venerdì , 22 Novembre 2024

Lunghe esperienze operaie #1: primi risultati della ricerca sulle condizioni lavorative in tre stabilimenti Electrolux

di FIORELLA LONGOBARDI

Electrolux inchiestaPubblichiamo in due puntate l’inchiesta condotta da Fiorella Longobardi in tre dei quattro stabilimenti italiani della multinazionale svedese Electrolux, durante la mobilitazione che nel 2014 si è opposta alle minacce di delocalizzazione e licenziamenti di massa. La situazione negli stabilimenti di Electrolux è un esempio molto chiaro di come la precarietà sia entrata in fabbrica e dell’insieme di trasformazioni che l’hanno prodotta nell’ultimo ventennio, rendendola un fatto attuale ben al di là della persistenza di contratti di lavoro a tempo indeterminato. Le politiche attive per le pari opportunità sono state, a partire dagli anni Novanta, una delle prime leve attraverso le quali introdurre processi di «flessibilizzazione» sulla pelle delle donne, che tuttora costituiscono una parte consistente della forza-lavoro di Electrolux e centrale delle sue strategie produttive. La delocalizzazione, l’intensificazione dei ritmi di lavoro e l’abbassamento dei salari sono parte essenziale del processo che ha reso instabile ogni posizione lavorativa. L’organizzazione di tempi e spazi di lavoro, inoltre, ha avuto il preciso obiettivo politico di disciplinare la forza lavoro e di ostacolare ogni possibilità collettiva di riconoscimento anche per coloro che si trovano a lavorare lungo una stessa catena. Questa segmentazione perseguita sistematicamente attraverso la delocalizzazione e la limitazione degli spazi di comunicazione e socialità nel corso della giornata lavorativa non è però riuscita a impedire la costruzione dei legami che hanno reso possibile la mobilitazione del 2014. Risalta la consapevolezza che il proprio destino sfugge ormai alla dimensione territoriale e nazionale. I lavoratori e le lavoratrici intervistate affermano la propria connessione con i lavoratori e le lavoratrici degli stabilimenti Electrolux dell’Europa orientale, benché questa connessione non sia ancora né organizzativa né politica, anche a causa di un’inerzia del sindacato tendenzialmente percepito come struttura di servizio e cogestore delle politiche padronali. Lungi dall’essere segno del passato, queste lunghe esperienze operaie mostrano l’urgenza presente di sperimentare forme di lotta e comunicazione efficaci, capaci di unire gli spazi all’interno e all’esterno della fabbrica transnazionale della precarietà.

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La necessità di un’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Electrolux è emersa dalla vicenda politica ed economica che ha riguardato i lavoratori dei quattro stabilimenti italiani di Forlì, Porcia (PN), Solaro (MI) e Susegana (TV) a partire dall’ottobre 2013, quando la multinazionale ha annunciato una pesante ristrutturazione dei siti e la chiusura di quello pordenonese. All’indomani delle dichiarazioni aziendali la mobilitazione operaia è stata immediata con presidi permanenti, scioperi, blocchi della produzione a cui hanno partecipato diffusamente lavoratrici e lavoratori: in ballo c’erano millecinquecento licenziamenti e la parziale o totale delocalizzazione delle produzioni italiane negli stabilimenti dell’Est-Europa. Nella partita tra lavoratori, governo e sindacati le regioni Emilia-Romagna, Friuli Venezia-Giulia[1], Lombardia e Veneto hanno ricoperto un ruolo di mediazione, perché interpellate a gran voce dai lavoratori e soprattutto perché coinvolte nelle trasformazioni del tessuto produttivo del territorio. Nell’accordo firmato dalle diverse parti nel maggio 2014, la multinazionale svedese si impegnava a mantenere attivi gli stabilimenti, a investire nuovi capitali e a rinunciare ai licenziamenti previsti inizialmente dai piani aziendali. In cambio, essa otteneva un risparmio di tre euro all’ora sul costo del lavoro, attraverso un piano di velocizzazioni delle linee di montaggio e di de-contribuzione dei contratti di solidarietà, un sostegno per l’innovazione grazie a finanziamenti statali e degli Enti locali, maggiore flessibilità e aumenti della produzione.

