venerdì , 22 Novembre 2024

Ciao pensione ciao. Sul versante legislativo del lavoro

di MAURIZIO FONTANA

Ciao pensione ciaoAndare via lontano a cercare un altro mondo, dire addio al cortile, andarsene sognando. 

E poi mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci sentirsi nessuno. 

Saltare cent’anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo (Luigi Tenco)

Come si è compreso qualche tempo dopo la morte di Luigi Tenco, l’ispirazione originaria dell’autore di Ciao amore ciao discendeva dal travolgente sbalzo vissuto dai giovani uomini e donne che, dall’entroterra ligure, entravano nelle fabbriche  genovesi negli anni ’60. A Tenco, morto il 27 gennaio 1967, non fu dato conoscere come, sul finire del decennio, in Liguria come nel resto dell’Italia industriale quella generazione operaia si fosse ripresa dallo smarrimento iniziale di un secolo in un giorno solo per andare verso il più intenso ed esteso ciclo di lotte conosciuto nel nostro paese, attraverso l’espansione di una conflittualità fondata sulla conquista di una dimensione collettiva imperniata sulla figura dell’operaio massa. Di quella lunga stagione in questa occasione ci interessa richiamare due provvedimenti legislativi di assoluto spessore, che sedimentarono il potere operaio sull’assetto sociale complessivo e sono oggi sotto schiaffo dell’attuale governo: la riforma delle pensioni dell’aprile 1969, preceduta da uno sciopero nazionale della sola Cgil del 7 marzo 1968 e da due scioperi generali unitari, nel novembre dello stesso anno il primo e nel febbraio del 1969 il secondo, e lo statuto dei lavoratori del maggio 1970.

Quest’ultimo all’epoca non fu considerato una strepitosa conquista, ma un’accettabile mediazione che si auspicava potesse essere migliorata nell’immediato futuro, sull’onda di un’offensiva operaia che proseguiva dentro e fuori le fabbriche conquistando potere sui posti di lavoro, aumenti salariali e pensionistici, un’estesa socializzazione dei costi di riproduzione della classe. Già dal decennio successivo, invece, si è conosciuto in Italia un costante regresso della legislazione sul lavoro, mentre le sedimentazioni organizzative e istituzionali di quella ormai lontana stagione sono andate progressivamente sgretolandosi e buona parte di quelle che sembrano aver resistito si sono spesso convertite a un altro paradigma in un contesto sociale profondamente mutato. Di fondo, la dimensione collettiva, di massa, costituitasi in quel ciclo di lotte, è andata disperdendosi sotto l’urto di una reazione capitalistica che vi si è scientemente contrapposta, e non solo a livello nazionale: valga per tutti l’affermazione di Margaret Thatcher, a metà degli anni ’80, «la società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie». Più che una constatazione, una dichiarazione di guerra. Evocato il dove eravamo arrivati, e accennato alla risposta capitalistica a livello internazionale, andiamo all’oggi del nostro paese, per analizzare la politica governativa sul fronte del lavoro tanto sul versante del welfare, quanto su quello dell’innovazione normativa sul rapporto di lavoro dipendente. Non prima di aver osservato, però, il sostanziale continuum organizzativo, dissimulato da variazioni nominalistiche (o forse notarili, visto quanto accaduto nella capitale), di quello che fu il più grande partito comunista d’occidente ed è divenuto oggi il partito di governo, che sta declinandosi in un nuovo partito personale, disseminato di commissari e stati d’eccezione che lo stanno portando ai confini di una legittimità democratica da nord a sud, isole non escluse. Un partito che sta perseguendo una politica, subalterna al finanzcapitalismo internazionale, in progressiva accelerazione verso una resa dei conti con tutte le residue istituzioni del movimento operaio e gli assetti organizzati di movimento che ancora alludono a istanze di rappresentanza degli interessi collettivi di lavoratrici e lavoratori. Una consapevole azione di pesante ridimensionamento del ruolo di istituti rappresentativi del mondo del lavoro organizzato, la cui azione emancipatrice come quella difensiva sono in crisi da tempo, viene messa in campo in una logica di desolidarizzazione funzionale al perseguimento di una politica di ristrutturazione del comando capitalistico nel nostro paese.

