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Con questo testo intendiamo contribuire alla discussione che si terrà al Festival Antirazzista di Atene, un’occasione per fare un bilancio e per discutere la crisi di Blockupy anche oltre Blockupy, a partire dai limiti che ha mostrato nell’intervenire negli attuali movimenti che attraversano lo spazio europeo.
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Il risultato del referendum britannico è l’ennesimo segnale della crisi di un processo di integrazione europea portato avanti esclusivamente all’insegna dell’austerity e del dominio incontrastato del capitale finanziario. È una considerazione di senso comune. C’è chi ha accolto quel risultato con entusiasmo, leggendovi l’espressione di una presa di posizione operaia che finalmente trova modo di farsi valere, sebbene attraverso le pieghe di un ‘ambiguo’ nazionalismo. Altri invece hanno segnalato la necessità di una visione alternativa dell’Europa, puntando anche ad attraversarne gli assetti istituzionali nella prospettiva di forzare i rapporti sociali che vi trovano espressione. La cosiddetta Brexit pone però ai movimenti una questione fondamentale che riguarda tanto la direzione del legittimo rifiuto di classe dello sfruttamento e dell’oppressione rappresentati dalle politiche dell’Unione, quanto la dimensione plausibile della nostra iniziativa politica. Nel momento in cui abbiamo affermato che l’Europa è lo spazio minimo di quest’iniziativa, fare i conti con le tensioni che l’attraversano senza dare per scontata la sua tenuta istituzionale è quanto mai necessario.
Per noi l’Europa è uno spazio politico transnazionale. Essa non si esaurisce nella forma istituzionale dell’Unione Europea e neppure coincide con la semplice sommatoria di spazi nazionali, come se questi potessero essere chiaramente distinti dalle dinamiche globali e dal potere sociale che li costituiscono. Insistere sul suo carattere transnazionale significa allora porre l’accento su quelle dinamiche e su questo potere, che sistematicamente travalicano i confini dei singoli Stati riconfigurando la loro funzione. Lo spazio transnazionale è costituito dai movimenti che lo attraversano e lo mettono in crisi – a partire da quelli del lavoro vivo – e da un apparato logistico che connette ogni suo punto attraverso infrastrutture materiali, linee di diritto, frontiere mobili e funzionali. In virtù di questa connessione oggettiva, ogni luogo è necessariamente attraversato da dinamiche non solo locali, ma ciò non rende le iniziative locali – che siano cittadine, metropolitane o nazionali – immediatamente transnazionali. Resta aperta la questione di come trasformare quella connessione oggettivamente esistente in un processo organizzativo capace di mettere in comunicazione l’insubordinazione che attraversa ogni punto dello spazio politico transnazionale dell’Europa e renderla una forza di liberazione comune.
Dal 2012 Blockupy è stato per noi un’opportunità di muoverci in questa direzione. Abbiamo contribuito alla sua iniziativa riconoscendovi l’unico network che ha avuto il coraggio di costruire una risposta al potere sociale e finanziario dell’Unione coordinata a livello europeo. Sulla base di questo progetto di opposizione all’austerity, Blockupy è stato capace di attirare collettivi, network e forze sindacali da tutta Europa, offrendo loro la possibilità di superare i limiti di iniziative meramente locali. La giornata di azione contro la BCE è stata un potente momento di precipitazione di questo pluriennale lavoro organizzativo, che ha saputo scegliere come obiettivo il simbolo del dominio finanziario dell’Unione Europea, attaccando direttamente il «cuore della bestia». In quel momento, Blockupy ha indicato, anche a chi non ne ha attraversato l’esperienza, la possibilità di trovare forme di convergenza e di attacco per fare dell’Europa un campo di battaglia contro le politiche di austerity. Questa capacità propulsiva ed espansiva sembra però essersi esaurita. Essa, in ultima analisi, è stata direttamente proporzionale al dispotismo del dominio della Troika, ma è entrata in crisi nel momento in cui la costituzione europea è stata materialmente messa in questione da movimenti sociali irriducibili alle forze organizzate che in Blockupy si sono riconosciute. Di fronte alla crisi greca, alla tempesta dei migranti, allo sciopero sociale in Francia e al processo che ha portato alla Brexit, la logica del pluralismo e della coalizione tra le forze esistenti e i circuiti di attivisti ha prevalso sull’esigenza di dare centralmente voce e visibilità a quei precari, migranti e operai che in Europa hanno duramente subito e rifiutato gli effetti quotidiani delle politiche di austerity. L’incapacità di cogliere le trasformazioni in campo è stata dettata anche dall’indisponibilità a superare un approccio solidaristico, come se la solidarietà con la Grecia, con i migranti o con la Francia potessero costituire risposte all’altezza della sfida. Inoltre, la scelta di parole d’ordine generiche ha prevalso sull’urgenza di definire un discorso politico di parte capace di essere impugnato da chi nel frattempo, anche al di fuori dai circuiti militanti, stava mettendo in tensione l’assetto politico e istituzionale dell’Unione. Il discorso sulla polarizzazione tra un Nord ricco e un Sud povero ha finito per cristallizzare le differenze, impedendo di vedere all’opera un regime del salario europeo che sta imponendo una sincronizzazione forzata delle condizioni dello sfruttamento nello spazio transnazionale.