La ristrutturazione del 2014 si colloca all’interno dei processi di flessibilizzazione e disciplinamento della manodopera, in atto da oltre vent’anni e frutto di specifici rapporti sociali, caratterizzati dal progressivo indebolimento contrattuale dei lavoratori a fronte della capacità della multinazionale di muoversi globalmente. Nel settore elettrodomestico europeo dagli anni ’80 alla metà dei 2000 si sono avuti due decenni di espansione dei volumi, di raddoppio delle vendite e, contemporaneamente, una riduzione degli occupati. La diminuzione progressiva dell’organico negli stabilimenti italiani si è accompagnata all’aumento complessivo dell’orario di lavoro, a maggiori margini di flessibilità a favore delle direzioni aziendali e a un consistente turnover[2]. Negli anni Novanta, il modello partecipativo delle relazioni sindacali ha cominciato a risentire delle continue richieste di flessibilizzazione, fino ad andare in crisi davanti alla conflittualità presente nelle fabbriche manifatturiere. L’intensificazione della prestazione di lavoro è infatti un processo continuo che è stato solo parzialmente rallentato dalle capacità operaie di contrastarla. Questo non ha impedito, a cavallo degli anni 2000, la cessazione del vincolo di cadenza di un minuto su alcune linee di produzione nei quattro stabilimenti, mettendo nero su bianco le nuove velocizzazioni. Il vincolo a un minuto era disciplinato da un accordo del 1975 pensato per contrastare l’aumento dei ritmi, ma oggi si è arrivati a produrre un elettrodomestico ogni quarantadue secondi.

La perdita del potere contrattuale è un processo che ha subito un’accelerazione a partire dalla metà degli anni 2000 a causa del forte calo della domanda nel continente europeo, della diminuzione degli utili del settore elettrodomestico e del clima economico allarmato dalle trasformazioni del mercato internazionale competitivo (OECD 1994) e poi dalla crisi. La multinazionale ha iniziato a delocalizzare[3] alcune produzioni italiane in Polonia, Ungheria e Russia avviando il «decennio degli esuberi» e mettendo in campo uno stato di crisi che ha motivato forti riorganizzazioni dei processi produttivi secondo i principi della lean production. Negli ultimi anni i processi di intensificazione del lavoro sono stati avviati a più riprese e l’ultimo aumento di produttività sulla pelle operaia è rappresentato da novanta pezzi all’ora con un aumento del 10% rispetto al periodo precedente. La multinazionale si serve della possibilità di attingere ai nuovi bacini di forza-lavoro per piegare le necessità dei lavoratori alle esigenze produttive e, sotto la scure della minaccia della delocalizzazione[4], l’organizzazione sindacale perde la sua influenza nelle sedi di negoziazione.

«Un questionario sulle condizioni di lavoro? Non basterebbe un’enciclopedia!»[5]

Il percorso di «conricerca»[6], avviato durante le proteste contro la riorganizzazione annunciata dalla direzione aziendale, è stato svolto in modalità diverse ma ha coinvolto lavoratori e lavoratrici di entrambi gli stabilimenti. Abbiamo così organizzato una serie di riunioni preliminari con lavoratori e delegati sindacali di area prevalentemente FIOM che ci hanno fornito informazioni importanti, partecipando attivamente alla costruzione e alla stesura del questionario distribuito successivamente. La partecipazione dei lavoratori e dei delegati è stata cruciale nella distribuzione e nella raccolta dei questionari, avvenute fuori dai cancelli degli stabilimenti di Forlì, Porcia e Susegana tra febbraio e aprile 2015. Abbiamo distribuito circa 2500 questionari raccogliendone 413. La partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori è stata quindi elevata. I dati qui presentati sono già stati presentati ai gruppi di lavoratori coinvolti fin dall’inizio, che hanno potuto commentarli.

Il Gruppo Electrolux occupa circa 25.000 persone in Europa, quasi 6.200 in Italia, di cui circa 3860 operanti nei quattro stabilimenti: 800 a Forlì, dove si producono piani cottura e forni; 1100 a Porcia (PN), dove si producono lavabiancheria e lavasciuga; 1000 a Susegana (TV), dove si producono frigoriferi e congelatori; 960 Solaro (MI), dove si producono lavastoviglie[7]. Nella media degli stabilimenti la presenza di manodopera femminile equivale a metà del totale, mentre il numero di migranti rappresenta circa il cinque per cento. Questa ricerca prende in considerazione solo i primi tre stabilimenti, ed esclude Solaro, a causa di una mancata collaborazione all’indagine da parte della segreteria provinciale FIOM Milano.

Si ritiene che il campione sia relativamente rappresentativo per quanto riguarda le dimensioni di genere, età, provenienza sociale e sindacalizzazione. Tuttavia, se la metà degli intervistati non è mai stato iscritta al sindacato, tra quelli iscritti risulta preponderante la componente FIOM rispetto alla UILM e alla FIM[8]. Il campione è inoltre rappresentativo della categoria operaia e non di quella impiegatizia, rispetto alla quale i dati raccolti sono insufficienti.

