È la seconda volta che Hillary Clinton, la candidata «inevitabile» alla presidenza degli Stati Uniti, vede la sua corsa ostacolata da un outsider. Sappiamo come è andata a finire la volta scorsa con Obama. La storia non si ripete, non si deve ripetere, questo il mantra recitato negli ultimi giorni dal potente staff della ex segretario di Stato. Ma i risultati delle primarie del Partito democratico in Iowa e nel New Hampshire hanno proiettato Bernie Sanders nel ruolo di antagonista credibile di Hillary, la «combattente globale» che difende i diritti civili, non disdegna gli interventi militari ad ampio raggio ed è molto vicina a Wall Street. È vero, e si sa, che le primarie americane, non fa differenza se democratiche o repubblicane, sono tutto meno che un esercizio di democrazia da parte dei cittadini elettori. Regole diverse e non sempre chiare e condivise nei vari Stati, mancanza di controlli su chi vota e chi ne ha diritto, lanci di monetine per determinare la vittoria in alcune circoscrizioni, interventi a tutto campo delle società di marketing politico sui social network e nei sondaggi che hanno lo scopo non di rilevare le intenzioni di voto ma di orientarle. Come se ciò non bastasse con la sentenza della Corte Suprema nel 2009 si è dato il via libera – togliendo qualsiasi limite di spesa e di rendicontazione – ai PAC e super PAC (Political Action Committes) e cioè a quei gruppi organizzati di imprenditori, banche, multinazionali, fondazioni che raccolgono denaro e fanno campagne perlopiù aggressive, usando tutti i media possibili, a favore o contro un candidato. Sempre però senza mai accordarsi e coordinarsi, così dice la sentenza, con il candidato che appoggiano. A parte l’umorismo, la decisione della Corte Suprema ha generato un incredibile afflusso di denaro e di lobbies nelle competizioni elettorali, che solo una decina di anni fa era difficilmente immaginabile, ridefinendo i confini e le forme della politica americana. Più che confronti su idee e programmi le primarie, ma anche le elezioni del Presidente e del Congresso, evocano lotte dove tutto o quasi è permesso. Come ci si è trovato Bernie Sanders in questo scenario? Considerato dall’establishment politico fino a sei mesi fa come un’icona innocua e un po’ stravagante di una piccolissima schiera di attivisti per la giustizia sociale, unico senatore a dichiararsi socialista e praticamente ignorato dai movimenti sociali che hanno attraversato gli Stati Uniti in questi ultimi anni. Senatore indipendente del Vermont, piccolo Stato liberal a grande maggioranza bianca e sindaco per otto anni di Burlington, la capitale dello Stato, senza mai brillare per interventi e scelte particolarmente radicali soprattutto su temi sociali. Il suo «socialismo» guarda nella direzione delle socialdemocrazie scandinave del periodo d’oro, non certo verso il sovvertimento anticapitalista del modo di produzione americano. Contrario alla guerra in Vietnam ma favorevole a quella in Afghanistan e sempre reticente a parlare dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Insomma l’immagine veicolata, in questi anni, da «nonno Bernie» è stata quella che ha messo insieme un onesto socialdemocratico svedese difensore di un welfare universale e un vecchio militante dei diritti civili degli anni ’60 sempre pronto, tuttavia, a rientrare pragmaticamente nei ranghi quando in gioco ci sono le basi politiche ed economiche della società americana. La decisione di Sanders di partecipare alle primarie del Partito democratico, di cui non fa parte ma accetta le regole – compresa quella di sostenere il vincitore alla corsa presidenziale chiunque esso sia – è stata dettata inizialmente dalla volontà di dare voce a una certa sinistra liberal americana bianca che sta a cavallo tra il dentro e il fuori del Partito democratico. Una scelta tutta politica, se non politicista, lontana da qualsiasi aspirazione o velleità di dare vita a un qualsivoglia movimento anti-sistema. Se le prime uscite pubbliche, a uno sguardo superficiale, confermavano questo format, in realtà sotto traccia si poteva vedere che la candidatura di Sanders stava aggregando uno strato sociale bianco, soprattutto giovanile ma non solo, che in qualche modo era stato toccato dal movimento di Occupy e rivitalizzando quelle sacche di resistenza civile e comportamentale sparse un po’ in tutto il paese non rappresentate né rappresentabili dalla politica ufficiale. Nei mesi successivi la partecipazione ai comizi di Sanders è cresciuta in modo non previsto. Migliaia di persone iniziano a vedere i suoi meeting come punti di riferimento di un’opposizione molto articolata e variegata alle politiche dei democratici o dei repubblicani, dove si possono trovare i delusi della presidenza Obama e della sua riforma sanitaria, coloro che hanno sostenuto in vario modo e a vario titolo il movimento di Occupy, studenti e cittadini sommersi dai debiti con le banche, settori di classe media impoverita, lavoratori «cognitivi» segregati ai gradini bassi della gerarchia sociale, astensionisti storici o per necessità, militanti della sinistra radicale. Un assemblaggio di storie politiche, esperienze sociali, contestazioni del sistema, conflitti generazionali che ha in Sanders l’unico precario e simbolico collante. In altri termini, il sostegno a Bernie avviene nonostante Bernie.
