di DEVI SACCHETTO
Pubblichiamo la versione rivista di uno degli interventi introduttivi del workshop «Trasformazioni del lavoro e sciopero transnazionale: nuovo regime di fabbrica, precarizzazione e composizione del lavoro» organizzato da ∫connessioni precarie con Worker’s Initiative (Polonia), TIE – Global Worker’s Network (Germania), Angry Workers (Regno Unito) durante il meeting per uno sciopero sociale transnazionale che si è tenuto a Poznan all’inizio di ottobre.
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Per almeno vent’anni il lavoro di fabbrica in Europa è apparentemente scomparso. Quando ha cominciato a riapparire, è stato a prima vista relegato nell’Europa dell’est. Tuttavia, la crisi economica nel 2008 ha mostrato che il sistema manifatturiero, con il suo portato di servizi più o meno esternalizzati, costituisce ancora un fattore determinante per le condizioni di lavoro in Europa. Stiamo parlando di una fabbrica che ha subito diverse trasformazioni sia dal punto di vista tecnologico sia organizzativo e, ancora più importante, che è quotidianamente connessa con altre realtà in Europa e nel mondo. La fabbrica oggi è il luogo di connessione di diverse storie del lavoro che hanno luogo a migliaia di chilometri l’una dall’altra e con cui siamo costantemente in contatto. Per questa ragione, la fabbrica rappresenta il punto di intersezione di diverse forme di organizzazione del lavoro, ma anche di diverse precarietà.
Immaginiamo un giovane lavoratore o una giovane lavoratrice est-europea che abbia finito le scuole superiori. Che cosa può fare? Può cercare un lavoro, magari provando a trovare qualcosa che ha a che fare coi suoi studi. Probabilmente sarebbe difficile. Forse ha qualche amico che è emigrato o che lavora in una fabbrica. Possiamo pensare che lui o lei cercherà di lavorare nel suo paese d’origine, di trovare uno dei molti lavori dequalificati in una delle molte fabbriche che appartengono al capitale straniero o locale. I paesi dell’Europa dell’est sono stati spesso paragonati alle maquiladoras del Messico settentrionale, perché negli ultimi 25 anni le imprese multinazionali, soprattutto europee, hanno usato quest’area per dislocare parti della produzione, perché lì è possibile trovare bassi salari e scarso intervento sindacale. È un fatto che una parte della produzione manifatturiera europea si sta muovendo da ovest a est, in particolare quella elettronica, dell’automobile e dell’abbigliamento. Questo non significa che i paesi dell’est europeo prima non avessero una manifattura, ma che c’è stata una grande trasformazione nelle fabbriche dove è stato applicato lo stile occidentale di management. Grazie agli investimenti delle multinazionali, paesi come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia e la Romania sono diventati sempre più importanti lungo le cosiddette catene del valore. In questo processo, non solo le imprese occidentali, ma anche le multinazionali asiatiche sono andate a est con l’obiettivo di avvicinarsi di più ai mercati dove le loro merci sono vendute. La geografia della produzione ora è organizzata in diverse aree a seconda del tipo di merce prodotta e delle imprese leader e in appalto.
