (in breve: se ti schianti sono affari tuoi). In secondo luogo, questa «economia dei lavoretti» non mette al lavoro soltanto studenti indistintamente in cerca di un po’ di pocket money, ma donne e uomini che con quel «lavoretto» tirano a campare oppure a rinnovare un permesso di soggiorno, come nel caso dei molti migranti impiegati da Deliveroo e Ubereats nel Regno Unito. Il che, peraltro, è del tutto chiaro alle grandi piattaforme, la cui strategia di reclutamento riproduce le tecniche di marketing. I lavoratori sono considerati come clienti da attirare verso il «servizio» offerto dalla piattaforma, promettendo inizialmente compensi particolarmente appetibili al fine di avere un buon bacino di fattorini, per poi diminuire drasticamente le paghe, spesso passando da un compenso orario a un vero e proprio lavoro a cottimo misurato scientificamente attraverso dispositivi di controllo just-in-time sempre più precisi come il tracciamento gps del percorso del lavoratore o il controllo della batteria residua. Dipingere i fattorini come gente in cerca di spiccioli per permettersi degli sfizi è l’ideologia che nasconde dietro allo «stile di vita» una «pratica di sfruttamento», possibile perché i lavoratori-folla dell’economia della rete sono al tempo stesso lavoratori-atomi, che non hanno alcun contatto tra di loro se non quello stabilito dalla competizione: il salario se lo conquista chi pedala più forte.
Più che indicare uno specifico settore o una modalità particolare di erogazione del lavoro, basata sulla «libertà» di vendere il proprio tempo e i propri servizi on demand in cambio di un salario meramente accessorio, la cosiddetta gig economy è in realtà l’espressione di una specifica organizzazione del lavoro. La app perfeziona le modalità più note di gestione del lavoro just-in-time (si pensi al part-time verticale introdotto nelle fabbriche metalmeccaniche o al largo uso di lavori stagionali ad Amazon) trasformando l’algoritmo e l’utilizzo di misuratori di performance in una modalità onnipervasiva di comando e controllo che, come dimostra il software ParaGà, impiegato per «ottimizzare le prestazioni» degli operatori sociali a domicilio in Svezia, esce dalle fabbriche e dal mondo della logistica ridefinendo lo spazio di applicazione del comando del capitale sul tempo di lavoro. Il capitalismo delle piattaforme è il sogno infine realizzato di un comando assoluto sulla cooperazione produttiva di profitto. La raccolta continua di dati da dare in pasto ai sistemi di profilazione e gestione informatizzata traduce ogni singolo momento dell’esistenza in un contributo utile a perfezionare questo comando. Mentre quella dei big data diventa un’industria che alimenta i circuiti della finanza globale, gli animal spirits sono finalmente obbligati a uscire dal posto di lavoro per percorrere tutte le vie materiali e immateriali della società spinti dalla necessità di un salario. Il vantaggio evidente è che l’algoritmo si incarica di organizzare la cooperazione nella più totale indifferenza nei confronti degli «strumenti» che impiega. Esso produce una cooperazione che non ha limiti di spazio e tempo, perché usa i lavoratori come strumenti intercambiabili. L’algoritmo è il comando del capitale che si emancipa ogni giorno dal rapporto sociale che lo produce.
Le nuove aziende della gig economy sono campi costantemente sperimentali di un modello di iper-precarizzazione organizzata che si sta imponendo sull’intero mondo del lavoro, ovvero di una continua intensificazione del ritmo dello sfruttamento. Eppure, nonostante il sogno algoritmico del capitale, questo modello incontra delle resistenze. Non si tratta soltanto dell’intolleranza alla pervasività del controllo a distanza e dei costanti tentativi di sottrazione che mostrano la vicinanza di figure apparentemente lontane come gli operai alla catena di montaggio, i facchini nei magazzini della logistica e i fattorini di Deliveroo. Esistono anche tentativi di proporre un’alternativa all’interno dell’orizzonte delle gig economies attraverso una via cooperativa come il modello belga di Smart: si tratta però solo idealmente di un’alternativa, perché per poter sopravvivere in questo mondo dell’iper-sfruttamento, come accade anche in altri settori, le cooperative si vedono costrette a richiedere ai propri soci-lavoratori l’aumento del carico di lavoro attraverso un selvaggio multitasking volto a «riempire» i tempi morti tra una consegna e l’altra. Questa presunta alternativa non mette in questione le nuove norme che comandano un mondo del lavoro crescentemente iper-precarizzato. Queste norme vengono invece contestate quando i lavoratori si organizzano con modalità non previste dagli algoritmi costringendo i datori di lavoro – ovunque essi siano – almeno momentaneamente ad arretrare. Alla sperimentazione quotidiana del capitale sulla cooperazione è probabilmente necessario opporre una sperimentazione altrettanto complessiva. Cosa significano allora gli scioperi dei lavoratori di Deliveroo e di Foodora? Come sempre più spesso sta accadendo a livello globale, quando la parola d’ordine dello sciopero torna a risuonare il tempo e lo spazio cessano almeno momentaneamente di essere asserviti al comando del capitale e sono attraversati dalla comunicazione e dal reciproco riconoscimento. Non a caso il primo passo dei fattorini londinesi è stato quello di fingere ordini per uno stesso indirizzo in modo da potersi trovare e riconoscersi contro un sistema di sfruttamento che è basato proprio sul dissolvimento di qualsiasi possibile comunicazione tra i lavoratori. Eppure il dominio globale dell’algoritmo, il suo essere letteralmente e non letterariamente disumano, impone di assumere come impellente necessità una risposta su una scala altrettanto globale. Come si fa dunque a negare il proprio tempo e la propria cooperazione a un capitale che sembra essersene completamente impadronito, facendo di ogni lavoratore una frazione infinitesimale del suo funzionamento? È possibile agire contro il capitale sulla stessa scala del capitale? Forse non è possibile collegare con pazienza certosina gli infiniti e mobili punti dello sfruttamento. Forse si deve opporre alla piattaforma un’infrastruttura politica che prenda sul serio il suo carattere complessivo. D’altronde esperimenti di sciopero globale già si aggirano per il mondo…