Ci sono anche gli incidenti di percorso che cambieranno lo sviluppo della campagna di Sanders. In un paio di occasioni gli attivisti di Black Lives Matter interrompono i suoi comizi, occupando il palco, contestandogli l’assenza nel suo programma e nelle sue dichiarazioni di una netta presa di posizione contro la repressione della polizia che provoca centinaia di morti tra gli afroamericani ogni anno. Occasione colta al volo da Hillary Clinton che ha accusato Sanders di fare una campagna troppo «bianca» assicurandosi, per questo, il sostegno di alcuni familiari di cittadini afroamericani uccisi dalla polizia negli ultimi anni. Bernie e il suo staff sono corsi ai ripari radicalizzando i temi antirazzisti e cambiando le forme di comunicazione indirizzate alle comunità afroamericane ottenendo l’appoggio di vari gruppi e attivisti locali di Black Lives Matter. Sul fronte sindacale l’appoggio a Sanders non viene certo dalle grandi federazioni o organizzazioni di categoria, tutte legate a filo doppio ai gruppi di potere del Partito democratico. Proviene da sindacati piccoli, ma non irrilevanti, come quelli degli infermieri, dei lavoratori delle poste e della comunicazione. Ancora troppo poco ma tanto da indurre una potenza mediatica democratica come il «New York Times» a rompere gli indugi e scendere anticipatamente in campo a favore di Hillary Clinton. Non che ci fossero dei dubbi sul suo posizionamento politico, ma un così repentino cambiamento di strategia comunicativa non era preventivato. Dall’ignorare o al più bonariamente ridicolizzare Bernie – il nonno ex sessantottino con ancora qualche utopia in testa – si è passati agli attacchi frontali sull’insostenibilità economica e sociale del suo programma favorevole a un welfare pubblico universale, al salario orario a un minimo di 15 dollari, al non pagamento alle banche dei debiti contratti da studenti e cittadini poveri, e contrario ai trattati del libero commercio nell’area del Pacifico e dell’Atlantico. Ma l’argomento principale a sostegno di Hillary Clinton riguarda l’impossibilità di Sanders di battere un qualsiasi candidato repubblicano alle elezioni presidenziali. Se poi quel candidato fosse Donald Trump vengono prefigurati disastri epocali. E nel caso di una vittoria di Sanders alle primarie si dà per scontata una candidatura indipendente, capace di sparigliare le fila sia democratici sia dei repubblicani, di Bloomberg, il multimiliardario che è stato per 12 anni sindaco di New York.
Finora lo schema delle primarie democratiche è stato: Bernie vira a sinistra e Hillary, obtorto collo, è costretta in qualche modo a rincorrerlo. Ma le primarie del Iowa e del New Hampshire, nonostante l’impatto mediatico, esprimono poche decine di delegati rispetto ai 2.382 necessari per ottenere la nomination alla Convenzione democratica, con Clinton che si è già accaparrata a oggi 362 superdelegati (deputati, senatori, notabili, lobbisti del Partito democratico partecipanti di diritto) contro gli 8 di Sanders. Comunque la partita vera inizia il 1° marzo con il cosiddetto super martedì dei democratici in cui ci saranno in ballo più di un migliaio di delegati con il voto in 11 Stati. Sopravviverà Bernie al fuoco concentrico? Riuscirà a divincolarsi dai super PAC repubblicani che fanno campagna contro Clinton usando i suoi argomenti? Le probabilità sono veramente poche ma non inesistenti. Intanto con la candidatura di Sanders all’interno della sinistra radicale e nei movimenti sociali afroamericani si è sviluppato un dibattito che va oltre le elezioni. La necessaria nonché vaga «rivoluzione politica» auspicata da Sanders, prendendo a prestito la «rivoluzione dei cittadini» della campagna presidenziale francese del Front de Gauche di Mélenchon non implica alcuno stravolgimento istituzionale. È, appunto, solo un auspicio a una maggior mobilitazione e presa di parola in campo politico e istituzionale da parte di quei soggetti sociali che oggi ne sono fuori o ai margini. Ma come si trasforma la mobilitazione elettorale a favore di Sanders in mobilitazione sociale che apre il conflitto nei luoghi della produzione, della riproduzione sociale, nei territori? E, soprattutto, esiste una qualche forma di continuità, un possibile travaso, tra i due aspetti? La mancata risposta a questa domanda, insieme ovviamente ad altri problemi, ha mandato in pezzi il Front de Gauche francese. La rivista on-line «Jacobin», molto seguita dalla sinistra radicale americana, ha aperto da mesi un dibattito sul possibile valore politico e ricompositivo del «movimento elettorale» nato con la candidatura di Sanders. Per ora non si registrano posizioni che superino le coazioni a ripetere della sinistra radicale di molte parti del mondo: riduzione della situazione politica attuale a schemi ideologici senza tempo, ricerca quasi entomologica nei meeting di Sanders di possibili presenze che prefigurino il futuro partito rivoluzionario, forzature interpretative che collegano linearmente le intenzioni di voto a una coscienza di classe in formazione. Più interessante la discussione che attraversa le associazioni e i movimenti afroamericani che sono stati protagonisti a Ferguson, a Baltimora, a New York e – pur nelle loro divergenze analitiche ed eterogeneità organizzative – non vogliono cadere nella «prigione delle forme pre-esistenti». La campagna di Sanders, dicono con diversi accenti, può allargare lo spazio per una politicizzazione del conflitto sociale che vada oltre la mera emancipazione scandita dalla conquista di diritti formali attraverso le relazioni dirette tra i diversi movimenti sociali. Insomma, una volta visto Bernie si va oltre anche senza di lui e a sua insaputa.