Di conseguenza, tutta l’azione di governo deve tenere il punto sul piano dell’azione legislativa: vediamone gli aspetti più recenti e quelli in corso di definizione tra Jobs Act (legge dei lavoretti) e legge di stabilità sul versante previdenziale/assistenziale, tenendo a mente, come termine di confronto, dov’eravamo all’inizio degli anni ’70. Ne riassumiamo perciò i dati salienti, a partire dalla già citata legge sulle pensioni del 1969, che per un quarto di secolo è stata fondamentale per aprire una dimensione pensionistica capace di garantire prestazioni dignitose ai lavoratori che cessavano l’attività. È stata quella legge a introdurre il sistema di calcolo retributivo, che stabiliva un tasso di sostituzione dell’80%, con 40 anni di contribuzione e determinato sulla media dei salari degli ultimi cinque anni, il principio di automaticità delle prestazioni, la perequazione automatica delle pensioni indicizzate al costo della vita (nel 1975 agganciate anche alla dinamica salariale), la pensione di anzianità con 35 anni di contributi, la pensione sociale per gli ultrasessantacinquenni senza reddito e senza contribuzione sufficiente, il consolidamento e la rivalutazione dei trattamenti minimi; nel consiglio di amministrazione dell’INPS, dov’erano rappresentate tutte le componenti che contribuivano al suo finanziamento, i rappresentanti dei lavoratori costituivano la maggioranza, il che ha contribuito a rendere l’Istituto previdenziale del tutto atipico nell’ambito della pubblica amministrazione, da alcuni anni in corso di pesante ridimensionamento. Allora venne quindi sostanzialmente stravolto il paradigma attuariale della previdenza pubblica, ponendo a carico della fiscalità generale l’avvio di un percorso di costruzione della sicurezza sociale, emulando la indipendenza della dinamica salariale di quegli anni e costruendo un intreccio tra previdenza e assistenza a tutt’oggi non disciolto.

Su quest’ultimo nodo sembra esercitarsi con particolare intensità da alcune settimane il presidente dell’INPS Boeri con le sue proposte di tagli su pensioni d’oro e vitalizi parlamentari, con la sua insistenza sul calcolo contributivo in termini più generali, sulla flessibilità in uscita dal lavoro in funzione anche del turn-over generazionale, con significative penalizzazioni sulla misura: il gioco a tre tra Poletti, Boeri e Padoan, con patetiche comparsate della sinistra-dem, ha raggiunto livelli grotteschi, finalizzato a tirarla per le lunghe fino alla fine dell’anno, quando scatteranno gli ulteriori innalzamenti dei limiti di età previsti dalla Monti-Fornero, per cui sarà più facile fingere di fare concessioni dal nuovo anno; tutto questo conferma l’assoluta rilevanza della rapina sulle pensioni avviata dal primo governo tecnico della finanza internazionale, che nessuno dei successivi ha mai contraddetto.

La violenza di quella rapina, che induce Boeri a suggerire un reddito di sostegno per ultracinquantacinquenni senza lavoro – che, con la revisione della cassa integrazione e l’esaurirsi della mobilità a fine 2016 rischiano di essere ben più di mezzo milione – non viene smentita in alcun modo nella legge di stabilità. I 3 miliardi (attualizzati) di contributi di foreign workers espatriati dagli anni ’90, lasciati in dono all’INS e scoperti da Boeri, i 3 miliardi evocati dal sinistro-dem Damiano non utilizzati nelle prime sei salvaguardie degli esodati, i saldi attivi derivanti dal saldo tra contributi versati e prestazioni erogate al netto delle tasse da almeno un quindicennio non valgono a persuadere il governo ad allentare la morsa: al momento, l’ipotesi della settima salvaguardia in legge di stabilità non esaurisce ancora una volta il problema, mentre la proroga dell’opzione donna è fortemente penalizzante per quanto attiene alla misura. La grande riforma previdenziale è rinviata più avanti; intanto, ancora una volta, con le pensioni si fa cassa, e con la riduzione drastica degli ammortizzatori in deroga si risparmiano risorse dalla fiscalità generale.

Anche sul versante ‘giovanile’ del welfare siamo ormai al grottesco: a fronte dei carichi contributivi più alti d’Europa, in prospettiva il tasso di sostituzione, con almeno 40 anni di contributi, quindi oltre i 70 anni di età, sarà inferiore al 50%: considerati i salari reali percepiti con prestazioni lavorative discontinue e precarie, saranno pensioni inferiori all’attuale trattamento minimo che non viene per legge più garantito per chi, da gennaio 1996 in poi, è integralmente soggetto al regime contributivo. Per quanto riguarda le prestazioni a sostegno del reddito, a prescindere dai gravi ritardi nel pagamento della NASpI perduranti fin dalla sua introduzione a maggio di quest’anno, si tratta di una prestazione a decrescere da un possibile massimale di 1.300 euro lordi mensili nel primo trimestre fino anche a poche decine di euro alla fine del biennio massimo possibile di fruizione: il tutto giustificato con una retorica governativa, e non solo, che mira a indurre a una ricerca attiva del lavoro, sorvolando sull’esistenza di oltre un milione di scoraggiati che è piuttosto difficile insistere a definire choosy. L’indennità di mobilità si estinguerà invece il prossimo anno, e la CIG, nelle sue diverse declinazioni, sarà riconosciuta in termini più restrittivi a fronte del dilagare di stage e tirocini, per tacere dei voucher che si avviano a raggiungere la cifra dei 90 milioni a fine anno, di cui oltre il 40% nel solo Veneto. Un quadro assai preoccupante, specie alla luce dei pensieri in libertà del gioviale perito agrario.

Al momento ci basta così, ai limiti di un continente in un paese proiettato in un Mediterraneo solcato da disperati in fuga, predoni senza scrupoli e arcigne guardie. Sulla legge di stabilità (definizione quanto mai imbarazzante) e sui primi esiti degli ultimi decreti attuativi del Jobs Act si tornerà più avanti.

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