Una versione breve di questo commento è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 31 dicembre 2016 con il titolo Le illusioni di Dardot e Laval
Sull’Economist di ottobre Adrian Wooldridge ha sostenuto che le similitudini tra il mondo attuale e quello che ha prodotto la Rivoluzione d’ottobre sono troppe per stare tranquilli. «Bolshiness is back», ha sentenziato, utilizzando un termine che oltre all’assonanza con il bolscevismo rimanda all’ingovernabilità, alla ribellione, alla politica radicale. Molte cose angustiano Wooldridge, non ultima l’incapacità di trovare una seria risposta ai movimenti migratori e alle enormi diseguaglianze che caratterizzano il capitalismo contemporaneo. Farsi coraggio con la paura altrui è di scarsa utilità, ma la sua presenza rivela che la potenza del dominio neoliberale corrisponde sempre meno a un’effettiva capacità politica di governare senza problemi i conflitti che produce. Da questa tensione tra dominio neoliberale e possibilità di organizzare una risposta praticabile e realistica bisogna partire per discutere la proposta democratica che Pierre Dardot e Christian Laval hanno avanzato negli ultimi anni (Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista, tr. it. DeriveApprodi, 2016 e Del Comune, o della rivoluzione nel 21. Secolo, tr. it. DeriveApprodi, 2015). Essi rifiutano la strada battuta e persa dello Stato nazionale ‒ quindi la rappresentanza e il sistema dei partiti ‒ sapendo che non permette di acquisire un potere sovrano capace di opporsi al capitale transnazionale e alle decisioni delle sue istituzioni finanziarie. La strada che battono è quella di una democrazia in grado di sostenere un’azione politica su scala mondiale e rispettare la pluralità delle forze che si oppongono al neoliberalismo.
Nonostante Dardot e Laval facciano intravedere questa possibilità, non è il fantasma del fascismo che si riaffaccia spaventoso, ma in fondo rassicurante come tutte le cose già viste e che si presume quindi di conoscere. Nella lunga transizione che stiamo vivendo la democrazia si presenta come crisi, come un sistema che inibisce ulteriori processi di democratizzazione impedendo a nuovi soggetti di prendervi parte e limitando gli ambiti d’azione di chi vi è incluso. Essa è perciò lontana tanto dal populismo quanto dal fascismo, che necessitano di qualche forma di mobilitazione. La crisi non riguarda il sistema politico, che funziona proprio per impedire che essa deflagri e continua proprio per questo a presentarsi anch’esso come democratico. Come il totalitarismo per Hannah Arendt, così il neoliberalismo è una nuova forma di governo che si fonda sulla tensione a cui sottopone la società, fino a portarla costantemente al limite del suo dissolvimento. Basandosi su processi di soggettivazione rigidamente individuali, esso è costretto a limitare costantemente e con ogni mezzo lo sviluppo di quelli collettivi. Tanto dal punto di vista procedurale quanto da quello sostanziale la democrazia come crisi punta a impedire la politicizzazione dei rapporti sociali. Non siamo quindi di fronte alla generale «disattivazione di ogni capacità di azione collettiva autonoma della società», ma alla produzione di soglie differenziali di gerarchie, deferenze e sfruttamento. Ed è da queste soglie che bisogna partire per comprendere l’«ambiente capitalistico» neoliberale, nel quale i conflitti non devono produrre partizioni collettive fondamentali, rimanendo piuttosto forme di dissidio individuali. Il neoliberalismo reinventa costantemente il sociale per impedirne la possibile configurazione polemica. Proprio per questo la democrazia non può essere solamente il governo politico di un problema sociale, perché in questo modo verrebbero stabiliti due ambiti separati, seguendo di fatto la stessa logica neoliberale. Lo «spazio di opposizione mondiale», indicato da Dardot e Laval quale impellente necessità per opporsi all’uso dello Stato proprio del neoliberalismo, deve tenere necessariamente conto della politica neoliberale del sociale, puntando a stabilire le condizioni grazie alle quali soggetti attraversati dal neoliberalismo si liberano della sua razionalità rifiutandone l’ideologia.