La trasformazione del sistema di produzione globale sta irrompendo sempre di più nella sfera privata. La flessibilità produttiva richiede una forza lavoro disponibile all’occorrenza e questo ha effetti profondi sul tempo di vita e sui rapporti sociali fuori dalla fabbrica. Il tempo della produzione e il cosiddetto tempo libero sono soggetti ai ritmi della produzione globale. Anche per questa ragione è difficile per la forza lavoro organizzarsi, in un momento in cui una gran parte dell’organizzazione del lavoro si sviluppa fuori dai posti di lavoro. Da un punto di vista tecnologico, è ovviamente più semplice trovare macchinari migliori in Germania piuttosto che in Romania, ma spesso l’esperienza dei lavoratori non cambia molto. Imparare un lavoro nella manifattura, nella logistica, nelle costruzioni e in altri servizi spesso richiede pochi giorni. Ovviamente l’acquisizione di competenze richiede più tempo, ma molti lavoratori si muovono da un posto all’altro senza troppe difficoltà. Nel settore manifatturiero e in molti servizi il tipo di lavoro svolto è spesso simile se l’Europa orientale e occidentale sono messe a confronto; le operazioni sono segmentate in micro-movimenti, mentre i livelli di qualità sono costantemente monitorati dai computer. Questo tipo di manifattura richiede un tipo di forza lavoro capace di sostenere ritmi frenetici. Il sistema di computer usato, come la video-sorveglianza, mostra che i manager possono costantemente monitorare la produzione e spesso registrare in tempo reale qualunque errore o sabotaggio possa avere luogo. Le tecniche e le procedure operative impiegate sono piuttosto standardizzate, ma sono applicate in modi diversi nelle diverse fabbriche e posti di lavoro a seconda del contesto locale.
Ogni fabbrica contiene una diversa composizione della forza lavoro con una specifica gerarchia di razza, genere, nazionalità. La segmentazione del mercato produce una precisa gerarchia basata su questi elementi di divisione. Non tutti i lavoratori sono lavoratori allo stesso modo. Alcuni sono qualificati (e magari assunti direttamente), altri sono «rifugiati». Ogni posto di lavoro ha le sue gerarchie, sicché il mito della fabbrica come luogo capace di cancellare le differenze, ammesso che sia mai stato realistico, è definitivamente tramontato. La struttura produttiva di ogni multinazionale è basata su diversi stabilimenti dislocati in parti diverse del mondo che devono confrontarsi con diversi tipi di società locali, ciascuna con caratteristiche proprie all’interno e all’esterno delle fabbriche. In termini generali, stiamo assistendo a una chiara stratificazione del lavoro che non è basata semplicemente sulla divisione tra est e ovest. Ogni singolo nodo di una multinazionale può gestire diversi tipi di assunzioni e diversi modelli di organizzazione dei rapporti di lavoro. Le differenze più rilevanti riguardano i salari, gli incentivi alla produzione, la scansione della giornata lavorativa e la composizione della forza lavoro. Tuttavia, lavorare in paesi occidentali non significa sempre che i salari siano più alti, anche a causa delle frodi diffuse. In molti casi è impossibile incassare il salario perché il datore di lavoro scompare oppure, come nel caso delle cooperative, il lavoratore deve pagare una quota associativa. Quando parliamo di differenze salariali tra Italia e Romania, per esempio, dobbiamo anche considerare che per un lavoratore rumeno può essere più difficile avere un salario italiano proprio a causa di questo tipo di frodi.
I datori di lavoro usano molte armi per dividere la forza lavoro: la nazionalità, la differenza sessuale, bonus monetari, contratti di lavoro. La composizione della forza lavoro infatti è spesso strutturata secondo un rozzo studio di diverse caratteristiche stereotipate. Così, differenti nazionalità sono messe l’una contro l’altra ed è incoraggiato il razzismo. Come accade in diversi stabilimenti (come quelli della Foxconn), i lavoratori nativi sono spinti contro i migranti, ma questa polarizzazione prende anche altre forme perché non tutti i migranti sono nella stessa posizione e non necessariamente condividono la stessa condizione a tutti i livelli. Il razzismo è presente anche tra i migranti stessi e nella maggior parte dei casi non ha a che fare con le differenze culturali in sé, ma con la forma che assumono all’interno del posto di lavoro. L’idea che qui ci sia un’integrazione dei lavoratori migranti nasconde il fatto che l’integrazione implica una subordinazione alle gerarchie di fabbrica, ovvero alla logica dell’etnicizzazione del lavoro. Si presume che i migranti in fabbrica siano integrati quando stanno buoni al posto che la società assegna loro. In alcuni casi, la divisione segue una linea di genere, perché le donne sono considerate dai padroni meno propense al conflitto degli uomini. Le donne, infatti, sono spesso impiegate nei comparti peggiori della fabbrica, all’interno di un sistema basato su specifiche forme di patriarcato. Nonostante questo, proprio le donne spesso sono protagoniste delle forme più dure di conflitto, in Europa come nel resto del mondo. Mentre la rappresentazione della classe operaia è ancora molto mascolinizzata, le catene della produzione sempre più coinvolgono le donne. Un altro strumento per gestire la forza lavoro sono i bonus pagati sulla base delle performance lavorative e della produttività. È un sistema a cottimo che si diffonde in tutta Europa. Infine, ma forse più importante, i lavoratori sono spesso divisi dai tipi di contratto e dal sistema degli appalti.
