venerdì , 22 Novembre 2024

Dentro i workers’ centres di Chinatown

Chinese Workers Centresdi DAWID KRAWCZYK, da Political Critique – Krytyka Polityczna

Traduciamo e pubblichiamo l’inchiesta di Dawid Krawczyk di Krytyka Polityczna sui workers’ centres di Chinatown, a New York, perché offre uno sguardo lucido sulla sfida globale dell’organizzazione contemporanea del lavoro. Questi «sportelli» e community centres danno supporto tanto giuridico quanto organizzativo a lavoratori e lavoratrici nel loro faccia a faccia col padrone e sono in prima linea nelle campagne contro i processi di gentrification, che colpiscono prevalentemente migranti, latinos e neri. I workers’ centres nascono sulle ceneri di un sindacato diventato ormai parte integrante della gestione di un più vasto processo di segmentazione e gerarchizzazione del lavoro, come dimostra il suo silenzio – se non la sua complicità – rispetto alle politiche orientate a criminalizzare i migranti e a produrre un bacino di forza-lavoro illegale. I sindacati – organizzati secondo precise gerarchie razziali e sessuali – sono considerati dagli attivisti di questi centri come «organizzazioni dei dipendenti» e non «dei lavoratori». I workers’ centres guardano al lavoro nella sua dimensione sociale, che coinvolge l’attività riproduttiva nascosta tra le pareti domestiche e una dimensione sempre più informale in cui la regolazione giuridica del rapporto di lavoro è assente o irrilevante mentre il salario è legato a doppio filo alla rendita dai processi di «gentrificazione». I workers’ centres rendono visibile il lavoro operaio oscurato dal mito americano e neoliberale del self-made man, della promessa di un’ascesa sociale concessa al prezzo di una silenziosa subordinazione al lavoro. Risalta in tutta chiarezza la centralità politica del lavoro migrante, con cui deve fare i conti anche l’importante campagna per il salario minimo di 15$ che sta attraversando con successo gli Stati uniti: se non è collegata a una lotta generalizzata contro le leggi che criminalizzano i migranti e li costringono ad accettare condizioni salariali e di lavoro sempre peggiori, la campagna per il salario minimo rischia di creare un confine tra quanti posseggono un permesso di soggiorno oppure un contratto di lavoro e quanti ogni giorno faticano nei segreti laboratori del lavoro clandestino e informale. Come racconta a Dawid un attivista storico della Chinese Staff and Workers’ Association, i workers’ centres non sono un sindacato, e questo offre loro più ampi margini di manovra per organizzare i lavoratori e il tessuto comunitario in cui operano al di fuori della stretta regolazione dell’attività sindacale. Mentre con lo sciopero generale di Oakland del 2011 era stato il movimento Occupy a permettere al sindacato di attuare uno sciopero che la legislazione sindacale vietava, i workers’ centres mettono direttamente in campo, senza ulteriori mediazioni, forme di «sindacalismo informale» che si insinuano nelle pieghe della legge per penetrare in quelle dell’organizzazione del lavoro contemporaneo. I workers’ centres, però, non sono neppure «un movimento» e in questo senso, mentre offrono indicazioni importanti a chi quotidianamente lotta contro i confini e la precarietà, lasciano aperta la sfida di come sia possibile politicizzare e connettere questi frammenti globali dell’insubordinazione del lavoro.