Affinché la democrazia sia questo spazio di azione politica, il problema di chi ne è il soggetto va perciò posto dentro alla stessa democrazia per disinnescarne la logica universalistica, soprattutto nel momento in cui la rassicurante categoria di popolo risulta inutilizzabile in quanto legata a doppio filo alla vicenda della statualità moderna. Per non ridurla a una strategia difensiva contro le oligarchie e i loro abusi bisogna determinare le posizioni soggettive capaci di «istituire» uno spazio di iniziativa politica autonoma, cioè di scegliere i punti di impatto con le altre forze che attraversano quello spazio. Dardot e Laval delineano puntualmente il campo di forze in cui il progetto democratico dovrebbe collocarsi, ma non nominano mai i suoi soggetti. I poveri, la cui presenza sarebbe stata decisiva ai tempi della democrazia greca, scompaiono dopo le prime pagine, ed è lecito chiedersi se la democrazia praticabile nello Stato globale non debba essere pensata al di fuori della sua stessa tradizione. In maniera persino sorprendente Dardot e Laval scelgono di non attraversare le contraddizioni che il capitalismo produce, per muovere direttamente dalla possibile risposta politica al potere delle oligarchie. Possono così scrivere che l’Europa può essere rifondata solo da una cittadinanza democratica transnazionale, così come la democrazia dovrebbe essere messa in opera dagli stessi cittadini europei. Non tutti gli individui che vivono in Europa, però, sono cittadini. Salvo mio errore, i migranti non sono mai nominati. Se dall’Europa si passa al piano globale, parlare di cittadini o degli appartenenti alla società rischia in definitiva di reintrodurre l’universalismo che si voleva criticare denunciando la logica della rappresentanza.
La stessa proposta di una coalizione antioligarchica corre questo rischio, perché ha come riferimento una condizione generalizzata e non le situazioni materiali di esistenza che determinano l’esplosione delle lotte. La coalizione per Dardot e Laval è l’esito di una sorta di autorganizzazione del sociale. Essa è la federazione di tutti coloro che si oppongono a vario titolo a un’oligarchia che, nella definizione che ne viene data, è come una borghesia senza imprenditori che si affida al dominio sociale degli esperti per stabilire le forme della cooperazione sociale legittima. In questo modo, tuttavia, mentre viene stabilita una chiara distinzione di campo, si ignora che la forza del neoliberalismo sta proprio nella sua capacità di attraversare le forme dell’agire, di disciplinarle individualmente, per farle diventare parte di un’inafferrabile cooperazione. Muovendo solamente dall’istituzionalizzazione, la coalizione federativa non ha bisogno di essere partito, non è una moltitudine, ma è un blocco formato da forze politiche, sindacati e associazioni che sono evidentemente l’esito di istituzionalizzazioni parziali già avvenute e che convergono in vista della comune opposizione all’oligarchia neoliberista. Essa non si rivolge a chi è attraversato dal neoliberalismo, ma a chi ha già deciso in qualche modo di combatterlo. In questo modo il soggetto democratico è sempre già tale. Eppure la logica della coalizione non può essere l’opposto simmetrico di quella oligarchica. La democrazia deve perciò assumersi il rischio politico di esprimere una logica di parte, ovvero di essere fino in fondo una logica della differenza e delle disuguaglianze. Questa è la logica che può dare forma alle pratiche di quel «comune politico», di cui Dardot e Laval vedono la possibile realizzazione in un municipalismo inteso come articolazione di beni pubblici e democrazia partecipativa. Se non vuole essere un ingranaggio dello Stato globale, tuttavia, la democrazia come governo deve essere quanto meno all’altezza del processo paradossale in cui è presa, un processo che, mentre punta a istituzionalizzare frammenti del movimento che la produce, contribuisce a decostituzionalizzare lo Stato di cui pure fa parte. Se davvero riesce a fare questo, allora potrebbe avere ragione l’Economist e si potrebbe dire: «Bolshiness is back».