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Pubblichiamo un articolo, scritto dal giornalista indiano G. Sampath, sullo sciopero che ha investito l’India il 2 settembre scorso. Anche se i numeri sono stati probabilmente sovrastimati dai sindacati, che hanno dichiarato almeno 180 milioni di scioperanti, l’enorme partecipazione di uomini e donne allo sciopero è stata una potente dimostrazione di forza. Tuttavia, lo sciopero non ha ottenuto una risposta adeguata da parte del governo centrale, che si è limitato a reprimere e offrire un aumento salariale pressoché ridicolo. D’altronde il successo, così come i limiti, di questi «All India Strikes» ci aiutano a comprendere fenomeni che vanno ben oltre i confini dell’India stessa. Questo sciopero arriva dopo che la Commissione Seventh Pay, sostenuta dal governo centrale, ha raccomandato di aumentare i salari per i lavoratori delle imprese pubbliche. Lo sciopero, che ha visto in prima fila i sindacati del settore pubblico, ha però coinvolto anche lavoratori di aziende private, soprattutto in settori come quello automobilistico. Tuttavia, tali dinamiche di allargamento e il parziale «successo» dello sciopero lasciano aperte alcune questioni centrali nella prospettiva del superamento dei reali limiti politici dell’azione sindacale, questioni che vanno aldilà dello specifico contesto indiano. Alcuni critici hanno sostenuto che i loro sindacati e politici di riferimento non hanno dato alcun segnale di voler seriamente sindacalizzare e schierarsi con i lavoratori con contratto a chiamata e informali. Non essendoci statistiche ufficiali – e le statistiche non riescono mai davvero a comprendere il movimento sul campo – è difficile avere l’esatta misura della partecipazione dei lavoratori con contratto a chiamata negli scioperi in India. Di sicuro, la difficoltà di organizzare il lavoro informale e di coinvolgere i lavoratori con contratto a chiamata nello sciopero è uno dei principali punti di debolezza e, quindi, una delle maggiori sfide del movimento operaio, indiano e globale. Anche se il problema del lavoro a chiamata sta si sta imponendo all’attenzione e la sua eliminazione era fra le rivendicazioni dei lavoratori, non è ancora stato fatto abbastanza dai sindacati principali. Se lo sciopero del 2 settembre aveva principalmente come obiettivo una contrattazione economica col governo, tuttavia è evidente che nel caso dei lavoratori non organizzati ogni lotta fa emergere questioni politiche e sociali, chiamando in causa lo Stato, insieme ai problemi di salario, sanità, istruzione, condizioni di lavoro e altre questioni relative alla mera sopravvivenza – e i sindacati ne sono ben consapevoli. Tanto per i sindacati quanto per i lavoratori, la sfida sarà allora riuscire a produrre una convergenza delle lotte che vada oltre la mera solidarietà e le solite alleanze politiche per creare le condizioni per un sciopero industriale, logistico e metropolitano.
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Il 2 settembre 2016 secondo le stime 180 milioni di lavoratori hanno scioperato in tutta l’India, prendendo parte a ciò che è stata salutata come la più grande azione industriale coordinata del mondo. Tutti i sindacati centrali, a eccezione del sindacato Bharatiya Mazdoor Sangh (BMS – Sindacato dei lavoratori indiani) affiliato al partito di governo (BJP – Bharatiya Janata Party – Partito degli indiani), hanno partecipato allo sciopero. Lavoratori del settore privato, del pubblico e del settore non organizzato, tranne quelli delle ferrovie, si sono uniti allo sciopero. Tra i settori coinvolti c’è quello bancario, assicurativo, energetico, petrolifero, portuale, e anche l’industria militare. Hanno preso parte allo sciopero in numero considerevole anche i lavoratori migranti e le donne, soprattutto lavoratrici del tessile.
È stato il quarto sciopero di tale entità in tutta l’India da quando i sindacati centrali si sono uniti nel 2009. I precedenti scioperi erano stati nel 2010, nel 2011 e nel 2015. Si tratta di uno sciopero annuale – l’anno scorso si è tenuto lo stesso giorno, il 2 settembre – quindi non è stato convocato in risposta a uno specifico evento o scintilla. Quest’anno, però, la partecipazione è stata maggiore specialmente a causa dell’aumento dei prezzi e del maggior numero di lavoratori sfruttati attraverso i contratti a chiamata. Il governo, in modo quasi nascosto, sta anche facendo passare leggi contro i lavoratori – attraverso i governi dei singoli Stati (o i governi provinciali), negli Stati che controlla, come ad esempio il Rajasthan, l’Haryana e il Gujarat – tutti governati dal BJP. E ci si aspetta che le loro riforme del lavoro, estremamente svantaggiose per i lavoratori, diventino un modello da imitare anche per altri Stati. Così, anche senza l’approvazione di legislazione sul lavoro da parte del governo centrale, i lavoratori stanno sentendo crescere la tensione su di loro.