***

Wing ha delle opinioni salde su molti argomenti. I sindacalisti? Non fanno niente per i lavoratori. Gli attivisti? Non si occupano dei lavoratori; tutto quello che gli interessa è di avere un buon lavoro nel sindacato. I politici progressisti? Via, sono dei reazionari. La sinistra? Lascia stare, non esiste la sinistra negli Stati Uniti. Gli avvocati? Mafia. E che cosa dici dei workers’ centres? Che è qualcosa di cui si può parlare. Ho incontrato Wing perché volevo che mi parlasse del workers’ centre di Chinatown a New York. Wing ha 67 anni. Ha i capelli grigi e più di 30 anni di esperienza nell’organizzazione dei lavoratori cinesi a New York. Nato a Tianjin, in Cina, è arrivato negli Stati Uniti a 17 anni. Nei primi anni Ottanta lavorava negli sweatshop dell’industria tessile. Allora ha provato a organizzare un sindacato indipendente, ma si è rivelato meno efficace di quanto sperasse. Così ha iniziato a cercare un’altra strada per organizzare i lavoratori degli sweatshop. Primo workers’ centre degli Stati Uniti, la Chinese Staff and Workers’ Association (CSWA) nasce nel 1979. Viene fondato da un gruppo di migranti cinesi che lavorano nella ristorazione, ma poco per volta anche lavoratori provenienti da altri settori si uniscono e, tra loro, Wing Lam. Oggi il CSWA è uno tra le tante centinaia di workers’ centres che operano negli Stati Uniti. I centri non costituiscono una struttura comune ed è difficile dire se c’è un’idea di fondo che li connette tra loro. Quando ho parlato con Wing al telefono prima del nostro incontro, mi ha detto che se avessi voluto parlare del «movimento dei workers’ centres» non ci sarebbe stato nulla di cui parlare, perché non esiste un simile movimento. Esistono solo dei workers’ centres e niente di più.

Uno di essi, la Chinese Staff and Workers’ Association, si trova a Lower Manhattan, al numero 345 di Grand Street, al confine tra Lower East Side e Chinatown. È facile da trovare. Sopra l’ingresso ci sono due cartelli gialli a lettere rosse, uno in inglese, l’altro in cinese. Il che è un bene e un male, come mi spiega Jei, membro del direttivo del CSWA. Quando il workers’ center era ubicato a Brooklyn, per entrare bisognava salire una stretta scala di metallo nascosta in un vicolo tra i palazzi. «Questo era bene, perché molti lavoratori non necessariamente volevano che si sapesse dove stavano andando».

«Siete sempre aperti la domenica?», chiedo a Wing. «Ogni domenica. Perché molte persone lavorano tutta la settimana. Domenica dovrebbe essere il giorno libero, ma ora ognuno ha un giorno libero diverso». Chiedo a Wing che cosa fanno in pratica i workers’ centres. Provo a suggerire che forse sarebbe più facile se mi dicesse in cosa differiscono da un sindacato tipico. Realizzo molto in fretta che non è stata una grande idea. Wing si arrotola le maniche della camicia, si sistema gli occhiali con l’indice e leggermente irritato commenta: «perché per descriverci dovremmo paragonarci sempre ai sindacati? Un workers’ centre non è un sindacato. È qualcosa di completamente diverso. Negli Stati Uniti quando qualcuno dice organizzare intende sindacalizzare. Come se i sindacati fossero il solo modo di organizzare i lavoratori e tutto il resto fosse senza senso. Non è vero. I sindacati sono un movimento di dipendenti, non di lavoratori. Nel Chinese Staff sappiamo che i lavoratori non sono solo dipendenti – vivono in questo quartiere, fanno la spesa nei negozi qui attorno, sono madri e padri. A parte questo, ci sono persone che lavorano ma non sono dipendenti con un contratto di lavoro – si prendono cura dei loro genitori o delle loro case. Anche questo è lavoro. Noi pensiamo a questo e i sindacati no, anche quelli che si autodefiniscono progressisti.