Composizione sociale

Gli intervistati, quindi, sono operaie e operai metalmeccanici degli stabilimenti di Forlì, di Porcia e di Susegana: tre dei quattro stabilimenti della multinazionale in questione che si trovano in territorio italiano. I 413 rispondenti sono composti da 240 donne e 173 uomini, la cui età media si aggira intorno ai 45 anni. La maggioranza è italiana, anche se uno su dieci è nato in terra straniera. Tra i nati all’estero si distinguono cittadini italiani, figli di migranti italiani rimpatriati (5%) e migranti (4%). Tutti gli operai lavorano per Electrolux da almeno 10 anni, ovvero dall’anno in cui l’azienda ha varato il suo ultimo piano di assunzioni nel 2005, ma generalmente l’anzianità di lavoro complessiva è mediamente più alta, aggirandosi intorno ai 20 anni. A una lunga esperienza di fabbrica conseguono necessariamente anche continuità dell’occupazione e del salario, stabilità dei rapporti sociali, legame con il territorio, dimensioni tese a costruire un’identità lavorativa forte, che si discosta nettamente dalle incertezze vissute da larga parte sia della forza lavoro precaria sia di quanti sono occupati in piccole imprese. Oltre la metà degli intervistati proviene da una famiglia di origine operaia, ma non ha goduto di alcuna mobilità sociale; la gran parte è entrata nel mondo del lavoro prima della maggiore età, anche a fronte del possesso di un titolo di istruzione superiore (circa il 60%), iniziando quindi a lavorare durante il percorso scolastico.

La maggior parte delle persone proviene dall’area circostante le fabbriche e si muove con mezzi privati per raggiungere il posto di lavoro. Nel caso di Porcia, tuttavia, i lavoratori provengono da zone lontane impiegandoci fino a un’ora per arrivare nel posto di lavoro e usano più frequentemente gli autobus.

Livelli di inquadramento: una questione di genere

I lavoratori sono operai inquadrati principalmente al terzo (61%) e al quarto (27%) livello. Il terzo livello è composto prevalentemente da donne. Si tratta di stabilimenti in cui vigono ancora molte regole di salvaguardia dei diritti dei lavoratori: gli occupati sono tutti assunti con un contratto a tempo indeterminato e quindi possono contrastare almeno in parte la possibilità di essere licenziati su due piedi, grazie allo Statuto dei Lavoratori. Tuttavia in quest’universo di «garantiti» la percezione dell’insicurezza occupazionale è sensibilmente cresciuta negli anni. Ad accendere l’allarme sulla sicurezza dell’occupazione ci sono sia le continue riorganizzazioni produttive, le delocalizzazioni di parte delle produzioni italiane negli stabilimenti gemelli situati in Est-Europa, ma anche le trasformazioni in seno a un mercato del lavoro in crisi, che mostra i suoi effetti attraverso la chiusura delle fabbriche vicine, la crescita degli indici di disoccupazione del paese e le politiche del lavoro votate alla flessibilità.

Dall’annual report pubblicato dalla società si evince che un terzo dei dipendenti della multinazionale a livello mondiale è composto da lavoratrici. L’uso di manodopera femminile è elevato rispetto alla media europea che si mantiene sotto la soglia del 20% (Eurostat 2014), che peraltro risulta essere anche la media italiana del settore metalmeccanico. A dispetto della sproporzione di genere che si registra a livello europeo e nel settore metalmeccanico italiano, in Electrolux l’impiego di forza-lavoro femminile è diffuso.

Negli stabilimenti di Forlì, Porcia e Susegana è possibile notare una distribuzione regolare della forza lavoro per quanto riguarda il genere, sebbene sia molto evidente la concentrazione delle donne al terzo livello (70%), mentre figurano raramente nei livelli quarto e quinto, composti invece da forza-lavoro maschile. Il grande aumento della proporzione della manodopera femminile in azienda è una conseguenza delle politiche del Progetto Ipazia per la promozione delle Pari Opportunità, iniziato nel 1989 e terminato nel 1994: «la strategia aziendale richiedeva di passare dal modello tayloristico a un sistema organizzativo orientato ai processi, meno strutturato, più flessibile, meno gerarchico e più partecipativo. Poiché le caratteristiche comportamentali coerenti con questa esigenza sono patrimonio più del femminile che del maschile, era necessario aumentare fortemente la componente femminile, facilitando l’accesso soprattutto ad alcuni mestieri, abbattendo stereotipi e ostacoli alla conciliazione dei tempi»[9]. Alla metà degli anni Novanta tra gli operai di terzo livello la manodopera femminile passa così da meno di un quarto a oltre la metà. Nonostante le premesse aziendali per una fabbrica che doveva valorizzare il femminile, i risultati della nostra ricerca evidenziano come le lavoratrici in Electrolux sono segregate nei livelli contrattuali più bassi, lavorano in catena di montaggio più frequentemente e ricevono salari inferiori rispetto agli uomini. La bassa qualificazione a cui sono mantenute le donne garantisce il contenimento del costo del lavoro, ma costituisce anche una strategia di gestione della fabbrica. I processi di genderizzazione così come quelli di etnicizzazione del mercato del lavoro interno non sono ovviamente limitati all’Electrolux e nei tre diversi contesti locali, ma fanno parte del patrimonio comune di molte altre imprese.

