di DEVI SACCHETTO – SANDRO CHIGNOLA
Riprendiamo da «Il Manifesto» del 3 febbraio 2016 il testo introduttivo del convegno «Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore» che si svolgerà presso l’Università di Padova il 4-5 febbraio 2016.
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Foto
Due fotografie, per cominciare. La prima mostra le lavoratrici marocchine in lotta a Monselice, nella bassa padovana, per difendere il proprio lavoro. La cooperativa per la quale operano la selezione della plastica nelle ecoballe di rifiuti a mani nude, con semplici guanti e mascherina, le ha licenziate per essersi sindacalizzate con l’Adl-Cobas. La seconda mostra i lavoratori migranti spagnoli che un’agenzia interinale tedesca ha selezionato per Amazon a Bad-Hersfeld, nell’Assia. Essi lavorano a salari molto più bassi di quelli che erano stati prospettati; non sono stati assunti a tempo indeterminato da Amazon come era stato loro promesso, ma solo per smaltire il carico di ordini di Natale e da una ditta subappaltatrice; vengono acquartierati in molti per camera in piccoli alberghi attorno ai magazzini di distribuzione controllati anche nel tempo libero o dedicato al riposo da una agenzia di security imbottita di neonazisti. Queste due fotografie evidenziano una serie di processi che marcano le condizioni del lavoro oggi e rendono problematiche le categorie con le quali l’Europa si autorappresenta. Migranti spagnoli in Germania per effetto del job on call; donne (marocchine) che lavorano tra i rifiuti a Monselice come se si trattasse di recuperadoras nelle discariche di qualche metropoli sudamericana. Ci sembra evidente che qui le nozioni di Sud e di Nord del mondo, di Europa e di Mediterraneo, di lavoro autonomo e precario, di capitalismo finanziario e capitalismo predatorio, di logistica e di produzione, perdano l’apparente chiarezza con la quale vengono spesso impiegate e ci costringano a rimetterle a fuoco.
Normalità della crisi
Mentre si leggono continuamente segnali di ripresa economica e di volta in volta si celebra la fine della crisi, emerge con chiarezza come la recessione sia diventata invece un elemento centrale nella gestione mondiale dei processi produttivi. La politica della crisi è governata attraverso l’emergenza, uno strumento giuridico e istituzionale per rilanciare il processo di accumulazione. La crisi diventa perciò – nulla di paradossale – lo stato normale di quella che ci appare una nuova forma politica di accumulazione.
L’estrema diseguaglianza tra i ricchi e i poveri fotografata dalle statistiche e denunciata dai moralisti politici oblitera in realtà un processo di convergenza tra condizioni materiali di lavoro e processi di proletarizzazione forzata per i molti – quasi tutti – che non stanno tra le poche migliaia dei ricchissimi. La focalizzazione sulle forme di disparità nella distribuzione della ricchezza rimuove lo sguardo dai rapporti di lavoro nei quali le insorgenze del lavoro vivo sono quotidiane nonostante la moltiplicazione delle differenze, vere o presunte, e la controffensiva padronale spesso feroce. La criminalizzazione del rentier e la beatificazione dei sani produttori, questa la retorica che prospera nella crisi, dovrebbe essere misurata sul fatto che la mole di liquidità offerta negli ultimi dieci anni sui due lati dell’Atlantico è andata nelle casse di società non finanziarie che l’hanno usata principalmente per investimenti speculativi. La differenza tra capitalismo finanziario ed economia «reale» è una chiacchiera giocata sulla pelle dei lavoratori.
Dagli anni Ottanta all’inizio della recessione nel 2008 il sistema produttivo si è progressivamente esteso in varie direzioni organizzandosi in catene globali e destrutturando le cornici istituzionali e giuridiche nazionali all’interno delle quali si era prodotta la mediazione con la forza lavoro. Non ci interessa qui un esame sugli effetti macroeconomici di tale destrutturazione; ci interessano piuttosto quelli che si determinano sulla composizione di classe e sui rapporti di lavoro perché questi sono in grado di scardinare e ri-direzionare la stessa struttura macroeconomica.
Bringing the class back in
I cambiamenti nella composizione di classe in Europa sono connessi al profondo processo di riorganizzazione produttiva degli ultimi venticinque anni. I regimi della messa al lavoro sono oggi caratterizzati da evidenti forme di segmentazione e differenziazione che si sviluppano in modo peculiare all’interno di ogni singolo contesto socio-politico, ma che paiono costituirsi come un elemento relativamente omogeneo a livello internazionale. Dunque, per quanto ci riguarda, anche a livello europeo.
Diversamente da quanti vedono solo la crisi del sindacato a noi pare che il ruolo del sindacato in Europa sia stato centrale in questi anni poiché ha co-gestito sia i processi di ristrutturazione industriale sia l’apparato ideologico e produttivista del liberalismo mercatista. D’altra parte, i tentativi sindacali di gestire una precarizzazione limitata alle fasce marginali del mercato del lavoro al fine salvaguardare il nucleo di occupati stabili, su cui essi si reggevano anche organizzativamente, è sostanzialmente fallito. E la crisi ha acuito tale fallimento. Non solo perché l’erosione della contrattazione collettiva interessa tutta la forza lavoro, ma anche perché quella precarizzazione è diventata un’onda che sgretola i rapporti sociali e di classe. Nella nuova composizione di classe i migranti costituiscono un elemento centrale perché irriducibili alle figure del lavoratore salariato classico. Di qui il nostro interesse, di ricerca e politico, ammesso che queste specificazioni possano mai essere disgiunte, sulla composizione di classe contemporanea. È anche qui, sul livello solo apparentemente più debole e «basso», che processi di soggettivazione vengono tracciati e possono essere indagati e rivendicati.