Secondo Wing, i sindacati sono un ricettacolo di corruzione, razzismo e pregiudizi verso i migranti. Mi sono chiesto se questo fosse parte di una crociata personale di Wing contro i sindacalisti o una posizione condivisa tra gli attivisti dei workers’ centres, perciò mi sono rivolto a E. Tammy Kin, un giornalista di Al Jazeera America e avvocato che ha collaborato per quasi un decennio con un certo numero di workers’ centres. «Nessuno sarà più esplicito di Wing», ride. «Ma penso che ci sia una critica diffusa. I workers’ centres tendono  a essere più radicali e criticano i sindacati da sinistra. E la gran parte delle volte hanno ragione. I sindacati sono razzisti e sessisti e i loro membri sono in larga maggioranza bianchi e di età avanzata. E questo è ancora vero. Per comprendere la differenza tra i sindacati e i workers’ centres basta guardare alle loro leadership. La dirigenza sindacale è composta di norma da un gruppo di maschi bianchi autocompiaciuti. Sono giustamente accusati di razzismo e sessismo. Mentre i leader del movimento dei workers’ centres sono migranti, o migranti di seconda generazione, molte di loro sono donne. È difficile dimenticare che negli anni Ottanta i sindacati si sono opposti alla riforma della legge sull’immigrazione, ma che nel 1986 hanno fatto azione di lobbying per le «employer sanctions» (previste da una sezione dello Immigration Reform and Control Act del 1986 che, secondo lo U.S. Citizenship and Immigration Services, «proibisce ai datori di lavoro di assumere, reclutare o sponsorizzare dietro pagamenti migranti non autorizzati a lavorare negli Stati Uniti»). Ora sono contro le «employer sanctions», ma la legge è ancora in vigore».

Wing non dimenticherà le colpe di cui si è macchiato il sindacato. E più di ogni altra cosa il loro sostegno all’«employer sanction» del 1986. Senza giri di parole dice «hanno trasformato i migranti in schiavi». Picchietta sul tavolo con l’indice. Tra le tante modifiche che l’Immigrazione Reform and Control Act del 1986 ha introdotto, Wing ritiene che la più dannosa sia stata proprio l’«employer sanction». Si stima che 12 milioni di migranti senza documenti vivano oggi negli Stati Uniti. Loro devono pur lavorare da qualche parte. Assumendoli, i datori di lavoro violano la legge, così i sans-papier sono costretti a lavorare illegalmente, non di rado a nascondersi e a vivere in condizioni di pericolo, ma soprattutto per salari molto più bassi di quelli in uso nel mercato. «È una legge moderna sulla schiavitù. So quello che dico. Nel regime capitalistico tu dovresti vendere la tua forza-lavoro liberamente. Nella schiavitù no. Perciò, di fatto è una legge sulla schiavitù», spiega Wing. Uno degli obiettivi del Chinese Staff and Workers’ Association è appunto quello di affossare l’«employer sanction».

Non in molti all’interno del CSWA sono entusiasti del salario minimo e questo mi ha sorpreso all’inizio. «Okay, diciamo anche che arriverà a 15 dollari, giusto? Sarebbe un incremento falso. Dimmi: che cosa la nostra gente prenderebbe di questi 15 dollari? Loro non prendono neanche quello che è il salario minimo oggi, perché sono senza documenti, o i loro padroni gli rubano il salario. Guadagnano 5 dollari l’ora e niente di più. Perciò, l’incremento causerà loro più danni che altro, perché i prezzi e gli affitti saliranno. In primo luogo, dobbiamo combattere per uguali diritti per tutti i lavoratori. Altrimenti, l’aumento salariale beneficerà soltanto un gruppo di lavoratori, mentre gli altri verranno penalizzati». Wind enfatizza le sue parole come se stesse parlando a un comizio.

