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Logistica, la ribellione dei migranti contro lo sfruttamento

intervista_grappiIntervista di ROBERTO CICCARELLI a GIORGIO GRAPPI, pubblicata su «Il Manifesto» del 16 settembre 2016

«La morte dell’operaio egiziano Abd Elsalam Ahmed Eldanf travolto da un tir al picchetto di Piacenza non è frutto del caso o di un incidente. Chi ha seguito le lotte operaie dei lavoratori migranti nella logistica conosce benissimo la violenza esercitata ai blocchi da parte padronale, i tentativi di sfondarli, gli interventi delle forze dell’ordine contro i picchetti – afferma Giorgio Grappi, assegnista di ricerca all’università di Bologna, attivista del Coordinamento migranti di Bologna e del collettivo ∫Connessioni precarie e autore di un libro significativo appena pubblicato, Logistica (Ediesse, collana fondamenti) –. Credo che questa tragedia vada compresa come un momento delle lotte sul lavoro che devono confrontarsi con un’organizzazione del lavoro che ha reso sempre più difficile individuare la controparte e ha reso necessario adottare forme di lotta che vanno al di là di quelle tradizionali».

Qual è la novità rappresentata da queste lotte?

In primo luogo il blocco dei magazzini va insieme a quello dei trasporti. In secondo luogo queste lotte vedono il grande protagonismo del lavoro migrante. Sono lotte operaie contro la precarietà e sono il risultato di una ribellione contro una condizione di sfruttamento brutale. Di solito vengono catalogati come episodi estemporanei o liquidati come momenti di ordine pubblico, in alcuni casi i blocchi sono stati addirittura considerati come interruzione di servizi fondamentali.

Come bisogna interpretarle?

Queste lotte sono la risposta alla mancanza di tutele fondamentali, ma anche al ricatto politico esercitato sulla forza lavoro migrante. Questi lavoratori sono in possesso di un permesso di soggiorno e sono sottoposti al regime della legge Bossi-Fini. La perdita del lavoro può costargli l’espulsione o la clandestinità. Oltre a questo subiscono la precarietà a cui è soggetto il lavoro in Italia. Come spesso accade in altri settori, con la crescita della logistica come sistema industriale, la competitività è stata perseguita quasi esclusivamente agendo sul costo del lavoro, facendo pagare ai lavoratori anche il deficit infrastrutturale italiano. Questa violenza non è riuscita a fermare le lotte, anche se produce una divisione – a volte non compresa – tra i migranti e gli altri lavoratori. Quelle dei facchini sono state intese solo come lotte di un settore specifico. In realtà, qui in gioco non c’è solo un contratto di lavoro, ma le condizioni politiche che determinano la precarietà in cui si trova tutto il lavoro.

Dove si sono sviluppate le lotte?

Nell’area a più alta intensità logistica in Italia che comprende la zona tra l’hinterland milanese fino a Piacenza. Le prime conquiste ottenute hanno prodotto un effetto a catena nei magazzini del bolognese e si sono estese in tutta l’Emilia Romagna. Questa è la regione che ha la più alta concentrazione di imprese. Poi c’è il Veneto dove, a loro volta, le lotte hanno preso spazio.

Qual è il ruolo dei sindacati di base?

Usb, Adl Cobas e Si Cobas sono stati determinanti. Credo che vada anche compreso che il ruolo espansivo delle lotte non è stato dovuto solo a questa o un’altra sigla sindacale, ma anche alla capacità degli stessi lavoratori di pressare i sindacati e di trovare gli strumenti di lotta indispensabili in un determinato momento. Questi lavoratori hanno usato i sindacati disponibili a appoggiarli come strumento della loro lotta. Per questo molti di loro hanno abbandonato i sindacati più grandi ai quali erano iscritti in precedenza.

Il ruolo delle cooperative è determinante nel governo di questa forza lavoro. Lo puoi descrivere?

Nella logistica c’è una netta divisione dove i migranti svolgono i lavori più pesanti. Le cooperative sono state usate dai datori di lavoro per reclutare in maniera abnorme questa forza lavoro. Le cooperative sono strumenti agili che possono essere aperti o chiusi a seconda delle esigenze. Poi c’è la figura del socio lavoratore che permette di dare la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, ma maschera la presenza di un vero datore di lavoro. Dietro la retorica abbiamo visto che le cooperative sono padroni come gli altri. L’insieme di questi fattori ha creato una situazione insostenibile. Non va sottovalutato il fatto che questi fattori sono emersi e sono stati compresi solo grazie al protagonismo diretto dei lavoratori.

Nel libro parla di tre paradossi della logistica. Quali sono?

C’è il paradosso del lavoro: la logistica e la riorganizzazione della produzione promuovono la ricerca di una crescente automazione. Sembra che si possa fare a meno della forza lavoro. In realtà esiste un grande interesse ad organizzare le specifiche mansioni della forza lavoro che si scaricano sempre di più sui lavoratori in carne e ossa. C’è poi il paradosso politico per cui, da un lato, c’è una tendenza a centralizzare il comando sul lavoro e, dall’altro lato, assistiamo al proliferare di condizioni particolari e specifiche. Il terzo paradosso riguarda le trasformazioni globali della produzione che intervengono sull’organizzazione degli Stati e sulle dinamiche geopolitiche, producono fenomeni di deterritorializzazione e riterritorializzazione che connettono luoghi diversi legati dallo stesso processo. In questo modo si affermano nuovi centri del potere politico che stentiamo ancora a riconoscere.

In questo quadro come si svilupperanno le lotte nella logistica?

Oggi le divisioni tra le categorie sono in molti casi saltate. È importante costruire maggiori collegamenti tra istanze diverse. Il lavoro migrante è un esempio emblematico di come oggi la forza lavoro sia l’espressione di condizioni politiche differenti. La gigantesca trasformazione in atto rende sempre più difficile, se non impossibile, distinguere nettamente tra questioni sindacali e questioni politiche. Per questo la logistica è molto di più dei magazzini, dei trasporti e della distribuzione. La sua logica risponde alle coordinate globali della politica contemporanea. Non parlo di un super-Stato che si sostituisce agli Stati, ma dobbiamo capire in che modo orientare la nostra azione tenendo conto dell’esistenza di corridoi infrastrutturali e di supply chain transnazionali. Dobbiamo cogliere le dinamiche di un potere che si esercita mediante l’adesione a protocolli, standard, metriche. Spesso non riusciamo a riconoscerlo perché ci si concentra sulla singola azienda. Bisogna prendere atto della riorganizzazione del ciclo produttivo che pone sempre più in relazione il locale con le dinamiche globali.

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