La lenta erosione salariale

I risultati evidenziano che su 10 lavoratori 3 sono monoreddito, 5 percepiscono un altro reddito da lavoro (solitamente il coniuge), mentre i rimanenti possono contare anche su redditi da pensioni ed entrate di diversa entità provenienti da altri familiari. Nelle famiglie dei lavoratori sono sostanzialmente scomparsi i nuclei familiari allargati, lasciando il posto alla famiglia nucleare, ovvero nuclei familiari composti da un numero ristretto di membri con stretti legami di parentela (genitori-figli). Malgrado molti dei rispondenti siano proprietari dell’abitazione in cui risiedono, per il 40% di essi l’affitto o il mutuo rappresentano una voce importante tra le spese familiari.

Inoltre, 2 lavoratori su 10 sono indebitati con istituti privati o familiari, segnalando una certa incapacità del reddito familiare di soddisfare gli standard di vita. La percezione della crisi economica e aziendale aggrava ulteriormente il quadro delle condizioni di vita dei metalmeccanici Electrolux. Il 70% degli intervistati afferma, infatti, che negli ultimi anni è cresciuta notevolmente la preoccupazione per il futuro della propria condizione economica e familiare. Si tratta di un sentimento diffuso anche perché, nelle loro reti sociali e relazionali, i lavoratori entrano sempre più spesso in contatto con lavoratori precari. La percezione di instabilità è un elemento centrale anche per questi operai a tempo indeterminato poiché si sono progressivamente disgregate le forme del collettivo che travalicava le mura delle fabbriche.

Questa situazione incide sugli abituali stili di consumo: nonostante gli intervistati non siano interessati dalla precarietà lavorativa e mantengano un livello salariale quasi costante, rinunciano in particolar modo ad acquistare capi d’abbigliamento, a fare regali e alle vacanze. Si soddisfano i bisogni primari indispensabili quali l’alimentazione e la spesa per i figli, ma comincia a crescere il numero di coloro che evita le cure mediche quando il costo di queste risulta elevato (17%). D’altra parte, pur disponendo di un salario fisso mensile essi svolgono lavoro straordinario solo secondo modalità molto strutturate e le ore supplementari vengono regolarmente conteggiate nelle buste paga. All’esterno delle tre fabbriche molti dei lavoratori occupati in piccole e medie imprese possono invece contare sovente su introiti non sempre dichiarati grazie alle pratiche del lavoro straordinario pagato in nero. Ѐ pur vero che per gli uni e per gli altri è sempre possibile ricorrere al secondo lavoro, ma il periodo di crisi ha limitato questa pratica.

L’orario flessibile

Nel maggio 2014, la stipula dell’accordo tra azienda, governo e sindacati ha introdotto i contratti di solidarietà, ammortizzatore previsto nei casi di crisi produttiva. Tale misura prevede la riduzione del monte ore lavorative e alcuni vantaggi decontributivi per la multinazionale. Secondo i dati raccolti, la riduzione dell’orario di lavoro a sei ore ha rappresentato un miglioramento delle condizioni di lavoro per una parte dei lavoratori (33%). A partire dagli anni ’90 Electrolux ha fatto largamente uso della flessibilità oraria. Ad esempio, è stata tra le prime grandi imprese a sperimentare contratti di telelavoro, banca delle ore, job-on-call. Le misure che hanno dimostrato maggiore efficacia nella regolazione dei tempi e dei ritmi della forza lavoro sono stati i contratti d’inserimento con periodo di formazione, l’uso sistematico nei picchi produttivi di contratti stagionali a tempo determinato, il 6x6x3.