«Con quali questioni le persone vengono da voi? Che cosa si aspettano?», chiedo. «Parlando di questioni strettamente legate al lavoro, è probabile che vengano per un furto sul salario. Loro si accordano con il padrone per un certo pagamento e quando arriva il momento di riscuotere si ritrovano meno soldi in tasca». «E cosa potete fare voi in questi casi?». «Due cose. Andare davanti a un giudice e organizzare un picchetto. Quest’ultimo è di fatto più importante, perché dopo che ottieni un verdetto dalla corte, devi ancora prendere i soldi. I padroni sono diventati così intelligenti da non avere denaro intestato a proprio nome. Questa è l’America! Di fronte al giudice sono poveri in canna! E allora devi agire e riprenderti indietro i soldi». Agire significa che i membri del CSWA prendono le loro bandiere e formano un picchetto di fronte all’azienda che ruba i salari ai lavoratori. Ci sono anche altre ragioni per cui picchettano. Quando nell’ottobre 2015 i dipendenti del ristorante Grand Harmony a Chinatown si sono sindacalizzati, il proprietario ha chiuso il ristorante. Ma questa non era la fine della lotta. «Non ci importa chi sia il nuovo proprietario, devono farsi carico di questo. Il datore di lavoro ha visto come lottiamo. Abbiamo parlato e ci siamo accordati sul fatto che dovessero riassumere tutti i lavoratori. Altrimenti il datore di lavoro sapeva che se avesse riaperto si sarebbe ritrovato nuovamente il picchetto di fronte all’entrata», mi dice Wing con un certo orgoglio.

«Ma per quanto siete in grado di reggere un picchetto?», gli chiedo. «A lungo. Sì, possiamo tenere un picchetto per molto tempo». «Intendi un mese o due?» «Il nostro picchetto più lungo è durato anni». «Ma non ogni giorno», aggiunge.

I workers’ centers hanno iniziato a fornire ai lavoratori migranti i mezzi per combattere per i propri diritti. Dato che sono pensati per persone «fuori dal sistema», operano in una maniera molto meno regolata dei sindacati. Dal momento che non sono sotto la giurisdizione del National Labor Relations Act, per organizzare un picchetto non necessitano di adempiere tutte le formalità burocratiche che un sindacato deve fare prima di dichiarare uno sciopero. I workers’ centres possono anche praticare dei «boicottaggi secondari» – campagne dirette contro le compagnie che fanno affari con l’azienda colpita dal sciopero. La legge statunitense impedisce ai sindacati di adottare queste strategie, privandoli di un potente strumento nella lotta contro l’outsourcing. Ma i workers’ centers, come Wing ama sottolineare, non sono solamente luoghi dove i lavoratori prendono le misure di datori di lavoro fraudolenti. Puoi venire al CSWA per lezioni di inglese e cinese e anche per le serate di karaoke. «Siamo anche una specie di community centre», mi dice Jei Fong del CSWA. Nei workers’ centres si rimane aggiornati sulle vicende del quartiere. Per chi abita a Chinatown, i problemi più rilevanti riguardano l’aumento degli affitti e le paure legate alla gentrification in atto del quartiere in cui sono cresciuti.

Ho fissato un incontro con JoAnn Lum della National Mobilization Agantinst Sweatshops (NMASS). Anche questo è un workers’ centre. Vorrei che mi dicesse di più sulle sfide che Chinatown sta affrontando oggi. Ci incontriamo nel quartier generale del NMASS, proprio accanto al CSWA, nello stesso palazzo blu. «Sei parte del Chinese Staff and Workers’ Association o di un gruppo separato?». «Diciamo che siamo un’organizzazione sorella – mi risponde –. Collaboriamo molto e abbiamo una storia comune, ma NMASS e CSWA sono workers’ centres diversi. Sto prendendo del te. Ne vorresti un po’?». JoAnn risponde e propone di spostarci nella stanza sul retro. Siamo seduti a un tavolo vicino a degli strumenti a percussione. Più tardi scopro che molti membri del NMASS suonano canzoni di protesta in una band. Si chiamano Sick Leave. JoAnn si siede di fronte a me. È un po’ più giovane di Wing. Si scalda le mani in dei guanti di lana con una tazza di te. «Sono malata adesso. È per questo che indosso guanti, cappello e sciarpa. Non voglio che peggiori», spiega. Mi chiede da dove vengo. Le dico che vengo dalla Polonia. JoAnn mi mostra un foglio di giornale del quotidiano newyorchese «Nowy Dziennik» (Quotidiano Polacco) che è attaccato sul muro dietro di me, insieme ad altri fogli. Leggo il titolo: «Le vittime dimenticate dell’11 settembre».

