Qualche settimana fa la notizia della possibile riapertura del CIE a Bologna ha prodotto una certa discussione all’interno del movimento bolognese. Ieri contro le deportazioni, contro la possibilità di essere internati nei nuovi CIE immaginati dal ministro Minniti e dal suo partito dell’ordine, contro il ricatto del permesso di soggiorno, contro un’accoglienza che produce e riproduce solo povertà, contro il razzismo istituzionale, insomma, contro la loro condizione complessiva, un centinaio di migranti e rifugiati ha tenuto un presidio in piazza Nettuno. Per due ore hanno raccontato la loro condizione e discusso collettivamente di come sia possibile liberarsene. Hanno anche affermato che la loro presenza in piazza aveva un significato globale, di lotta per la libertà contro l’illegalità prodotta dagli Stati, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti.
È vero che migranti e rifugiati parlano della propria condizione senza partecipare a sceneggiate di piazza e non sono perciò materiali utili per i prossimi esperimenti elettorali. È vero che migranti e rifugiati non sono una presenza di massa nell’università. È vero che migranti e rifugiati non compaiono nelle foto che celebrano l’anniversario del ‘77. È anche vero, però, che migranti e rifugiati vivono una condizione di oppressione e sfruttamento che non investe solo la coscienza bianca, ma determina anche le condizioni materiali di oppressione e sfruttamento di altri lavoratori e lavoratrici precari.
Invece, c’è chi considera l’antirazzismo un problema bianco, c’è chi si occupa del proprio privilegio bianco e con l’antirazzismo bianco cerca di sbiancarsi la coscienza, ci sono altri che fanno un sacco di altri discorsi. Il risultato è che all’atto pratico i migranti sono buoni se ingrossano le fila delle agende politiche altrui, ma quando decidono di parlare vengono lasciati soli.
Che dire al movimento bolognese? Un’occasione persa.