Non esiste un manuale capace di spiegarci come costruire lo sciopero delle donne del prossimo 8 marzo. L’occasione non ha precedenti e non può essere ridotta alle esperienze già fatte, alle pratiche già sperimentate, ai discorsi già disponibili. Non si tratta soltanto di costruire un evento, ma di inserirsi in un processo che impegnerà i prossimi mesi e che nasce sotto la spinta della sollevazione delle donne che ha investito il globo e non intende arrestarsi. Raccogliendo la sfida lanciata in Polonia, le donne argentine hanno dato a questa sollevazione globale il nome di sciopero e hanno dichiarato: «noi ci organizziamo!». Organizziamoci, allora, per fare dello sciopero una pratica politica femminista.
Lo sciopero dell’8 marzo può essere il punto di esplosione della forza accumulata dalle donne con le mobilitazioni degli ultimi mesi e le grandi manifestazioni contro la violenza che hanno attraversato il mondo il 25 e 26 novembre. Le donne che lo hanno lanciato e intendono praticarlo non sono soggetti deboli, vittime che hanno bisogno di essere protette dalla presenza e dalla minaccia degli uomini, non hanno bisogno di uno spazio tutelato per prendere parola. Quelle donne hanno trasformato il rifiuto della violenza in un gesto collettivo che ha dato a ogni singola donna il coraggio di prendere parola da protagonista, e con lo sciopero dell’8 marzo hanno la pretesa di affermare che ogni lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione deve cominciare con il rifiuto della violenza sulle donne. Per questo non può trattarsi di uno sciopero separatista. La momentanea interruzione del rapporto con i maschi non può essere confusa con la sovversione dell’ordine patriarcale. Gli uomini che risponderanno a questo appello non sono una minaccia, ma faranno una precisa scelta politica. Il femminismo che dà il segno a questo sciopero non può rimanere una questione puramente femminile, ma deve essere consapevole di essere una forza di trasformazione globale.
L’8 marzo dovrà coinvolgere tutti quei soggetti che in modi diversi fanno esperienza di sfruttamento, violenza e discriminazione, ma le protagoniste dello sciopero saranno le donne. Anche se si riconosce che molte caratteristiche del lavoro femminile oggi investono tutto il lavoro, non si può ignorare la posizione specifica in cui le donne sono collocate nella società per il fatto di essere donne. Proprio questa posizione conferisce loro il potere di interrompere e aggredire i nodi patriarcali della produzione e della riproduzione sociale. Affermare questo potere in uno sciopero globale significa rifiutare di vedere la propria differenza ridotta al servizio del capitale e conferirle un significato politico. Dire che l’8 marzo sarà uno sciopero del genere e dal genere significa non riconoscere la pretesa delle donne di far valere politicamente la propria differenza contro l’ordine globale della società. L’8 marzo milioni di donne saranno in piazza e non si può chiedere loro di smettere di essere donne, tanto quanto non le si può relegare in uno spazio separato, né si può proporre uno “sciopero del sorriso” a quante avranno finalmente l’occasione di sorridere della propria forza collettiva.
L’8 marzo sarà uno sciopero perché interromperà il rapporto di potere su cui si regge l’ordine patriarcale. Non può trattarsi della performance di un femminismo militante, ma impone di creare le condizioni perché lo sciopero diventi una pratica di massa. Lo sciopero attraversa il lavoro, ma non si ferma all’astensione dalla prestazione lavorativa. Limitare lo sciopero al lavoro significa non cogliere per ingenuità o per arretratezza quanto di nuovo è stato sperimentato negli ultimi anni da donne, migranti e precari. Lo sciopero – e quello delle donne più di ogni altro – stabilisce una cesura tutta politica nei meccanismi di produzione e riproduzione della società. Il lavoro delle donne non è mai stato limitato ai luoghi di lavoro, perché continua anche quando la giornata lavorativa è finita; la loro oppressione è la condizione dello sfruttamento, ma non si esaurisce nello sfruttamento. Perciò, affinché le donne possano incrociare le braccia non è sufficiente una convocazione sindacale: poiché sono un soggetto globale le donne travalicano ogni categoria del lavoro senza essere per questo una categoria a sé stante. Ci sono donne che sciopereranno come madri e donne che lo faranno per poter rifiutare di essere madri senza incontrare una legislazione proibitiva, un piano per la fertilità, un obiettore di coscienza. Ci sono donne migranti che per scioperare dovranno sfidare la clandestinità, il ricatto del permesso di soggiorno e la dura opposizione delle pareti domestiche, come già hanno sfidato molti altri confini. Ci sono operaie che hanno l’occasione per connettersi con altre donne che lavorano lungo la stessa catena del valore, in un paese dall’altra parte del mondo, e ci sono le molte che nelle catene globali della cura non sono più disposte a sorreggere un welfare monetizzato e brutalmente impoverito. Tutte queste condizioni e molte altre l’8 marzo dovranno invadere le strade e dare il preciso senso di che cosa significa «una giornata senza di noi», in tutto il mondo. Per noi che «ci organizziamo» questo significa chiederci come fare a tenere alta la forza che è stata raccolta nella chiamata allo sciopero, affinché l’8 marzo possa parlare a tutte queste condizioni e tutte queste condizioni l’8 marzo possano parlare.