«Sì, abbiamo lavoro con i lavoratori polacchi feriti che stavano lavorando dopo il disastro dell’11 settembre. Li abbiamo aiutati a ottenere un risarcimento», ricorda JoAnn. Apprendo dal foglio di giornale leggermente ingiallito che solo una settimana dopo l’attacco, la US Environmental Protection Agency ha dichiarato che l’aria attorno a Ground Zero fosse completamente pulita. Qualche paragrafo sotto c’è un passaggio sul cancro e le lunghe malattie diagnosticate ai vigili del fuoco, a chi si è occupato del salvataggio e ai lavoratori delle pulizie del World Trade Center in un numero molto più alto della media. Il workers’ centre in cui sono seduto ora con JoAnn è circa a due chilometri di distanza da Ground Zero. «Qui, a Chinatown, l’aria è rimasta tossica per mesi, ma i funzionari del governo ci hanno detto che tutto andava bene, che l’aria era sana. Nessuno restituirà ai lavoratori la loro salute, ma almeno meritano un risarcimento», aggiunge.

Chiedo a JoAnn se avesse mai vissuto a Chinatown. Viene fuori che è di Los Angeles, ed è nata in una famiglia di migranti cinesi. Quando suo padre venne per la prima volta negli Stati Uniti, lavorava in un ristorante come lavapiatti. Ma dopo qualche anno ha trovato impiego nei servizi sociali e ha ottenuto uno status da classe media. La madre di JoAnn era un’impiegata d’ufficio. «Allora mi illudevo di stare vivendo il mito dell’ascesa sociale. Impari l’inglese, studi e fai un lavoro migliore. Questo è il modo in cui risali la piramide sociale. Questi sono gli Stati Uniti», ride con amarezza, assorta in vecchi ricordi. Nei primi anni ottanta JoAnn si è trasferita a New York per lavorare come giornalista. Le chiedo dove avesse lavorato in quegli anni. Con una certa riluttanza risponde di aver lavorato per una grande corporation dell’informazione. Ho la sensazione che si stia un po’ vergognando, ma nondimeno gli chiedo il nome del giornale dove lavorava. «Ok, era il “Time Magazine”. Lo odiavo», dice infine. «Era orribile. È terrificante vedere come loro producono queste cosiddette notizie. È una macchina da propaganda. Ed è deprimente, ti senti come se stessi vendendo la tua anima pur essendo parte di essa». «Così hai lasciato il tuo lavoro al “Time” e hai iniziato a organizzare picchetti?». «Una cosa del genere. Ma non subito. Quando ancora lavoravo come giornalista ho iniziato a fare volontariato per il CSWA. Insegnavo inglese la domenica mattina ai migranti cinesi. Credevo ancora che una volta che sai l’inglese, hai un’istruzione, allora sali di livello nella scala sociale. Pensavo di essere d’aiuto, di fare la mia parte. Un giorno i lavoratori mi hanno invitata a un picchetto a Chinatown di fronte a un ristorante dove gli venivano sottratte le mance e subivano furti sul salario. Sono andata con loro e quell’esperienza è stata decisiva». «In che modo esattamente?». «I lavoratori cinesi stavano faccia a faccia con il padrone, rivendicando i propri diritti. Ricordo che a un certo punto era come se una parte di me si stesse vergognando, perché buona parte della mia famiglia ha lavorato in condizioni orribili nelle fabbriche tessili o nella ristorazione. Ho sentito come se loro si fossero solo rassegnati. Ma noi, noi cinesi, lavoriamo duro. Pensiamo che è questo il modo in cui si ottiene una vita migliore. E allora eccomi qui con questi lavoratori cinesi, a gridare e protestare. Mi hanno davvero impressionato, ho provato molto rispetto per loro e c’era così tanta dignità in quello che stavano facendo. Penso sia stato un punto di svolta per me perché ho sentito qualcosa come “Wow. Ho molto da imparare da loro”. Voglio dire, io non oserei affrontare a muso duro la mia azienda e rivendicare i miei diritti».