La libertà di movimento in Europa, proprio per questo, è anche l’espressione di un potere dei lavoratori, per quanto essi si muovano da un lavoro precario all’altro. La discussione sulla sospensione di Schengen ci sembra perciò una partita che va inserita non solo sulla capacità di migliaia di profughi di ottenere decenti condizione di vita, ma anche di milioni di migranti ingovernabili che si muovono in Europa cercando di smarcarsi dalla regressione sociale a cui l’austerità vorrebbe relegarli. Il moralismo bieco che critica le migliaia di laureati italiani perché emigrano svolgendo nel paese di destinazione lavori di basso profilo che si rifiutano di svolgere in Italia è un’arma spuntata rispetto alle capacità di muoversi su diversi mercati del lavoro, facendosi beffe del truce richiamo patriottico dei partiti della nazione. Se l’ideologia della mobilità individuale contribuisce a creare una rappresentazione del mondo ordinata, essa disprezza questa mobilità quando diventa collettiva, come nel caso dei migranti, o quando essa mira alla sottrazione dai lavori più nocivi e dai bassi salari. In Europa il turnover lavorativo è pari a quasi il 20%, ma è molto più elevato tra i giovani e nelle mansioni più banali e comunque peggiori. La temporalizzazione dei contratti di lavoro in Europa è ormai la regola. È sull’ambivalenza generale di questi processi che crediamo debba appuntarsi l’attenzione.
Tempi e spazi del capitale
I flussi produttivi strutturati attraverso catene internazionali del valore riarticolano i processi di gerarchizzazione, razzializzazione e filtraggio della mobilità, definendo continuamente nuove divisioni internazionali del lavoro che operano – ce lo ha insegnato per prima Saskia Sassen – attraverso il continuo smontaggio e rimontaggio di ordinamenti, giurisdizioni e istituzioni. L’enorme importanza assunta dalla logistica risponde esattamente all’estensione delle catene produttive finendo per ricostruire su basi apparentemente nuove i rapporti tra gli Stati, la loro sovranità e le società che ad essi corrispondono. L’Europa è attraversata da processi simultanei di migrazione e di ridislocazione di processi produttivi e distributivi. I suoi confini non coincidono linearmente con la sua autoperimetrazione istituzionale, prolungandosi al di fuori di quest’ultima e al suo interno. Quei mobili confini tracciano aree di valorizzazione che corrispondono alla territorializzazione dei flussi finanziari e mettono in movimento uomini, donne e merci secondo le migliori occasioni di investimento.
Gli assetti e i meccanismi contemporanei dei processi di valorizzazione operano con dispositivi volti ad accelerare e contemporaneamente a rallentare i flussi produttivi sulla base delle esigenze del momento ridefinendo costantemente tempi e spazi di mobilitazione e allocazione della forza lavoro. La connessione intra- e transnazionale delle filiere logistiche, l’internazionalizzazione dei processi di produzione, i vettori di finanzarizzazione che segnano profonde modifiche degli assetti proprietari, ridefiniscono i mercati del lavoro, qualificano e temporalizzano la subordinazione, comandano trasformazioni istituzionali e giuridiche, ma sono nel contempo attraversati da conflitti di lavoro e da linee di fuga che mettono in questione l’organizzazione tradizionale e persino l’idea stessa di sindacato. Tanto a Monselice quanto a Bad-Hersfeld, per riprendere le due foto con le quali abbiamo aperto, non sono i sindacati tradizionali a intervenire e a organizzare i lavoratori. Come evidenzia il processo di sindacalizzazione nelle carceri tedesche, dove circa quaranta dei sessantamila detenuti lavorano producendo per le principali imprese automobilistiche e degli elettrodomestici, il sindacato tradizionale è incapace di ridefinire la propria azione. Contro un salario che oscilla tra 1,50 e 2 euro all’ora, a fronte degli 8,50 euro del salario minimo, gli operai detenuti si sono autonomamente organizzati in un sindacato e hanno messo in campo uno sciopero nel dicembre 2015. Essi denunciano il dumping sociale e mirano a estendere la loro organizzazione all’esterno delle prigioni sul modello degli IWW statunitensi nei primi decenni del Novecento.
La questione che ci poniamo, tra le altre che intendiamo discutere, è se il tradizionale modello sindacale sia all’altezza di un lavoro che si fa sempre più mobile e informale secondo il «tipo» che assumiamo con la centralità politica del lavoro migrante. Se il sindacato, almeno quello tradizionale, non è in grado di organizzare la nuova composizione di classe in costante movimento nello spazio europeo, il problema politico che ci sta di fronte è il come riarticolare una connessione tra gli spazi e i tempi che il capitale cerca costantemente, e con violenza, di separare. Qualificare nelle differenze che la percorrono la composizione del lavoro vivo contemporaneo ci sembra un compito cruciale perché queste differenze possano essere tradotte in una composizione politica soggettiva all’altezza del capitalismo contemporaneo. Il problema di questa traduzione è il compito dell’organizzazione di cui nuove forme sindacali possano farsi carico. La differenza non è la generica differenza tra ricchi e poveri di molta retorica politica contemporanea. La differenza è una differenza che segna in modo specifico i regimi della messa a lavoro. Essa deve essere fatta parlare, perché si possa ascoltarla.