Una versione abbreviata di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 9 giugno 2016.
«Noi lavoranti a domicilio abbiamo speso ognuna un milione; per 10.000 che siamo equivale a 10 miliardi per comprare “le nostre fabbriche casalinghe”, cioè le macchine. In compenso, quasi nessuna ha il libretto di lavoro, perciò dopo anni di schiena rotta, niente pensione». Era il 9 marzo del 1968, la società, come si diceva all’epoca, viveva in funzione della fabbrica ed essa estendeva il suo dominio a tutta la società. Il lavoro a domicilio avrebbe raggiunto di lì a poco il punto di massima diffusione e cominciava a uscire almeno in parte fuori dalle mura domestiche. Sindacati, leghe operaie, inchieste dedicate al lavoro femminile cominciavano a occuparsi di quello che fino a poco prima era stato considerato solo un fenomeno residuale, una strategia per arrotondare, una forma di resistenza al disciplinamento della fabbrica, spesso illusoria: padrona del luogo di lavoro, schiava del tempo di lavoro.
Il libro di Tania Toffanin (Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Verona, ombrecorte, 2016, 223 pp., 18€) comincia proprio con questa premessa: «il lavoro manifatturiero a domicilio non è un fenomeno, ma una forma di produzione». L’analisi sociologica non si ferma a una valutazione quantitativa del lavoro a domicilio ieri e oggi, ma grazie a un’approfondita analisi storica porta alla luce tanto le condizioni politiche in cui si è dato – il sistema patriarcale che favorisce il mancato riconoscimento del lavoro delle donne, domestico e a domicilio, le forme paternalistiche di management industriale – quanto il contesto economico e sociale in cui esso si sviluppa, prende pienamente forma e rimane anche in tempi più recenti, nei processi di delocalizzazione in specifiche aree di produzione. Per l’autrice non si tratta infatti di ricostruire una tipologia di lavoro protoindustriale, quanto piuttosto di mostrare come in tempi e luoghi diversi il lavoro a domicilio è l’emblema della coesistenza di regimi di produzioni pre-fordisti, tayloristi/fordisti e post-fordisti, ovvero inseriti in una nuova divisione internazionale, tecnica e sessuale del lavoro, caratterizzata da forme diverse di decentramento produttivo. Mettere in luce il rapporto di funzionalità tra lavoro a domicilio e sviluppo capitalistico significa comprendere quali sono i suoi caratteri produttivi essenziali: il pagamento a cottimo, che nega di fatto l’autonomia nei tempi di lavoro, il dominio assoluto e unilaterale del padrone sui livelli salariali, l’assenza di controlli e di regolazioni sufficienti tanto legislative quanto sindacali, che esclude le donne anche dalle conquiste operaie. Esemplare in questo senso l’art. 18, che non si applicava a imprese con meno di 15 dipendenti, il che spiega perché il lavoro a domicilio in Italia ha il suo momento di massima espansione proprio a seguito dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori. Diritti e sfruttamento procedevano insieme. La rigidità contrattuale acquisita dalla forza lavoro aveva un prezzo sul piano della contabilità nazionale ed era rappresentata da una forma di produzione che consentiva massima estrazione di valore e di profitto al minimo costo, contemporaneamente garantendo allo Stato l’istituzionalizzazione della gratuità del lavoro femminile domestico e di cura. Il lavoro a domicilio diventava alternativa alla disoccupazione femminile e riduceva le tensioni sociali dovute alle ristrutturazioni produttive che espellevano gli uomini dal mercato del lavoro. Lo Stato ci guadagnava anche sul piano della previdenza sociale. Molte di queste donne continuavano infatti anche a svolgere lavoro agricolo per tenere in piedi una sorta di economia di sussistenza. In questo modo, l’attore economico protagonista dello sviluppo industriale diventava la famiglia, di cui la donna era custode, in quanto «intermediario e soggetto organizzativo» dell’economia informale. L’espansione della piccola impresa era allora uno scambio politico tra governo e poteri locali, una forma di contrattazione che spiega molto del destino attuale delle cooperative.
Il lavoro a domicilio è l’anello di congiunzione tra piccola e grande impresa, tra cooperativa e grandi committenti e ha a che fare con una specifica divisione territoriale del lavoro e della produzione perché mostra come anche modelli di sviluppo ideali sopravvivevano grazie allo sfruttamento intensivo di almeno una parte della forza-lavoro, quella composta prevalentemente da donne con basso livello di istruzione formale e autonomia economica. È proprio nei sistemi di piccola impresa che si è andata ridefinendo la divisione internazionale e sessuale del lavoro, togliendo ai sindacati ogni possibilità di azione. Anzi, sindacati e istituzioni si sono trovati fianco a fianco con lo scopo quasi di incentivare l’informalizzazione dei rapporti tra imprese e forza-lavoro, anche al prezzo di una completa irregolarità. Nel caso del lavoro a domicilio, la deregolamentazione delle condizioni di lavoro ha significato, e significa ancora in diverse parti del mondo, ritmi di lavoro indefiniti e nocività, con effetti collaterali per la salute anche invalidanti o fatali. Il silenzio dei sindacati, come anche l’assenza di appoggio da parte del resto della forza-lavoro maschile, mostrava negli anni Settanta quella perversa alleanza tra capitale, Stato e patriarcato smascherata dal movimento femminista anche tra le fila del partito comunista, e che non ha abbandonato neanche ora lo sviluppo capitalistico.