Dopo questo picchetto JoAnn ha iniziato a frequentare il workers’ centre più spesso, benché lei ammetta che ancora sentiva di non avere niente in comune con quei lavoratori. Sentiva di starli aiutando. Nata negli Stati Uniti e cresciuta parlando inglese, lavorava nella redazione di un magazine ad ampia diffusione. «Solo anni dopo, dopo essere stata coinvolta nell’attività organizzativa, ho finalmente accettato di essere anche io una lavoratrice. Questo sistema ti fa davvero pensare che sei sopra agli altri. Occorre “disimparare”. Che poi è ciò che riguardava direttamente il mio coinvolgimento nell’attività organizzativa: disimparare molte bugie sul mio passato, sulla mia istruzione, sulla mia educazione», dice JoAnn. Prendiamo una pausa per un’altra tazza di te. Dopo tutto, la lunga chiacchierata non fa bene alla sua gola infiammata.

La National Mobilization Against Sweatshops è stata fondata nel 1996. Molti volontari provenienti da background diversi – non solo cinesi, dunque – si sono raccolti attorno al CSWA. Volevano essere attivi e hanno realizzato che i problemi che i lavoratori cinesi dovevano affrontare riguardano anche gli altri immigranti e i latinos in particolare. Questo è il motivo per cui i volantini del NMASS sono in inglese e in spagnolo.

Negli anni Novanta, i politici e gli attivisti del Partito democratico hanno a lungo discusso dello sfruttamento fuori dagli Stati Uniti. Tutti sanno degli sweatshops in India e in Cina. Ma nessuno riconosce il fatto che gli stessi sweatshops esistono nei seminterrati di Brooklyn. «Era il nostro obiettivo allora, nel 1996, diffondere la consapevolezza di quanto radicato sia il sistema dello sweatshop in questo paese», dice JoAnn. «E oggi, 20 anni dopo, su cosa vi state concentrando?». «Principalmente sulla campagna contro la gentrificazione (anti-displacement) di Chinatown», risponde JoAnn, bevendo il suo tè caldo. Gli abitanti di Chinatown protestano da mesi contro la costruzione dell’Extell Building. La loro lotta è diventata un  simbolo dell’intera campagna anti-gentrification. Al momento l’Extell Building esiste solo nella mente degli ingegneri. Ma nel futuro si suppone che venga costruito accanto al Manhattan Bridge. Un grattacielo di vetro e metallo che raggiungerà i 240 metri di altezza. Se sarà costruito, sarà almeno 4 volte più alto di ogni altro edificio attorno. A novembre, quando ho incontrato JoAnn, al cantiere si lavorava giorno e notte e le fondamenta erano già state posate.

Le persone organizzate nella Coalition to Protect Chinatown and Lower East Side protestano ancora regolarmente contro la costruzione dell’Extell Building. Nell’ufficio di Wing ho visto una grande proiezione del grattacielo di vetro e lo slogan «Extell. Building from Hell». JoAnn mi mostra l’ultimo numero del giornale della comunità pubblicato da NMASS. Stessa immagine ma con titolo diverso: «Lo sviluppo razzista dell’Extell renderà il Lower East Side la casa dell’1%. Gli affitti saliranno alle stellee in tutto il Lower East Side e a Chinatown». «JoAnn, dimmi, cosa c’è di razzista in questo sviluppo?». «Tutto ciò che bolle sotto il piano urbanistico accettato nel 2008», attacca JoAnn. «In breve, il sindaco Bloomberg ha messo insieme un piano urbanistico che regola in maniera stringente l’utilizzo dell’East Village, che è poco più a Nord della nostra comunità e non include il Lower East Side e Chinatown. Se chi ha progettato il grattacielo vuole costruire più in alto di quanto è permesso, devono far sì che il 20% delle unità abitative sia messo sul mercato a prezzi “accessibili”. Ma c’è un trucco. Il prezzo “accessibile” è stato calcolato in maniera tale che nessuno degli abitanti Chinatown possa essere in grado di permetterselo. Ma tu mi hai chiesto del razzismo», osserva JoAnn. «Bene, il punto è che l’East Village è abitato una comunità in larga misura bianca e ricca. Chinatown più che altro da comunità asiatiche e latino-americane e piuttosto povere. Più scopriamo di questo piano urbanistico, più ci accorgiamo di quanto sia razzista perché taglia fuori la nostra comunità di colore da ogni protezione. Anche noi meritiamo di vivere in una comunità che conosciamo. Perché l’East Village viene trattato meglio di noi?», chiede.

