martedì , 24 Dicembre 2024

Il biopotere che scorre su Amazon

Il biopotere che scorre su Amazondi BENEDETTO VECCHI – da Euronomade

Da tempo seguiamo le vicende di Amazon, sia dal punto di vista dell’analisi (vedi #1 #2 #3 #4 #5) sia dal punto di vista della contestazione della sua organizzazione del lavoro (#6 #7). Per questo riprendiamo l’interessante contributo di Benedetto Vecchi uscito sul sito di Euronomade.

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Non è mai troppo tardi. È la frase più facile da usare per quanto è accaduto dopo la pubblicazione di un reportage del quotidiano statunitense New York Times sulle condizione dei lavoratori del più grande shopping mall telematico presente in Rete. In un articolo Amazon viene passata al setaccio a partire dalle regole alle quali i lavoratori devono attenersi. Il giornalista ha raccolto i racconti, le invettive, le analisi di dipendenti e ex-dipendenti dove il giudizio più benevolo verso lo store digitale è: una caserma. Ma è il decalogo delle regole – doveri e obblighi, più che altro, visto che di diritti non ce ne è traccia alcuna – che tutti devono seguire che ha fatto gridare allo scandalo. Dal divieto di parlare di come e di cosa accade negli enormi capannoni di Amazon, all’invito-obbligo a esprimere giudizi sul comportamento di altri lavoratori e di capi e capetti, non c’è nulla che viene omesso dal giornalista. Neppure il costante controllo al quale è sottoposto il singolo, usando i badge e un geolocalizzatore che segnala posizione e tempo di percorrenza per trovare la merce da impacchettare, viene dimenticato. Grande rilevo viene dato alla divisione tra i buoni (gli iperproduttivi) e cattivi (fanno ciò che devono senza dannarsi l’anima) lavoratori. Altrettanta enfasi è dedicata alla disponibilità «h24, sette giorni su sette» che i lavoratori devono garantire.

Il primo commento, in Rete, all’articolo ha equiparato quello di Amazon a un regime schiavistico, dove vige un comportamento inumano assieme all’assenza di compassione nelle relazioni lavorative e umane. Un imbarazzato Jeff Bezos, guru e padrone indiscusso di Amazon, ha affermato che quella non era la sua miliardaria impresa e che ogni persona di buon senso scapperebbe da quell’inferno. Con quell’attitudine al iperrealismo che talvolta li contraddistingue, molti analisti economici statunitensi hanno preso le difese di Amazon in modo meno ipocrita di Bezos, affermando che la flessibilità, lo sfruttamento, l’elusione di ogni diritto del lavoro, i bassi salari, la costituzione di un vero e proprio esercito di working poor sono il «prezzo» da pagare affinché i prezzi delle merci siano bassi, facendo così felici i consumatori, deux ex machina anonimo dell’economia mondiale: è infatti questa rediviva figura dell’individuo proprietario che determina, secondo le teste d’uovo del libero mercato, il successo o la crisi di una impresa.

Al di là del cinismo che sostiene questo ragionamento, un elemento di verità emerge: la riuscita operazione di mettere su barricate opposte chi produce e chi consuma, in un circolo vizioso in cui i lavoratori depredati di diritti e di salario sono gli stessi che acquistano prodotti, attraverso la rete delle imprese che li sfruttano. Le fortune di WalMart, altro esempio di impresa globale, sono proprio da cercare nel fatto che il pubblico dei suoi mega-negozi sono gli uomini e donne che percepiscono Paghe da fame, come ha scritto la giornalista militante Barbara Ehrenreich in un anticipatore libro pubblicato da Feltrinelli negli anni di sviluppo di Amazon. Le fortune commerciali delle imprese di junk food, di Mc Donald’s, di WalMart, ma anche di siti Internet che favoriscono vacanze low cost è dunque dovuto proprio alla diffusione su scala planetaria proprio dei working poor. Inutile aggiungere che anche chi vi lavora riceve paghe da fame, mentre l’arbitrio, il controllo, il governo politico del lavoro vivo (divisioni secondo la linea del colore o della differenza sessuale) sono la regola dominante.