Oggi l’Europa è attraversata da processi simultanei di migrazione (spesso di ritorno) e di dislocazione della produzione. I processi di produzione e le condizioni di lavoro generano un continuo turnover lavorativo e una spinta verso la mobilità, attraverso cui si cerca anche di gestire il conflitto. Il turnover lavorativo ha un doppio significato: da una parte, è un processo gestito dai padroni che temono forme di organizzazione che possono avere luogo quando la forza lavoro è molto numerosa. Dall’altra parte, è una forza dalla parte dei lavoratori, anche se spesso solo individuale. La libertà di movimento in Europa è l’espressione di un potere dei lavoratori, anche se si muovono da un lavoro precario all’altro.
La crisi economica internazionale sta accelerando la costruzione di un mercato del lavoro europeo sul quale molti paesi possono contare per una composizione variamente articolata della forza lavoro. Con i suoi 28 Stati membri, l’Unione europea ora può essere considerata come un vasto mercato del lavoro. Secondo i dati forniti dalla Commissione, nel 2013 c’erano circa 26 milioni di migranti in Europa (in età lavorativa compresa tra i 15 e i 64 anni). Di questi, 10,3 milioni erano cittadini europei. Questo fenomeno ha assunto una dimensione di massa, come dimostrano tanto le migrazioni dalla Romania, dalla Polonia e dalla Lituania (ma anche, in tempi più recenti, da Italia, Spagna e Portogallo), quanto gli investimenti produttivi nella Repubblica Ceca, in Polonia, Ungheria e Romania. È importante sottolineare, comunque, che la mobilità non è semplicemente obbligata da condizioni oggettive. È in atto la formazione di una forza lavoro multinazionale a basso salario le cui strategie di mobilità sfidano le aspettative dei padroni in merito alla disponibilità al lavoro, come pure l’atteggiamento dei sindacati che trattano i lavoratori dequalificati migranti come degli «ammortizzatori». Forse il giovane lavoratore – o la giovane lavoratrice – della nostra storia cercherà un lavoro migliore da qualche altra parte e, dopo pochi mesi, se ne andrà. Anche se lui o lei difficilmente troverà un lavoro molto diverso, avrà almeno l’opportunità di cercare un salario migliore. Le esperienze di lavoro in diversi contesti permettono ai lavoratori di accumulare una maggiore conoscenza della migrazione per lavoro, di sviluppare una ricerca di lavoro transfrontaliera e di paragonare i salari, le condizioni di lavoro e le pratiche di management di cui hanno fatto esperienza nei diversi paesi. La decisione dei lavoratori migranti di fermarsi o di partire dipende dalla disponibilità di opportunità di impiego, tanto nei paesi d’origine quanto attraverso l’Europa.
Si sa che l’allargamento dell’Unione ha reso possibile il movimento libero dei lavoratori. Nonostante i diversi filtri imposti ai migranti non europei e le recenti limitazioni riguardanti i cittadini dell’Unione, questa liberalizzazione – seppure parziale – sta producendo una grande mobilità tra i lavoratori che sono ben consapevoli delle opportunità offerte del mercato del lavoro europeo. Una parte significativa della forza lavoro dell’Europa dell’est, soprattutto i più giovani, ha preso seriamente quelle opportunità e si muove in quest’area attraverso agenzie di reclutamento, network familiari e di amicizia o anche individualmente, cercando un lavoro migliore. L’obiettivo di questo movimento è di allargare le proprie possibilità di mobilità economica e sociale. I lavoratori migranti percepiscono il loro lavoro come temporaneo. Il debole attaccamento al lavoro è anche dovuto alle loro traiettorie di vita e strategie di mobilità.
