Il gelido massacro di Parigi ha offerto un’occasione imperdibile a quanti negli ultimi mesi hanno pensato di rispondere alla tempesta scatenata dai migranti sull’Europa innalzando muri e blindando i confini. L’occasione è stata subito colta, per esempio, dal governo polacco, che in pieno spirito europeista ha dichiarato che in queste condizioni non può rispettare gli accordi di ricollocamento dei rifugiati: non essendoci una soluzione europea al controllo delle migrazioni in un momento di minaccia alla sicurezza, ognuno faccia per sé. Intanto, proprio il giorno prima della sanguinosa notte di Parigi, si è concluso a Malta il summit internazionale sulle migrazioni a cui hanno partecipato in prima linea i leader africani ed europei, a mostrare che quello che succede in Africa non rimane in Africa, ma gli africani dovrebbero invece rimanerci. Parigi e La Valletta, Asmara e Damasco sono connesse da un filo rosso che si dipana intorno alle sorti dei migranti.
L’11 e 12 novembre presso il Mediterranean conference center di La Valletta c’erano tutti i leader dei 28 Paesi Europei, i capi di Stato dell’Unione africana, l’ONU e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, e poche e «fortunate» ONG. L’incontro, tenutosi praticamente a porte chiuse, era programmato da aprile per continuare il lavoro iniziato con il vertice di Bruxelles dello scorso maggio: esternalizzare le frontiere, cooptare i paesi di origine dei migranti, legare la libertà di movimento all’interno dell’Europa all’irrigidimento del governo dei confini esterni. Se l’obiettivo ufficiale era la ricerca di soluzioni concrete alla gestione dei flussi e dell’accoglienza, il meeting ha riproposto da parte europea l’intento di dare ordine a un movimento inarrestabile, massimizzandone il potenziale di profitto, ovvero gestire un bacino europeo di forza-lavoro che non è unificato da regole comuni e omogenee, ma a partire dal governo dei flussi. Non si tratta, quindi, di un mercato del lavoro dove almeno nominalmente dovrebbero incontrarsi domanda e offerta, ma di un mercato dominato da chiare gerarchie che puntano a confermare disuguaglianze preesistenti: se la Polonia rifiuta gli accordi non è solo per una recente virata verso la destra estrema, ma perché sa che – nella riallocazione dei migranti – la Germania mira ad accaparrarsi i lavoratori più qualificati, lasciando agli altri Stati d’Europa una forza lavoro destinata a competere con quella locale, già sottopagata e in lotta per un salario.
Non solo: nei confronti dell’Unione africana si è messa in atto una strategia politica ricattatoria che fa dei migranti merce di scambio di un business transnazionale che passa sotto il nome di «sostegno allo sviluppo» (detto altrimenti, «aiutiamoli a casa loro»), secondo il principio «meno collaborazione sui rimpatri, meno aiuti». L’accordo è stato trovato: viene istituito un fondo fiduciario di emergenza, a cui si aggiungono i fondi versati dai singoli Stati che al momento toccano i 100 milioni, di 1,8 miliardi di euro. Tale fondo, davvero misero a fronte dei 3 miliardi promessi al «democratico» Erdogan per fare della Turchia un baluardo dell’Europa al di fuori dei suoi confini istituzionali, va impiegato per scopi diversi, dallo sviluppo alla cooperazione alla lotta ai trafficanti. In cambio, agli Stati africani si è chiesto di approvare la deportazione forzata dei migranti indesiderati; alla fine, si è optato per un più neutro e sobrio «accordo per dare la precedenza al rientro volontario». Sebbene l’Unione Africana sostenga giustamente che bisogna rispettare la volontà dei soggetti coinvolti e che il rimpatrio debba essere consensuale, sembra che per ottenere sovvenzioni dall’Europa dovrà sopportare qualche compromesso e operare qualche forzatura. I Paesi che collaborano ai rimpatri otterranno, in più, delle agevolazioni sulla mobilità dei propri cittadini in Europa. Il governo della mobilità opera sui due fronti, controllando e filtrando i movimenti di entrata e di uscita. È stata invece totalmente cassata la proposta europea di concedere all’Europa il potere di emettere dei lasciapassare – documenti standard, come passaporti, verso Paesi terzi – che permettano ai migranti respinti di essere rimpatriati in Africa, cosa che evidentemente usurperebbe troppo platealmente un pezzo di sovranità nazionale.
Per gli Stati africani, a cui l’Europa chiede collaborazione nei rimpatri dei migranti a cui non si riconosce la protezione internazionale e di favorire meccanismi di riammissione nelle società d’origine, la posta in gioco è alta. Ogni anno le rimesse valgono 40 miliardi per le economie locali, e questo in Europa lo sanno bene. Perciò, uno dei punti del piano di azione euro-africano firmato a Malta comprende la riduzione del 3% del costo del trasferimento di denaro dal paese ospitante a quello di origine. Come ulteriore paga per l’attività di gendarme dei confini, si promette un incentivo alla «flessibilizzazione» del mercato del lavoro migrante, mascherata come creazione di vie legali di migrazione: «migliore governance, migliori investimenti nella società civile, crescita economica e una prospettiva per i giovani», ad esempio attraverso misure bilaterali che prevedono migrazione lavorativa legale e stage studenteschi, per anticipare l’età dello sfruttamento. Il resto del piano definitivo approvato a La Valletta sembra una versione 2.0 dei buoni propositi dell’agenda europea sulle migrazioni. Le priorità sono: rafforzare la protezione di rifugiati e richiedenti asilo, con l’arbitraria definizione dei paesi d’origine sicuri e quelli che invece non lo sono; prevenire l’immigrazione illegale e promuovere canali legali di mobilità, incentivando soprattutto quella di studenti, ricercatori e imprenditori e favorendo quindi l’ingresso di forza lavoro qualificata – ma sempre a basso costo – e di investimenti produttivi; dare protezione alle vittime del traffico e fornire informazioni sui pericoli della migrazione, come se dire ai migranti che mettersi in viaggio è pericoloso potesse convincerli che sia più sicuro rimanere a soffrire povertà, guerra, dittatura e terrorismo, mentre per ostacolare il traffico si irreggimentano operazioni militari come Triton e si legittimano controlli arbitrari sui documenti dei migranti.