I lavoratori in sciopero avevano una piattaforma rivendicativa articolata in 12 punti, ovvero:
— Salario minimo di non meno di 18,000 rupie al mese
— Fine del lavoro con contratti a chiamata per il perennial work (lavoro non a tempo determinato) e assicurare il pagamento dello stesso salario e degli stessi benefit a lavoratori a contratto e regolari
— Registrazione obbligatoria dei sindacati entro 45 giorni dalla richiesta
— Pensione di non meno di 3000 rupie al mese per tutti i lavoratori
— Abbandono delle «riforme» neoliberali della legislazione sul lavoro
— Previdenza sociale universale per tutti i lavoratori
— Stop alle privatizzazioni delle imprese pubbliche
— Rigida applicazione di tutte le attuali leggi sul lavoro senza alcuna eccezione
— Rimozione dei tetti imposti al pagamento e all’estensione del fondo previdenziale e dei sussidi (benefit di sicurezza sociale)
— Contrasto alla crescita dei prezzi attraverso l’universalizzazione di un sistema pubblico di distribuzione (negozi che forniscono cereali e cherosene a tariffe calmierate attraverso sovvenzioni)
— Fine degli investimenti stranieri nel settore ferroviario, assicurativo e della difesa
— Controllo dell’aumento dei prezzi attraverso il divieto di pratiche speculative.
Lo sciopero ha conseguito un blocco completo dell’attività industriale in due Stati dell’India guidati dalla sinistra, il Kerala e il Tripura, in quanto il partito comunista al governo non ha tentato di ostacolarlo. Inoltre, lo sciopero ha ottenuto risultati significativi in molti altri Stati, andando a colpire il sistema dei trasporti pubblici e bloccando le centrali elettriche. Il governo centrale ha fatto del suo meglio per far fallire lo sciopero, arrestando lavoratori che distribuivano volantini nella cintura industriale del Manesar, arrestando infermiere nella capitale e fermando lavoratori che manifestavano nello Stato di origine del primo ministro, il Gujarat. Con una forza-lavoro di 472 milioni di persone, di cui solo il 4% gode di tutele sul lavoro, le principali richieste dei lavoratori in sciopero sono state di mettere fine all’informalizzazione del lavoro e di assicurare il pagamento di un salario minimo.
Secondo le stime del comparto industriale, lo sciopero ha inflitto all’economia indiana una perdita di 180 miliardi di rupie. I media mainstream, la cui reazione ha oscillato tra l’indifferenza e il fastidio, si sono largamente soffermati su come lo sciopero abbia creato inconvenienti per la popolazione, ovvero per la classe media. La maggior parte dei lavoratori, comunque, ritiene che uno sciopero di un giorno possa tutt’al più inviare un messaggio simbolico al governo neoliberale e che c’è bisogno di intraprendere una robusta campagna durante l’anno per far sì che le richieste siano prese sul serio. Il governo del NDA (National Democratic Alliance), che è nazionalista e di destra, ha provato a disinnescare lo sciopero annunciando un aumento di 104 rupie nel salario minimo giornaliero dei lavoratori semi-specializzati non impiegati nel settore agricolo, ma non è riuscito a convincere i sindacati che hanno deciso di andare avanti con lo sciopero. È riuscito, invece, a convincere il sindacato vicino al partito di governo (BMS) a tirarsi indietro. A parte questo, il governo non ha cambiato linea riguardo alle «riforme» neoliberali del mercato del lavoro.
I sindacati hanno giocato un ruolo cruciale nello sciopero – si tratta, dopo tutto, del loro gran giorno. Ogni centrale sindacale è una federazione di centinaia di più piccole strutture sindacali diffuse in vari settori. Così, quando le dieci maggiori centrali sindacali si sono unite, con l’eccezione del BMS, sono riuscite a raggiungere un risultato notevole in termini di partecipazione. Tuttavia, questa volta, eccetto i sindacati sotto il controllo del management, la gran parte dei sindacati indipendenti ha voluto partecipare per mandare un messaggio. I lavoratori spesso accusano la leadership sindacale di non fare granché per tutto l’anno e di attivarsi solo il 2 settembre per fare un’azione simbolica, cosa che viene percepita come una concessione pro-forma.
È un dato di fatto che gli organizzatori dello sciopero hanno annunciato ulteriori iniziative politiche per il futuro solo in termini vaghi. Alcune formazioni minori, come la MASA (Mazdoor Adhikar Sangharsh Abhiyaan), formatasi tre giorni prima dello sciopero del 2 settembre, hanno annunciato un programma annuale di azioni centrate attorno a tre problemi: il salario minimo, l’eliminazione del lavoro con contratto a chiamata per il lavoro non limitato nel tempo (perennial work) e la fine delle riforme del lavoro. Ma non c’è una vera convergenza per ora. I sindacati non sono ancora organicamente uniti. Dal mio scettico punto di vista, credo che una convergenza politicamente coordinata avrà bisogno di più tempo, organizzazione, mobilitazione e lotta. Infine, l’impatto politico dello sciopero sull’opinione pubblica è stato moderato. Se in luogo dell’opinione pubblica prendiamo l’opinione dei lavoratori – raccogliendo large masse di lavoratori, lo sciopero ha contribuito a innalzare il livello di quella che è considerata una militanza «accettabile» nel movimento della classe operaia.