Di solito questo uso attivo della mobilità è considerato da alcuni sindacati come una minaccia: dal loro punto di vista, i salari e gli standard di lavoro più bassi fanno sì che i padroni preferiscano assumere migranti, causando trasferimenti e aumentando i livelli di disoccupazione della forza lavoro locale. Nonostante tutto, il risultato oggettivo è che questi movimenti mettono in questione l’organizzazione tradizionale del sindacato e persino l’idea stessa di sindacato. La questione è se il tradizionale modello sindacale sia all’altezza di un lavoro sempre più mobile e informale, ovvero del lavoro migrante. Se il sindacato organizza solo lavoratori sul lungo periodo e non è in grado di organizzare quelli che sono costantemente in movimento nello spazio europeo, il problema della «sindacalizzazione» è di come connettere lo spazio e il tempo del lavoro che il capitale cerca costantemente e violentemente di separare.
Molti lavoratori migranti hanno familiarità con le attività sindacali, ma i loro interessi spesso confliggono con quelli del sindacato: questo è prioritariamente interessato a questioni nazionali, mentre la prospettiva temporanea dei migranti dà vita a exit strategies individuali che sono funzionali al perseguimento di progetti migratori che spesso si dispiegano attraverso diversi paesi. La mancanza di interesse dei sindacati verso le condizioni dei lavoratori migranti assunti tramite agenzia, per esempio, è dovuta al fatto che i lavoratori più stabili e nativi – che sono quelli che in linea di massima il sindacato rappresenta – beneficiano dei lavoratori temporanei in quanto questi ammortizzano l’impatto delle oscillazioni nella domanda di lavoro. Di fronte a questo movimento dirompente di giovane forza lavoro migrante est-europea, composta in misura uguale da uomini e donne e che attraversa l’Europa con una crescente conoscenza delle diverse condizioni di lavoro e di come questo viene gestito, sindacati e partiti sembrano un goffo elefante.
In questa fase il ruolo dello Stato è ovviamente diverso dal passato, ma non bisogna sottovalutarlo perché è essenziale alla continua moltiplicazione di leggi che determinano le condizioni di lavoro, i livelli di mobilità e la profittabilità degli affari, ma anche il controllo dei conflitti. Mentre sul piano legislativo ha luogo un innegabile processo di omogeneizzazione, ogni Stato europeo stabilisce le proprie specifiche limitazioni riguardo al mercato del lavoro, gli investimenti stranieri o i livelli salariali. Anche se la rivendicazione di un salario minimo è una vecchia idea, porla sul piano europeo può essere uno strumento importante per l’organizzazione di questa forza lavoro mobile.
La questione della convergenza di alcuni elementi delle condizioni di lavoro è oggi cruciale per evitare che la connessione delle storie del lavoro nella fabbrica transnazionale rimanga semplicemente una descrizione sociologica. Per questa ragione, rivendicare un salario minimo può permettere di superare la dimensione individuale della precarietà mentre si accresce la mobilità da un luogo a un altro. Il salario minimo europeo permetterebbe di limitare non solo la minaccia di esternalizzazione della produzione, ma anche il potere delle burocrazie sindacali che, in Italia come nel resto d’Europa, si oppongono a questa rivendicazione perché toglierebbe loro un elemento della loro capacità contrattuale. Il punto è che un salario minimo europeo sarebbe possibile solo come risultato di una lotta di classe capace di limitare la costante svalutazione della forza lavoro che il capitale cerca di imporre. In questo modo la fabbrica delle differenze potrebbe lanciare a livello europeo un segnale politico dal significato globale.