Le maglie delle reti produttive

La storia di Amazon non vede nessun nerd geniale in azione, né un garage dove un gruppo di giovani virtuosi del codice informatico sviluppa l’applicazione che terremota l’economia della Rete. Racconta semmai le vicende di un’impresa che, grazie a un relativamente piccolo esercito di chain workers che svolge mansioni poco qualificate all’interno di un processo lavorativo ad alta intensità di automazione, è diventata un colosso non solo della net economy, ma dell’economia mondiale. In un ipotetico saggio di business history dedicato al passaggio all’economia globale del nuovo millennio occuperebbe poche pagine. Ma è comunque un case study rilevante per un altro aspetto. Nel capitalismo contemporaneo convivono forme del lavoro diversificate, da quelle ipersofisticate – produzione di software, microprocessori, procedure organizzative – a quelle ripetitive, standardizzate (magazzinieri, data entry, facchini, trasportatori). Ma se in passato dai cosiddetti punti alti dello sviluppo capitalistico si poteva illuminare il resto della produzione di merci, nella contemporaneità vale il principio che una prassi teorico-politica adeguata deve tener conto del doppio legame tra sviluppo e sottosviluppo. In un recente saggio dello studioso radical canadese Nick Dyer Witheford dall’evocativo titolo Cyberproletariat (Pluto Press) si propone, a ragione, di non separare mai i minatori del Congo dalle fabbriche cinesi dai lavoratori della conoscenza per comprendere la contemporanea composizione sociale del lavoro vivo. Nel lessico marxiano significa indagare il rapporto tra plusvalore assoluto e relativo. Più prosaicamente, nel caso di Amazon comporta un attraversamento della rete produttiva per stabilire le ripetizioni e le differenze esistenti tra la condizione di sfruttamento dei chain workers, dei trasportatori e degli «analisti simbolici». Tutto ciò per dire che l’analisi critica della realtà interna di Amazon può fornire elementi per comprendere le ragioni per cui un governo dispotico del lavoro vivo non incontra grandi differenze e i conflitti dei working poor non riescono mai a superare l’ambito di un settore. E allo stesso tempo come le pratiche di autovalorizzazione dei lavoratori della conoscenza non rompono mai le barriere delle compatibilità di impresa. Elementi emersi in questi anni durante gli scioperi alla McDonald’s, a WalMart, persino alla Microsoft quando i lavoratori a tempo determinato (i cosiddetti temps) si sono rivolti a un giudice per vedere riconosciuti gli stessi benefits dei «permanenti»; o quando le software house che lavorano per lo sviluppo delle applicazioni di Apple, o di Facebook, hanno chiesto, senza ottenere grandi risultati, ai loro committenti tariffe adeguate a un lavoro qualificato. In altri termini, il lavoro vivo è il regno incontrastato delle differenze. Non basta però affermare che la dialettica tra sviluppo e sottosviluppo si è spezzata e che è all’opera un regime di complementarietà tra chain workers e lavoratori della conoscenza per sciogliere il nodo dell’intermittenza dei conflitti e dei perimetri nel quali sono relegati. Ciò che emerge con forza nel capitalismo contemporaneo è la difficoltà o l’impossibilità di una ricomposizione del lavoro vivo a partire dalla mansione svolta o dal posto occupato nella catena del valore.

 Una storia come tante altre

Amazon vende dunque per lo più merci. L’unica, significativa innovazione che ha introdotto è l’automazione e il coordinamento on line dei suoi magazzini. È infatti diventata una delle imprese globali più importanti del capitalismo mantenendo bassi i prezzi di vendita e riducendo significativamente i tempi di consegna, dando vita a una rete distributiva che vede coinvolti colossi della logistica, piccoli trasportatori e lavoratori: tutti pagati poco. Il salario è poco sopra la soglia di povertà; le tariffe dei trasporti sono basse e scaricate sia sui trasportatori che sui consumatori «finali», che possono però aspirare a diventare best client e non pagare il prezzo del trasporto dell’oggetto acquistato. La fedeltà all’impresa non è dunque solo prerogativa di chi ci lavora, ma anche di chi consuma. E se per i consumatori questa viene sollecitata con il miraggio degli sconti, ai lavoratori è imposta con il ricatto dei licenziamenti o nelle impalpabili forme del controllo digitale, attraverso badge, geolocalizzatori che rilevano posizione e tempi di lavoro. Lo sfruttamento, in questo caso, è delegato all’astrazione degli algoritmi che gestiscono il sistema integrato del processo produttivo.