Negli stabilimenti di Forlì e Porcia, il passaggio recente dalle 30 alle 40-48 ore settimanali, ovvero il ripristino del classico regime orario delle 8 ore più il frequente ricorso agli straordinari, è causa di un forte malcontento della base dei lavoratori, maggiormente interessati dagli aumenti dei volumi produttivi. Inoltre alle 40 ore settimanali di lavoro di fabbrica, le donne devono poi aggiungere circa venti ore settimanali per il lavoro domestico.

Questi lavoratori da un lato mettono in dubbio la realtà della decantata crisi del gruppo svedese e, dall’altra, denunciano l’insostenibilità del numero di ore a fronte dell’intensificazione dei ritmi. Uno degli eventi più significativi di questo gioco di forze è rappresentato dal casus belli estivo: per la festività di Ferragosto del 2015, la direzione di Susegana ha voluto azionare due linee dello stabilimento grazie a una trentina di operai (poi diventati un centinaio) recatisi al lavoro su base volontaria. Il sindacato ha denunciato la chiamata al lavoro a Ferragosto mentre la questione rimbalzava sui media locali e nazionali. Non poche sono state le considerazioni secondo le quali in un periodo di crisi occorreva accettare i sacrifici e le opportunità offerte dalle aziende per competere nel mercato globale. I lavoratori in generale paiono di parere diverso: «oggi sembra che i lavoratori che non vanno a lavorare il 15 agosto siano una vergogna, se l’azienda ha bisogno si fa, io sfiderei chiunque domani a farlo loro… io l’ho vissuta non tanto come un discorso di necessità, noi due giorni dopo rientravamo tutti dalle ferie, il 15 agosto era sabato, lunedì 17 tutta la fabbrica funzionava! Fare i frigoriferi che hanno fatto loro a Ferragosto, se li han fatti… Lì secondo me c’è un ragionamento che dice in sostanza che tutti i giorni sono uguali, […] è un messaggio riuscito bene che ha sfondato, e secondo me aveva questo scopo».

[1] La presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ad esempio, aveva addirittura affermato: “il Governo non faccia il notaio della volontà svedese […] Per il Friuli Venezia Giulia la chiusura di Porcia è una prospettiva che non prendiamo in considerazione”, Il Friuli, 28 gennaio 2014.

[2] G. Merotto, La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nel circuito dell’elettrodomestico, Roma, DeriveApprodi, 2015.

[3] Nei primi anni del 2000, la multinazionale svedese ha delocalizzato in Bassa Slesia. Nel distretto di Wroclaw (città capoluogo) sono state replicate le fabbriche italiane, mantenendo le stesse specializzazioni: a Olawa, lo stabilimento con più dipendenti, si producono lavatrici; a Zarow lavastoviglie; a Swidnica stufe e cucine; a Siewierz asciugatrici. A Jasberény, nel cuore dell’Ungheria, la produzione di frigoriferi.

[4] Dopo il 2009 è stata annunciata la chiusura anche della fabbrica di Kinston (USA), de L ‘Assomption (Canada) e di Revin (Francia) e la riorganizzazione di quelle di Mariestad (Svezia) e Schwanden (Svizzera) entro il 2014. Nel 2010 è stata acquistata una fabbrica di lavatrici a Ivano-Frankivs’k (Ucraina) ed è stata realizzata una nuova linea produttiva per i frigoriferi a Rayong (Tailandia). Nel 2011 Electrolux ha inoltre realizzato due importanti acquisizioni nel settore degli elettrodomestici finalizzate ad aumentare la competitività del gruppo nei Paesi meno industrializzati: il produttore egiziano Olympic Group (con 10 impianti produttivi e una posizione forte nei mercati in espansione del Nord Africa e del Medio Oriente) e l’azienda cilena CTI (con 3 stabilimenti che realizzano apparecchiature per il mercato cileno e argentino).

[5] Affermazione di un’operaia ai cancelli di Susegana in occasione della distribuzione dei questionari.

[6] R. Alquati, Per fare conricerca, Velleità Alternative, Torino, 1993.

[7] I rimanenti (circa 420) sono occupati a Vallenoncello (PN) dove si producono le apparecchiature professionali per la ristorazione e il lavaggio dei tessuti e in altri stabilimenti dove si collocano prevalentemente centri di ricerca.

[8] Nel 2014 i risultati alle elezioni delle Rsu sono a Susegana: FIOM 362, FIM 241, 141 UILM; a Forlì: FIOM373, FIM 64, UILM 224, UGL 54; a Porcia: FIOM 324, FIM 92, UILM 336, FAILMS 116. Complessivamente quindi la FIOM raggiunge circa il 47% contro il 17% della FIM e il 30% della UILM.

[9] Ipazia, Le parole per dirlo, Electrolux-Zanussi, FIM-FIOM-UILM, 1995, p. 9.

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