di MONICA PEPE, da Zeroviolenza
Dopo aver pubblicato un lungo articolo di Enrica Rigo e Jacopo De Giovanni a proposito dell’espulsione – avvenuta lo scorso 15 settembre – di 30 donne nigeriane richiedenti asilo detenute nel Cie di Ponte Galeria, condividiamo l’intervista a Enrica realizzata da Monica Pepe per Zeroviolenza in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Alla trappola dell’asilo – che di fatto non riconosce la politicità della posizione di queste donne che fuggono dai molti carnefici incontrati sulla propria strada, ma concede l’immunità ai colpevoli – si aggiunge quella della distinzione tra rifugiati e migranti economici imposta dall’Unione Europea per governare il mercato del lavoro anche in base alla differenza sessuale. Come osserva Enrica, anche il mancato riconoscimento dell’asilo è subordinato a questa logica: se queste donne sono state espulse è perché su di loro grava il pregiudizio per cui le nigeriane vengono considerate «inutili al lavoro».
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La situazione del Cie di Ponte Galeria è nota per le continue violazione dei diritti umani. In occasione del 25 novembre, ripartendo dal caso delle 66 ragazze nigeriane vittime di tratta condotte a Ponte Galeria, facciamo il punto sugli ostacoli giuridici e sulle condizioni di vita delle detenute con Enrica Rigo, giurista dell’Università Roma Tre e responsabile della Clinica Legale dell’Ateneo romano.
Dei migranti che arrivano in Italia oggi chi finisce a Ponte Galeria e chi può fare richiesta di asilo? E quali sono le condizioni di vita all’interno del Centro?
A Ponte Galeria finiscono principalmente due categorie di persone. I migranti già presenti in Italia destinatari di un’espulsione (ma non tutte le espulsioni vengono eseguite con il trattenimento al Cie, riservato soprattutto a chi è considerato socialmente pericoloso perché proveniente dal carcere o perché ha al suo attivo precedenti di polizia) e, fino all’entrata in vigore delle nuove norme nell’ottobre 2015, i destinatari di un provvedimento di respingimento differito. Questi ultimi non sono altri che gli intercettati al confine (o in mare) che non possono essere immediatamente respinti perché devono essere soccorsi. Ho specificato fino a ottobre 2015 perché, ai sensi delle nuove norme, solo chi ha un’espulsione può essere trattenuto. Anche di recente tuttavia, abbiamo riscontrato casi di donne appena giunte in Italia trattenute a Ponte Galeria, per le quali, tuttavia, l’amministrazione si era premurata di emettere anche un provvedimento di espulsione notificato a un paio di giorni di distanza dall’ingresso in Italia. Naturalmente, anche chi è trattenuto al Cie può chiedere asilo ma, ai sensi della nuova normativa, il rischio è che (proprio per i richiedenti asilo) il trattenimento si protragga per 12 mesi poiché, in attesa della eventuale decisione di primo grado del Tribunale, i termini massimi ordinari di trattenimento (90 giorni) sono sospesi. Sulle condizioni di vita all’interno del Cie si è detto molto. Io aggiungo solamente che il trattenimento dei cittadini stranieri dovrebbe considerarsi illegittimo a prescindere dalle condizioni in cui si svolge. È il fatto stesso della privazione di libertà dei migranti e dei richiedenti asilo a essere deprecabile.
A settembre molte delle 66 ragazze vittime di tratta sono state respinte, espulse e caricate su un volo che le ha riportate in Nigeria senza poter richiedere l’asilo. Come è stato possibile a livello giuridico? Ci sono secondo lei atteggiamenti discriminatori relativi al genere e alla provenienza delle ragazze da parte delle istituzioni?