Dunque, niente di sorprendente rispetto allo spirito del tempo. C’è però da riconoscere il fatto che il modello organizzativo di Amazon è diventato dominante tra le corporation che vendono merci on line. È stata fondata nei primi anni Novanta, quasi in sordina. Voleva vendere libri su Internet. La prima denominazione era Cadabra.com. Un nome difficile da ricordare. Per questo, il suo fondatore, Jezz Bezos, optò allora per Amazon, strizzando l’occhio a molta cultura aziendale new age per l’esotismo del nome e per quell’enfasi data all’informalità dei rapporti di lavoro, con gerarchie ridotte al minimo e il culto del consumatore, fin qui vittima del potere delle corporation che dettavano la lista dei prodotti da acquistare. Era in nome della libertà del consumatore che dovevano essere cancellati tutte le fasi dell’intermediazione, quella che gli economisti chiamano la sfera della circolazione. Per Bezos, questo significava, tenere fuori dai capannoni anche i sindacati, considerati solo venditori di forza-lavoro. In questo caso: il rapporto di lavoro doveva essere incardinato su una relazione vis-à-vis tra imprese e singolo. Da qui una certa propensione, agli esordi, verso una individualizzazione del rapporto lavorativo. Fattore che è stato poi abbandonato, quando la società ha aperto filiali in paesi diversi dagli Stati Uniti, dove talvolta vigono contratti nazionali di lavoro, come ad esempio in alcuni paesi della vecchia Europa.

Sopravvissuti al 2001

Dopo aver rastrellato milioni di dollari tra piccoli azionisti e capitalisti di ventura, Amazon definì il suo modello di business: vendita di libri per un po’ di anni per poi espandere l’offerta a cd, dvd, elettronica di consumo. L’obiettivo, inizialmente non dichiarato, era di trasformare l’impresa in uno shopping mall universale, dove a colpi di click del mouse si potesse acquistare di tutto. Cosa che è poi quasi divenuta realtà. Tuttavia, agli inizi, per una manciata di anni, il bilancio non poteva che essere in rosso. Bezos rassicurava piccoli e grandi azionisti sul fatto che poi i profitti sarebbero arrivati, una volta che il marchio si fosse affermato dentro e fuori la Rete. Sono gli anni della new economy: crescono start up come funghi, promettendo soldi facili per chi voglia investire in attività innovative e al silicio. Sono però anche gli anni delle prima difficoltà di Amazon.

Il suo brevetto sul click (il carrellino che segnala gli acquisti fatti) è da subito contestato, dando vita a un tira e molla con i tribunali Usa che si è concluso solo nel 2007, quando un giudice ha dato ragione a Jeff Bezos. C’è poi lo scontro con le librerie, in particolare con Barnes&Noble che punta il dito contro Amazon, ritenendola responsabile della chiusura di molte piccole librerie, omettendo il fatto che la moria era iniziata proprio con la concentrazione dei punti vendita che vedeva la Barnes&Noble come una delle imprese più voraci presenti sul mercato librario. Amazon tiene testa: dalla sua ha una aggressiva politica di sconti di vendita, facilitata dai bassi salari e dal fatto che ogni intermediazione tra produzione e vendita viene ridotta al minimo.

Gli affari cominciano così a decollare, ma di profitti non c’è ancora traccia. Amazon è ancora solo una impresa yankee, anche se vende in tutto il mondo. Quando esplode la bolla della new economy – anno 2001 – molte imprese chiudono, ma non quella di Jeff Bezos, che nel frattempo ha aperto filiali in Europa e Asia. Così, mentre molti analisti annunciano la fine ingloriosa della new economy, Amazon, assieme a una new entry della Rete, Google, comincia ad avere bilanci in attivo. Fino ad allora, le sue fortune economiche non venivano dal suo modello di business, ma da una alta quotazione in borsa che premiava il rischio inerente a un modello di business tutto sommato convenzionale. Amazon è ormai diventata una macchina da guerra che non opera solo negli Usa ma in ogni parte del pianeta, diventando l’impresa più grande degli Stati Uniti per fatturato, ma non per profitti. Quello scettro, infatti, appartiene ad altri, sebbene Jeff Bezos sia uno dei dieci uomini più ricchi della Terra.