Lo sciopero delle donne può allora essere uno sciopero sociale, perché con la forza di un rifiuto può investire l’intero ordine della società. Ciò non significa che le esperienze di sciopero sociale portate avanti fino a oggi siano una risposta alla domanda organizzativa che l’8 marzo pone. Per quanto riguarda l’Italia, il progetto dello sciopero sociale ha avuto la pretesa di ripoliticizzare la lotta contro la precarietà riconoscendo nello sciopero un’arma per organizzare e far comunicare condizioni e soggetti differenti dentro e fuori i luoghi di lavoro. Si tratta di un progetto che si è esaurito nel momento stesso in cui ha ridotto lo sciopero allo strumento di un sindacalismo più o meno nuovo, più o meno sociale, e al nome improprio di una coalizione tra collettivi. Lo sciopero delle donne non ha bisogno di imparare da questo percorso, perché lo ha già superato nei fatti. Il soggetto che lo vuole praticare non è il residuo non organizzato delle grandi strutture sindacali, ma una forza politica inesorabilmente maggioritaria, non una minoranza ma il centro vivente della produzione e riproduzione di questa società. Rifiutando le molte facce della violenza patriarcale – dalla divisione sessuale del lavoro transnazionale all’ingiunzione alla maternità dei piani per la fertilità, dallo stupro alle legislazioni antiabortiste, dalla precarietà all’etica coatta della cura al governo della mobilità e dei confini – le donne rivendicano lo sciopero come pratica politica di interruzione di un rapporto globale di dominio.
Lo sciopero sociale transnazionale ha riconosciuto i limiti dell’esperienza italiana e li ha superati declinando lo sciopero sociale come sciopero logistico, industriale e metropolitano, indicando così le modalità in cui donne e uomini, precarie, operai e migranti si scontrano con la furia accumulatrice del capitale e con le coazioni della riproduzione sociale. Per chi come noi è impegnata in questo progetto, lo sciopero delle donne è un’esperienza da cui imparare e da rilanciare con tutte le forze. In gioco c’è la possibilità di costruire connessioni reali tra luoghi distanti nel mondo, collocati lungo catene globali di sfruttamento e di oppressione che possono essere trasformate in connessioni politiche contro lo sfruttamento e contro l’oppressione globali. Lo sciopero delle donne è l’affermazione di una parzialità contro un ordine di dominio che ha la pretesa di essere universale e inevitabile, mentre può essere concretamente sfidato e sovvertito. Lo sciopero delle donne è la dimostrazione che uno sciopero sociale transnazionale è possibile e necessario, che l’invocazione globale dello sciopero come pratica politica da parte dei soggetti più diversi indica la sfida che dobbiamo essere in grado di cogliere e rilanciare per rovesciare la miseria del presente.
Di tutto questo, ormai all’ordine del giorno nel confronto attivato dalla proposta dello sciopero dell’8 marzo, crediamo sia necessario discutere anche nel percorso che, in Italia, porterà all’assemblea nazionale del prossimo 4 e 5 febbraio. La parola d’ordine dello sciopero deve risuonare fin d’ora affinché il percorso italiano, dopo la grande manifestazione di novembre, sia collocato all’interno della cornice globale in cui questa iniziativa ha preso forma e non si riduca a un’occasione provinciale in cui le reti e i collettivi organizzati mettono in scena la replica di pratiche già viste, chiudendo in un eterno ritorno dell’identico lo spazio aperto dalla sollevazione globale delle donne. Il femminismo che lo sciopero delle donne ci chiama a praticare non è quello certificato dalle tradizioni e non è un affare da specialiste, ma deve raccogliere la novità di questa occasione globale. Il nostro compito è fare di tutto affinché la marea possa invadere nuovi spazi, anziché rientrare negli argini che ha prepotentemente abbattuto.