di LUCA COBBE – GIORGIO GRAPPI
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Alla vigilia del primo marzo transnazionale «contro i confini e la precarizzazione», pubblichiamo (anche in traduzione inglese, grazie alla collaborazione delle compagne e dei compagni di trommons.org), un articolo sullo sciopero del lavoro migrante del 1 marzo 2010 pubblicato nel volume nel volume La normale eccezione. Lotte migranti in italia, a cura di F. Mometti – M. Ricciardi, Roma, Alegre, 2011.
Sono passati 6 anni da un’esperienza di insubordinazione politica che coinvolse centinaia di migliaia di uomini e donne in svariate città del territorio italiano e non solo. Un’esperienza che, per quanto ricca di elementi di innovazione, già l’anno successivo si era dimostrata difficilmente replicabile. Il contesto politico e di movimento, il rapporto tra i migranti, i sindacati e le forze politiche, il dibattito pubblico, ma soprattutto la trasformazione continua che gli stessi movimenti migratori apportano sulla composizione della società e della forza-lavoro non sono elementi che possono essere previsti e riprodotti a tavolino. E tuttavia, alcune indicazioni di quell’esperienza continuano a interrogare l’agire politico nostro e di chi si pone il problema dell’organizzazione politica in un contesto nel quale i processi di precarizzazione si incrociano con quelli di governo della mobilità su una scala transnazionale e globale.
Questi sei anni hanno visto certamente una ripresa della conflittualità del lavoro migrante nei luoghi di lavoro (basti pensare all’esperienza delle lotte nel settore della logistica e in quello agricolo), il definitivo tramonto di ogni capacità concertativa da parte dei sindacati e soprattutto il montare di un movimento di centinaia di migliaia di uomini e donne che hanno deciso di sfidare i confini per sottrarsi a guerre, povertà e sfruttamento. Allo stesso tempo la precarietà si è affermata definitivamente come condizione generale di tutto il lavoro. Tuttavia questa nuova condizione comune non si è data nella forma di un’omogeneità, ma come proliferazione di regimi differenti di comando e messa a lavoro. In questa situazione profondamente mutata, il lavoro migrante continua tuttavia a manifestare una propria centralità politica. Esso indica, infatti, una tendenza specifica che coinvolge sempre più il lavoro vivo contemporaneo: la sua costitutiva mobilità. Una mobilità divenuta sempre più patrimonio contraddittorio di tutto il lavoro vivo: se da un lato essa mette a soqquadro tanto il mercato del lavoro quanto le stesse istituzioni europee, dall’altro ha contribuito ad acuire la crisi dei modelli tradizionali di organizzazione politica del lavoro, a partire da quello sindacale.
Ripercorrere l’esperienza dello sciopero del 2010 significa collocarsi all’altezza di queste contraddizioni per pensare, oggi, nuove modalità di sottrazione e organizzazione politica di fronte a un governo della forza lavoro dal carattere sempre più globale. Contro ogni feticismo della solidarietà, partire dalle esperienze di sciopero significa pensare processi di ricomposizione del lavoro vivo che scontino le differenze che lo attraversano. Contro una certa visione estetizzante per la quale i migranti esistono solo nel momento in cui attraversano i confini materiali degli Stati, partire dalle esperienze di insubordinazione del lavoro migrante significa coglierne la potenza destrutturante sulla produzione e riproduzione sociale. Inoltre, ripercorrere il modo in cui, nel 2010, lo sciopero da evocazione sia divenuto una realtà è utile anche per osservare da vicino le tante, troppe, resistenze che allora vennero da parte sindacale e anche da buona parte dei movimenti. Quelle resistenze non sono, per noi, il frutto di un semplice scontro tra discorsi e vedute. Esse sono invece il segnale di una difficoltà oggettiva che le migrazioni e la mobilità pongono all’agire politico e alla possibilità di costruire percorsi realmente transnazionali. Mentre oggi cresce la tendenza a vedere la questione migrante come un problema di «accoglienza», e i migranti solo come soggetti di bisogno, richiamarsi a quelle resistenze ci sembra utile per cogliere l’interezza della posta in gioco che la tempesta che ha investito l’Europa ci mette di fronte.
Aggredire e organizzare questa mobilità, coglierne gli elementi di ricchezza, le contraddizioni, gli elementi destabilizzanti è stata la sfida politica dello sciopero del lavoro migrante del 2010. Individuare nel lavoro migrante la possibilità di politicizzare una differenza specifica che attraversa lo spazio transnazionale del lavoro contemporaneo è la sfida di poter «produrre nuove convergenze del lavoro vivo e aprire nuovi scenari», oggi. Una sfida raccolta dalla piattaforma del Transnational Social Strike che, sulla scia di questa scintilla del 2010, ha deciso di fare del primo marzo del lavoro migrante il primo passo di un percorso che si pone l’ambizioso obiettivo di costruire le condizioni per un ampio e potente sciopero transnazionale, in grado di contrastare tanto il governo transnazionale della mobilità quanto di interrompere le catene globali del valore alla base dei regimi attuali di accumulazione.