Mentre non riesce a cogliere la complessità delle dinamiche e delle opportunità che l’attraversano, l’insistenza sull’Europa a trazione tedesca ha prodotto infine un ripiegamento sul piano nazionale dell’iniziativa. Così, anziché approfondire la dimensione transnazionale europea, Blockupy finisce per concentrarsi su mobilitazioni essenzialmente tedesche. Al netto degli slogan, una manifestazione contro le destre come quella promossa da Blockupy Germania rischia di confermare e sostanziare il piano, quello nazionale, da cui le destre traggono forza e alimento. Se si concepisce l’iniziativa in quest’ottica nazionale, non basterà peraltro accostare occasionalmente la critica al razzismo e quella delle politiche sociali dell’Unione Europea per affermare un discorso in grado stabilire un polo di opposizione materiale a quello delle destre che giustamente si vogliono combattere. Specularmente all’idea di costruire una Europe for all, l’iniziativa nazionale è così incapace di domandarsi quali siano i differenti soggetti che, al di fuori del ristretto circolo di attivisti, attraversano lo spazio europeo mettendolo in movimento. Il venire meno dell’iniziativa transnazionale di Blockupy a favore di un investimento ripiegato sulla Germania appare così il segno dello scacco di un determinato progetto di iniziativa sul piano europeo. E non basta avere una data tendenzialmente transnazionale in primavera – difficile peraltro da costruire se, come è capitato negli ultimi mesi, l’esigenza di organizzazione transnazionale viene derubricata a componente accessoria di una mobilitazione nazionale – per occultare con qualche coloritura europea la chiusura nazionale. Abbiamo puntato troppo nell’ispirazione iniziale di Blockupy come movimento europeo per non leggere dietro a ciò che viene presentato come radicamento territoriale il segno di una retrocessione. Non si tratta qui di salvaguardare lo spazio di Blockupy, di rilanciarlo o di dichiararne la fine. Prendere atto dei suoi limiti è però necessario per chiunque stia ragionando su come rendere espansivi processi e pratiche di insubordinazione transnazionali.
Bisogna allora riconoscere la sfida che i movimenti hanno di fronte, ovvero l’impossibilità di pensare il piano locale e il piano transnazionale semplicemente come alternative o come sommatoria. Tanto i territori quanto lo spazio europeo devono oggi essere ripensati a partire dalla dimensione transnazionale dell’Europa richiamata in precedenza e dai movimenti di donne e uomini che la attraversano scombinando gli assetti consolidati. Ciò significa registrare che non tutte le lotte o iniziative locali si equivalgono, poiché vi sono momenti di precipitazione locali o nazionali che hanno un potenziale che va ben oltre la loro collocazione territoriale e che devono essere tradotti in un processo organizzativo transnazionale. Questo è il caso della mobilitazione francese. Essa non è semplicemente un barlume di speranza da guardare a debita distanza, né un modello da imitare o da esportare, ma pone chiunque sia impegnato nella costruzione di un’iniziativa autenticamente europea di fronte a precise responsabilità. Da un lato, la lotta contro la loi travail impone di riconoscere gli assi specifici attorno ai quali la costituzione europea scricchiola: salari, welfare, libertà di movimento. Lo stesso terreno sul quale le spinte neo-nazionaliste stanno costruendo la loro campagna, paradossalmente più europea di quella dei loro stessi oppositori di movimento. Dall’altro, si tratta di riconoscere che la convergenza delle lotte non è semplicemente il nome della sommatoria di iniziative locali né una generazione spontanea. «Convergere» in Francia ha significato individuare un obiettivo politico comune, ha significato che la richiesta di una democrazia dal basso, la rivendicazione di giustizia e diritti sociali, la lotta contro la repressione poliziesca hanno trovato nell’opposizione al dispotismo del salario e dei padroni un punto comune di precipitazione. La convergenza in Francia è stata possibile perché la pratica sociale dello sciopero è diventata uno strumento di costante comunicazione tra condizioni differenti e la parola d’ordine che ha guidato una sollevazione di massa. Il centro attorno a cui la mobilitazione francese invita alla convergenza ha perciò un portato che supera la Francia, anche se la mobilitazione contro la loi travail non è stata accompagnata da rivendicazioni esplicitamente europee: esso può essere impugnato da milioni di proletari in Europa, ovvero dai protagonisti di uno scontro quotidiano dentro e fuori dai luoghi di lavoro. Tuttavia, la possibilità di farne un’occasione politica concreta di comunicazione e connessione oltre i confini francesi dipende dalla presenza di un processo di organizzazione transnazionale capace di attivarsi in maniera visibile e decisa là dove le contraddizioni della costituzione materiale dell’Europa esplodono. Per fare della crisi europea una possibilità che apra spazi di libertà, anziché chiuderli, affinché lo sciopero sociale che ha travolto la Francia possa diventare una pratica transnazionale, c’è bisogno di assumere in pieno la sfida di una «convergenza» che sappia mettere stabilmente al centro della nostra iniziativa le ambizioni e le pretese di operai, migranti e precarie in tutta Europa: la pretesa di avere un salario che non sia deciso dall’arbitrio dei padroni; la pretesa di avere assicurate sanità, casa e pensioni a prescindere dal tipo di contratto di lavoro; la pretesa di muoversi senza ricatti e restrizioni, a prescindere dalla nazionalità scritta nei loro documenti. Di fronte agli scossoni che scuotono l’Europa, se non si vuole lasciare il campo alla doppia tenaglia rappresentata dalla difesa dell’Unione e guidata dalla Commissione Europea e dalle spinte neo-nazionaliste, oggi è necessario parlare al di fuori dei confini ristretti delle organizzazioni di movimento e di tracciare una direzione comune in cui possa trovare espressione il rifiuto di oppressione e sfruttamento praticato in Europa in forme diverse da milioni di precarie, operai e migranti, indicando chiaramente la pratica di una costante accumulazione di potere.