Mentre Schulz lamenta la mancanza di armonia tra le fila dei leader sia africani sia europei, Junker, presidente della Commissione europea, è preoccupato per il fallimento, già annunciato, del ricollocamento: su 160.000 rifugiati, solo 130 sono stati redistribuiti tra gli Stati membri, mentre i flussi non si arrestano. La Germania ha particolarmente a cuore il problema del ricollocamento, poiché si è rivelata essere meta prediletta dei rifugiati anche a fronte delle «offerte di ospitalità» da parte del ricco Lussemburgo. Per il governo tedesco la questione è molto semplice: bisogna agire subito e smaltire gli arrivi indesiderati prima che la «valanga», com’è stata definita da Schäuble, si riversi sull’Europa. L’atteggiamento delle istituzioni europee, d’altro canto, è chiaro: finanziare Stati di dubbia democraticità che però gestiscono, anche in maniere poco ortodosse ma efficaci, il contenimento dei flussi. Merkel suggerisce, a tal proposito, di facilitare i rimpatri in Turchia dandole il sigillo di safe country of origin. Anche la molto accogliente Svezia, che pure si oppone alla denominazione di origine sicura per la Turchia, dichiara di essere satura e annuncia check points alle frontiere.
Alla luce di tutto questo, non sorprende la richiesta di serrare i ranghi sostenuta da Donald Tusk. Il presidente del Consiglio Europeo ha affermato serenamente che le sorti dello spazio Schengen di libera circolazione sono legate indissolubilmente a quel che sarà dei confini dell’UE. In altri termini, se gli Stati europei non si preoccuperanno di salvaguardare la robustezza delle frontiere esterne, ovvero di sostenere la gestione centralizzata del governo della mobilità, addio libertà di movimento anche per i cittadini dell’Unione. La libertà di movimento è ammissibile solo a patto che venga governata in modo coordinato, questo è il messaggio. Il deputato segretario generale delle Nazioni Unite Jan Eliasson si unisce al coro, mostrando che la sollecitudine nei confronti dei rifugiati è inseparabile dalla messa a profitto della mobilità di centinaia di migliaia di uomini e donne che egli definisce, non a caso, «essere umani produttivi». Nell’invocare l’applicazione di «modelli regionali» e l’adozione di visti umanitari, Eliasson – essere umano di dubbia produttività – strizza l’occhio alle carcasse degli Stati nazione: la solidarietà internazionale va coniugata con il loro legittimo self-interest.
La domanda che ha guidato il summit a La Valletta sembra essere stata: come si diventa migranti e secondo quali criteri? Primo, bisogna essere rifugiati; secondo, non si deve essere africani. Come è evidente, la definizione di chi può essere legittimamente considerato un rifugiato e chi non lo è ha molto poco a che fare con l’oggettiva esistenza di guerre e persecuzioni. Se la Turchia di Edrogan, con le sue aggressioni quotidiane nei confronti delle popolazioni curde in lotta contro l’ISIS, è considerata un paese d’origine sicuro, ciò dipende dalla volontà di farne un enorme bacino di stoccaggio con la possibilità sovrana di lasciar partire un po’ alla volta i profughi destinati a diventare migranti una volta arrivati a destinazione. Se paesi africani dilaniati ogni giorno da stragi e operazioni di guerra saranno considerati altrettanto sicuri è perché un africano – meno istruito e qualificato di un siriano – non può essere trattato come merce di valore nella nuova economia politica della mobilità. La guerra e la sua definizione divengono così una fonte di segmentazione del bacino europeo della forza lavoro, mentre il coinvolgimento degli Stati africani nel governo della mobilità sembra un tentativo estremo di imporre una politica migratoria unificata in Europa nonostante il fallimento degli accordi tra i singoli Stati europei. Quello che l’Europa sta facendo, di fronte a un processo che mette a nudo la fine della cittadinanza politica, è sancire su un piano che non può più essere solo europeo una cittadinanza occasionale e informale concessa dal mercato del lavoro e stratificata in base alle sue esigenze. È evidente che sulla pelle dei migranti si sta giocando la battaglia della nuova costituzione europea: questa battaglia non si combatte soltanto sui confini esterni, perché il tentativo di governare il movimento indisciplinato e di massa degli uomini e delle donne che ogni giorno li sfidano ha a che fare con la chiusura degli spazi di libertà e insubordinazione contro lo sfruttamento e contro la guerra in ogni punto d’Europa. In ballo c’è la ridefinizione dell’Europa stessa come spazio di libera circolazione, dal momento che anche la mobilità interna è messa in questione. La libertà di movimento diventa un privilegio garantito a chi risponde alle esigenze del mercato del lavoro europeo. Contro l’imposizione di una mobilità vincolata e di una disponibilità allo sfruttamento, al rimpatrio, al «ritorno volontario», alle categorizzazioni e alle distinzioni arbitrarie si muovono i migranti alla ricerca di libertà attraverso le frontiere. Questi movimenti mettono alla prova l’idea di Europa e svelano i rapporti di forza che essa vuole imporre. Ora si tratta di rovesciarli.