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“Il primo marzo ci sarà il primo sciopero dei migranti”
Il primo marzo è stato «il primo sciopero diffuso su una vasta regione di migliaia di migranti e di italiani contro lo sfruttamento del lavoro migrante»[1]. Certo, il primo marzo del 2010 non è stato solo questo. Almeno 300mila persone hanno riempito le piazze di decine di città italiane: da Trieste a Siracusa, da Palermo a Torino, tra le quali vanno ricordate le grandi manifestazioni di Milano, Napoli, Brescia, Bologna. In diverse piccole città italiane, forse per la prima volta, la presenza diffusa dei migranti nel tessuto sociale si è mostrata attraverso presidi o manifestazioni che hanno assunto un tono comune di rifiuto del discorso dominante, mettendo il razzismo in relazione con quello che viene oggi comunemente definito il razzismo istituzionale.
Fosse anche solo questo il risultato raggiunto dalla mobilitazione, ci sarebbe di che rallegrarsi. La critica al razzismo istituzionale è infatti penetrata anche in ambienti, come quello di buona parte dell’associazionismo, che per anni hanno utilizzato le lenti del multiculturalismo, dell’accoglienza o del volontariato per guardare alla presenza migrante. Il doppio effetto di questi approcci è stato di spoliticizzare la presenza dei migranti e di relegare il razzismo a fenomeno puramente sociale, come se la società stessa possa essere considerata neutrale rispetto alle differenze prodotte dalla normazione statale[2].
L’irruzione sulla scena dei migranti come individui e protagonisti ha poi spezzato, almeno per un giorno, la gabbia della solidarietà verso soggetti considerati come più deboli, bisognosi di aiuto e costantemente rinchiusi all’interno delle comunità nazionali, lasciando intravedere il potenziale politico della presenza migrante[3]. Una gabbia, vorremmo osservare, che è stata attaccata da più parti negli ultimi dieci anni, ma la cui presenza era difficile non riconoscere anche nei discorsi e nei percorsi che hanno portato all’ultima grande manifestazione antirazzista del 17 ottobre 2009, che ha visto sfilare decine di migliaia di persone a Roma. Quella giornata ha mostrato il limite del discorso e della mobilitazione antirazzista. Un limite politico, nel vero senso del termine, e non semplicemente un limite di volontà da parte dei soggetti collettivi che quella manifestazione hanno prodotto. Per chi ha osservato ed è stato protagonista del ciclo di mobilitazioni dei migranti e antirazziste che si sono avute in Italia in questi anni, quella manifestazione può essere considerata in qualche modo un canto del cigno. La grande presenza di piazza dei migranti, che nel 2004 e nel 2005 si era affermata in modo dirompente, ora stava ad indicare che di quello, forse, non c’era più bisogno: i numeri del del 17 ottobre non indicavano più un dato di novità, né un protagonismo già affermato, ma si ponevano come sfida per lo stesso discorso e le pratiche antirazziste.
Non è dunque un caso che la rottura con un lungo ciclo di mobilitazioni sia avvenuta nel modo più insolito e inatteso: tramite una ‘chiamata’ proveniente dalla Francia, e in quanto tale ripresa dalla stampa, poi rilanciata su Facebook anche in Italia, che è stata prima guardata con sufficienza da molti di coloro che da anni erano dentro ai percorsi di mobilitazione dei migranti, poi assunta e che infine ha avuto la forza di circolare massivamente, tanto tra migliaia di donne e uomini migranti quanto nel panorama di movimento. Una novità presente anche nelle piazze in cui sono scese soltanto poche decine di persone, ritrovatesi però di fatto connesse alle altre migliaia che in tutta Italia stavano scioperando e manifestando. Parafrasando le parole di un manifestante egiziano riportate da alcuni quotidiani durante le giornate di piazza Tahrir, se prima i migranti guardavano la televisione, quel giorno è stata la televisione a guardare i migranti. È certo vero che i migranti non sono mai stati soltanto “davanti alla televisione”, ma il primo marzo si è prodotta una novità in grado di modificare una prospettiva, ed è il raccordo tra le lotte e le mobilitazioni precedenti e questa novità che va compreso.
Ciò è stato possibile grazie a una serie di fattori, prima di tutto dal fatto che per settimane è circolata nelle reti, nei social network e sulla stampa nazionale una formula ma che ha esercitato una forte attrazione e ha saputo interpellare, per così dire, soggetti tra loro molto diversi: “il primo marzo ci sarà il primo sciopero dei migranti”[4]. Parlare di sciopero in relazione al primo marzo serve perciò a comprendere come mai, anche laddove lo sciopero non c’è stato, quella giornata abbia rappresentato un momento di mobilitazione nuovo e potente.