A dire la verità, tutte avevano chiesto asilo e per molte di loro il Tribunale aveva disposto in via cautelare la sospensione della procedibilità del rimpatrio. L’amministrazione si è appellata alla mancata tempestività delle decisioni che, in alcuni casi, sono arrivate a rimpatrio già in corso. Quello che va sottolineato è invece che viviamo in un paese in cui il potere giudiziario non ha, nei fatti, una possibilità di controllo effettivo sull’operato dell’amministrazione. Ben 9 donne sono state infatti rimpatriate nonostante un provvedimento dell’autorità giudiziaria, emesso in loro favore, che le autorizza a stare in Italia fino alla decisione di primo grado del Tribunale. Per quanto riguarda il genere e la provenienza, le donne nigeriane sono sicuramente le più rappresentate al Cie. Questo è vero sia per coloro che sono presenti in Italia già da tempo, spesso destinatarie di provvedimenti di espulsione ricevuti a seguito di retate mirate; me è vero anche per quelle appena sbarcate o intercettate in mare. Non vi è nessuna ragione per non trattare queste donne come richiedenti asilo e indirizzarle verso le strutture deputate all’accoglienza. Oltre agli accordi di rimpatrio con la Nigeria, a mio parere, nel trattamento discriminatorio che ricevono gioca il pregiudizio per cui le donne nigeriane vengono considerate «inutili al lavoro». Si sa che, a differenza di altre migranti, non vengono impiegate nel lavoro domestico, né nelle serre o in altre occupazioni riservate al lavoro femminile dequalificato.
La collaborazione tra associazioni e avvocati ha permesso di ottenere l’uscita dal Cie per alcune di loro. Come siete riusciti e qual è stato il ruolo della Clinica Legale?
Per la prima volta si è messo in moto un coordinamento di avvocati che hanno depositato oltre 40 ricorsi contro il diniego dell’asilo da parte della Commissione Territoriale. La Clinica Legale ha avuto un ruolo di connettore poiché, inizialmente, avevamo avuto la nomina da parte di 12 donne del gruppo delle 66. Dal 2013 stiamo portando avanti un Osservatorio sulle decisioni in materia di trattenimento degli stranieri al Cie, ed è nell’ambito di questo progetto che avevamo iniziato a seguire il caso.
Una volta fuori dal Cie come funziona la rete di solidarietà per queste ragazze?
La rete istituzionale dell’accoglienza ha molte falle. Bisogna tenere in considerazione che spesso queste donne decidono di non rappresentarsi come vittime di tratta e quindi, anche quando sono molto giovani (appena maggiorenni), non vengono considerate come soggetti vulnerabili. Nel caso delle 66 donne nigeriane si è messa in moto una rete alternativa, trasversale rispetto ai singoli e alle organizzazioni che si sono attivate, che ha mostrato come non sia necessario carcerare le donne per tutelarle e per offrire loro alternative plausibili.
Proprio lei ci ha detto che alcune decine di ragazze sono arrivate da Lampedusa a metà ottobre. Quali provvedimenti bisogna prendere per affrontare la situazione nel rispetto dei diritti umani?
Purtroppo, come ho detto, da ottobre la normativa prevede che chi chiede asilo possa essere trattenuto nel Cie fino a 12 mesi. Per alcuni aspetti le norme sono più garantiste: chiariscono, per esempio, che il rimpatrio non può avvenire in pendenza del ricorso giudiziario fino alla decisione sulla sospensiva. Inoltre, i richiedenti asilo dovrebbero essere trattenuti in strutture separate. Tuttavia questo non avviene e, inoltre, il prolungamento dei termini scoraggia alcuni a presentare ricorso in caso di una decisione negativa in prima istanza sull’asilo, con un notevole detrimento per il diritto di difesa.
Questo a voler fare il punto sui diritti formalmente violati; tuttavia, come ho già detto, il trattenimento dei migranti e dei richiedenti asilo è da rifiutare in quanto tale, senza fare la conta del numero di violazioni che si verificano o meno nel singolo caso.
La politica di accoglienza in Europa si sta rimodellando tra hotspot, hub chiusi e hub aperti, migranti «politici» e migranti «economici». Come cambieranno i Cie?
Penso che i Cie siano già cambiati. La loro funzione si è polarizzata tra quella di transito quasi obbligato per i migranti usciti dal carcere e quella, a tutti gli effetti, di hub in uscita per migranti di alcune nazionalità. Ponte Galeria è ormai l’unico Cie femminile in Italia. Il 15 ottobre altre 50 persone, tra cui 30 donne, sono state rimpatriate verso Lagos. Il caso delle 66 donne nigeriane purtroppo non è un unicum, ma è paradigmatico di un futuro già presente.