JoAnn sostiene che l’Extell Building sintetizza il processo a cui Chinatown e il Lower East Side sono stati sottoposti per anni. Primo, si tratta di uno sviluppo urbanistico pensato per i ricchi, perciò gli affitti nei palazzi circostanti salgono perché persone facoltose si trasferiscono nel quartiere. Perché affittare un negozio a conduzione familiare quando uno Starbucks può pagarti molto di più? La conseguenza è che inquilini di lungo periodo e piccoli negozi sono costretti a trasferirsi in quartieri più poveri. «Bill De Blasio è stato eletto per adempiere alla promessa di “mettere fine alla storia delle due città”. Questo è quello che ha detto. Che voleva mettere fine a questa disuguaglianza. Ma da quando è stato eletto due anni fa, la situazione è peggiorata. La gente si sente tradita da lui», JoAnn conclude con amarezza.

Ma le attività della coalizione che NMASS e CSWA  formano non si limitano ai comizi di fronte al cantiere dell’Extell. I residenti di Chinatown e i proprietari dei negozi non sono disposti ad aspettare oltre per vedere realizzate le promesse del sindaco e hanno deciso di redigere un proprio piano urbanistico per la comunità; lo hanno chiamato il People First Rezoning Plan. Stando al piano, i progettisti che intendono costruire palazzi più alti di quanto è permesso dovranno rendere il 50% delle unità abitative accessibili in termini di prezzi per le fasce più disagiate della popolazione (il prezzo sarà calcolato sulla base del reddito medio nel quartiere, non nella città nel suo complesso). Se poi i progettisti vorranno costruire qualcosa su un suolo pubblico, tutte le unità abitative dovranno essere alla portata delle fasce più disagiate. «Io non so quante volte ho sentito che le nostre richieste sono irragionevoli. Così tante persone che vivono qui hanno redditi bassi, sono famiglie che lavorano, e c’è un grande bisogno di spazi abitativi. E questo è terreno pubblico. Voglio dire, pubblico. Perché non dovrebbe essere interamente destinato ai redditi bassi. Francamente non riesco a capire cosa c’è di irragionevole in tutto questo», JoAnn conclude senza mezzi termini.

Prima di andare via c’è ancora una cosa che JoAnn vuole mostrarmi. «Wing probabilmente ti ha detto del salario minimo, perciò non devo spiegarti tutto, giusto?», si assicura. «Dai uno sguardo a questa mappa qui», dice, indicando un’enorme mappa di New York appesa al muro. «Noi vogliamo sapere quanto davvero la gente guadagna in questa città. I lavoratori possono venire e appiccicare un biglietto con scritto quanto guadagnano all’ora nel loro posto di lavoro. Noi dobbiamo saperlo e nessuno raccoglierà questa informazione per noi». Sul sito web del Dipartimento del Lavoro dello Stato di New York si legge: «al 31 dicembre 2015, il salario minimo nello Stato di New York si attesta sui 9 dollari all’ora». Poche righe sotto si dice che la cifra non include i luoghi di lavoro dove si integra il salario con le mance. «Per esempio, al 31 dicembre 2015, i lavoratori della ristorazione potrebbero guadagnare 7,50 dollari all’ora se guadagnano 1,50 euro di mancia all’ora». Sezioni della mappa che JoAnn mi ha mostrato sono interamente coperte con post-it colorati che recano questi salari orari: 3 $, 4 $, 5 $.

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