La parola sciopero è stata messa in circolazione, poi è stata discussa, ha provocato incomprensioni, dichiarazioni avventate, disquisizioni giuridiche – prima, si noti, del rinnovato dibattito imposto da lì a pochi mesi dalla vicenda del referendum alla FIAT di Pomigliano –, prese di distanza alle quali si contrapponevano percorsi che invece sullo sciopero hanno deciso di costruire la mobilitazione, incontrando una volontà diffusa da parte dei migranti di essere protagonisti, per la prima volta, di uno sciopero “loro”. La voglia da parte dei migranti di guidare uno sciopero non era nuova, la novità era invece la ribalta e il fatto che questo sciopero fosse stato in qualche modo indetto. Nessuno sapeva bene da chi, ma la frase circolava: “il primo marzo ci sarà il primo sciopero dei migranti”.
Dello sciopero sono state date diverse interpretazioni, tanto che molti, anche tra chi poi è stato protagonista della giornata nel suo complesso, sostenevano al contempo che fosse impossibile o quantomeno insufficiente rispetto alle questioni che interessano la condizione migrante. Il tema che sta tra queste due tesi in apparente contraddizione era quello del lavoro: sostenere l’impossibilità di uno sciopero dei migranti voleva dire in primo luogo considerare insuperabili le barriere dello sfruttamento e della soggezione entro cui il razzismo, istituzionale e non, costringe i migranti. Sostenere l’insufficienza dello sciopero voleva dire invece che proprio a causa di queste barriere, lo sciopero non poteva far emergere l’eterogeneità della condizione migrante. La parola sciopero è stata così da molti neutralizzata, cercando di allontanare il suo legame con la dimensione del lavoro. Il “non detto” implicito in questi discorsi ha accomunato attori tra di loro molto diversi, animando grandi discussioni e producendo piccate prese di posizione. Le componenti collettive immediatamente chiamate in causa erano principalmente due: i sindacati da un lato e diverse associazioni, gruppi e collettivi di movimento impegnati sui temi dell’antirazzismo o, più in generale, delle migrazioni. Entrambi non hanno capito che i problemi segnalati erano esattamente la posta in gioco del primo marzo, per chi voleva accettarne la sfida politica…per continuare a leggere scarica l’articolo in formato *pdf
[1] Così il Coordinamento per lo sciopero del lavoro migrante in Italia. Sotto questa sigla si sono raggruppati un insieme di coordinamenti migranti, collettivi e reti di Bari, Bologna, Brescia, Mantova e basso mantovano, Milano, Padova, Roma, Torino. Il documento è consultabile su http://lavoromigrante.splinder.com/post/22353749/come-si-racconta-il-primo-marzo. Sulla categoria politica di “lavoro migrante” rimandiamo all’introduzione di F. Raimondi, M. Ricciardi a Lavoro migrante. Esperienza e prospettiva, (a cura di F. Raimondi e M. Ricciardi), Derive/Approdi, Roma, 2004, pp. 5-21.
[2] Cfr. L’articolo di Ranciere, Il razzismo viene dall’alto, uscito su «il Manifesto» del 26/9/2010. consultabile su http://www.sinistrainrete.info/societa/1029-jacques-ranciere-il-razzismo-viene-dallalto
[3] Nel parlare di individui intendiamo, più che dare una definizione, sottolineare un problema. Ciò ci permette di indicare la rottura che i comportamenti migranti inducono sia sui confini istituzionali e sociali delle società che attraversano, sia rispetto ad ogni collocazione che si presume come “naturale”, come quella religiosa o comunitaria, e l’eccedenza che essi esprimono. Come sostenuto da Devi Sacchetto, «il carattere singolare di ogni individuo indica che esso esprime rapporti sociali con il mondo circostante sulla base dell’unicità che egli rappresenta e che si trascina, volontariamente o meno, appresso». Lo smantellamento di forme comunitarie non significa però un «pieno riconoscimento della valenza delle singolarità», ma l’ingresso in «uniformità tipizzanti» che di fatto «riducono e ridimensionano le aspettative e le possibilità dell’individuo». Queste si formano per i migranti soprattutto in rapporti sociali «che esulano dalla contiguità naturale e che si fondano più sulla socializzazione del lavoro e sulla scelta delle amicizie lontane o vicine». Il tema è trattato nel capitolo primo, “Individualità, marginalità e confini” di D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, Verona, ombre corte, 2004, pp. 19-44.
[4] Le formule utilizzate sono state diverse: sciopero degli stranieri, degli immigrati, dei migranti, 24 ore senza di noi. Significativa la scelta di un quotidiano di destra come «il Giornale», che il 21/01/2010, dando conto della mobilitazione e delle resistenze sindacali, titolava Immigrati: il sindacato vieta lo sciopero ai negri.