Il libro dedica un capitolo all’analisi delle relazioni di produzione e riproduzione in quello che veniva chiamato il «distretto calzaturiero veneto», ricostruendo un profilo dell’area indagata sia attraverso l’esame dei dati, sia servendosi di un’indagine condotta in due fasi tra fine anni Novanta e inizio Duemila, e tra 2012 e 2015. L’autrice intervista le «mistre», la manodopera di mestiere, del settore calzaturiero tra Padova e Venezia, uno dei luoghi in cui oggi si sono insediate le aziende più note dell’alta moda come Prada, Armani, Louis Vuitton, Christian Dior. Sono molte le migranti che anche in Italia lavorano ancora a domicilio, basti pensare alle camiciaie cinesi della Bolognina o di Prato, in concorrenza con le mistre della Riviera del Brenta di cui ci parla l’autrice. Nella stessa «fabbrica invisibile» lavorano, dall’altro capo del mondo, le fabbricatrici di pizzo di Narsapur, legate alle mistre venete o cinesi dalla stessa catena globale di sfruttamento. Proprio per il fatto di rappresentare il nesso tra manodopera a basso costo non sindacalizzata e industrializzazione diffusa, il lavoro a domicilio anche oggi, nelle sue dimensioni ridotte ma non meno alienanti nei paesi industrializzati, e dislocate e occultate in quelli «in via di industrializzazione», diventa una lente con cui leggere trasformazioni che investono tutto il lavoro. Prima di tutto la stretta relazione tra territorio e struttura produttiva resa possibile da una forza-lavoro com’è quella femminile, spesso anche migrante, centrale nel processo di accumulazione, e che viene così sottratta, oggi come ieri, allo spazio conflittuale della fabbrica: «quando ero in fabbrica era come se avessi avuto una finestra aperta sul mondo, perché si discuteva di tutto quello che succedeva […] ero sempre la prima a scioperare, ma ora non posso mica farlo da sola». Da questo punto di vista, il lavoro a domicilio ha anticipato tendenze tipiche della precarizzazione degli anni Duemila e dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro. Anche dopo la sua regolazione nel 1973, il lavoro a domicilio ha continuato a essere laboratorio di irregolarizzazione del lavoro, oltre che di informalizzazione dei rapporti di potere: le donne venivano costrette a iscriversi all’Albo degli artigiani di modo che le imprese potessero sfruttare l’apprendistato come un contratto di lavoro vantaggioso, una pratica tornata assai in voga di recente. Oggi, infatti, possiamo dire che lavoro informale e formale si nutrono l’uno dell’altro grazie a un’irregolarizzazione che si muove indifferentemente su entrambi i canali di produzione.
La ricerca mostra come senza il lavoro delle donne, segregato in casa e a basso costo, non esisterebbe né made in Italy né alta moda italiana sul mercato globale. Da questo punto di vista il mito etico del made in Italy è, appunto, solo un mito. Il lavoro a domicilio ha permesso al capitale industriale di conservare a lungo due caratteristiche cruciali per il suo sviluppo: l’ideologia della domesticità, necessaria alla riproduzione della forza lavoro maschile contrattualizzata, e il lavoro irregolare a basso costo impiegato in segmenti produttivi particolari, perché necessari per la produzione di merci non standardizzate. Mettere al lavoro l’angelo del focolare, portare la catena accanto alla cucina, permette non solo la segregazione delle donne, ma la doppia svalutazione simbolica e monetaria del loro lavoro nella sfera produttiva e in quella riproduttiva: un doppio disconoscimento e un duplice sfruttamento.
Se quanto accade oggi con la precarizzazione nel nuovo regime del salario, sia in termini di produzione sia di riproduzione, non fosse già di per sé sufficiente a ripensare il concetto di post-fordismo, il lavoro di Toffanin mette in chiaro una volta per tutte che le nuove occupazioni, la proliferazione di nuove forme giuridiche e l’informalizzazione dei rapporti di forza mostrano la persistenza di schemi tayloristici di organizzazione del lavoro funzionali allo stretto legame tra salario e produttività, al netto di tutte le garanzie che quel sistema originariamente concedeva. Un processo, scrive Toffanin, che riguarda anche i professionisti e i lavoratori autonomi che sono in un circuito tutt’altro che informale, specie se si guarda alla loro formazione, ma che è in perfetta continuità con il lavoro a domicilio per quanto riguarda l’irregolarità retributiva e contributiva.
Fabbriche invisibili non è la fotografia in bianco e nero di un mondo del lavoro scomparso o sommerso, ma ci mostra il lato oscuro della luna: tanto del capitale, quanto delle lotte sul lavoro. Il pregio del libro è infatti non solo quello di portare alla luce una forma di produzione occultata e di metterla in connessione e in tensione con quel lavoro riproduttivo di cura ancora oggi delegato alle donne. Col venir meno dello Stato sociale, oltre a essere gratuito e non riconosciuto, il lavoro domestico viene peraltro esternalizzato e venduto ad altre donne, al prezzo di una monetizzazione dei servizi che si regge sulla dequalificazione del lavoro femminile e sui bassi salari di tutte, lavoratrici in casa o fuori casa, producendo una catena di sfruttamento globale su cui si muove un patriarcato altrettanto globale e tutt’altro che in crisi.
Il punto di forza dell’analisi di Toffanin è proprio quello di far valere il ruolo di questa parte della forza lavoro, le donne, nella ridefinizione del processo di accumulazione capitalistica. Il lavoro a domicilio svolto dalle donne è cioè, ancora oggi, rilevante soprattutto per quello che ci dice su tutto il lavoro.