Automazione ad alta intensità

Uscita vincente dallo scontro con Barnes&Noble, comincia a vendere altre merci oltre ai libri. Gli editori sono infatti contenti di fare affari con Jeff Bezos, che garantisce vendite e introiti costanti. La stessa soddisfazione è di altri produttori, come gli «indipendenti» o le industrie discografiche o cinematografiche che vedono costantemente ridotto il volume di vendite di cd musicali o dvd video. E se per questi ultimi, la terra promessa dello streaming a pagamento comincia a profilarsi all’orizzonte, la contingenza parla di crollo delle vendite, attenuato proprio dalle entrate provenienti da Amazon. In un fortunato libro dei primi anni duemila – La coda lunga di Chris Anderson, tradotto da Codice edizioni – Amazon è indicata come l’emblema di una democratizzazione del mercato: tutti possono produrre libri, cd, dvd e avere un venditore affidabile. Non conta più il volume delle vendite del singolo prodotto, ma la somma di tante vendite spezzettate: autori, produttori possono contare su introiti e piccoli profitti, senza passare sotto le forche caudine di intermediari. Anche qui un granello di verità si annida tra la montagna di retorica sul libero mercato. Piccoli editori, produttori di contenuti possono avere un propria, seppur piccola vetrina su un mercato mondiale indipendentemente dal proprio potere di condizionamento del mercato. Altro elemento che fa di Amazon il modello vincente di vendita on-line è la possibilità di inserire recensioni su libri, cd e dvd e giudizi sui prodotti acquistati. La Coda lunga di Anderson non è però una sofisticata griglia teorica, bensì la fotografia di quanto avviene in un settore. Inizialmente è stata usata per descrivere l’andamento delle vendita di prodotti discografici, per poi divenire una sorta di mantra sulle capacità de mercato globale di poter garantire reddito per tutti, anche in presenza di concentrazioni oligopolistiche. Ma ciò che vale per i discografici vale anche per la stessa Amazon. La curva posta su due assi cartesiani per rappresentare l’andamento di un settore merceologico in base alle imprese presenti tende allo zero senza mai raggiungerlo. Descrive un andamento decrescente dei guadagni in base al successo commerciale del prodotto, mentre la sua parte finale riguarda i piccoli produttori che non faranno profitti stratosferici, ma tuttavia sufficiente per garantire un reddito. Per Amazon questo vuol dire che ci sono prodotti che vendono tanto e altri poco. È quindi impensabile che ci siano preclusione o divieti sui prodotti da vendere. Nei magazzini di libri c’è di tutto – dal best seller all’opuscolo radicale anticapitalista; dal video di un film holliwoodiano al film sperimentale di un ignoto studente di college. La «coda lunga» significa che, visti dai i margini di guadagno ridotti della vendita di ogni singolo prodotto, Amazon deve puntare sul volume complessivo di vendite. Niente dunque di così innovativo come Jeff Bezos vorrebbe far credere. È la logica del supermercato. La democratizzazione del mercato sta quindi nella possibilità di proporre ad Amazon la vendita del proprio contenuto editoriale, cinematografico, di una linea d’abbigliamento o uno dei tanti prodotti della lunga serie di categorie che sono previste nella Home page di Amazon, in attesa che il contatore cominci a scandire i dollari o gli euro che entreranno nelle casse, dopo che l’algoritmo dei server dello shopping mall digitale avrà calcolato la parte che entra invece nelle casse di Amazon. È la semplicità, facile a farsi. Chi darà qualche pensiero a Jeff Bezos, eletto da Time uomo dell’anno nel 1999, è invece lo strombazzato servizio di recensioni e commenti aperto a tutti.

 L’amara sorpresa del turco meccanico

Il servizio di commenti, gestito dalla stessa Amazon, è inizialmente chiamato Mechanical Turk, facendo riferimento a quel piccolo uomo nascosto dentro un automa nel Settecento per giocare a scacchi. A suo tempo era la simulazione di una possibile intelligenza artificiale, nel regno della Rete è l’espressione per indicare che dietro il software e il silicio c’è pur sempre una attività umana che fa la differenza. Anche qui, montagne di retorica sulla centralità degli umani rispetto alle macchine. Negli Stati Uniti, il Mechanical Turk è un’espressione di quel lavoro «trasparente» cioè non visibile a chi accede a un sito Internet, che coinvolge la gestione dei commenti, la definizione e relativa amministrazione delle tag apposte per individuare un argomento, un prodotto. È svolto, spesso, da lavoratori di piccole imprese o da free lancer ed è retribuito attraverso un sistema che ricorda il cottimo. Con quella propensione ad apporre etichette, negli Usa si parla di crowdworking, lavoro cioè svolto da folle anonime di lavoratori a salari di fame e esposti al continuo ricatto delle imprese o dai committenti. Un fenomeno in forte espansione, visto che per Mechanical Turk si intende anche l’«estrazione di dati sensibili» (il data mining) dagli enormi archivi dalle imprese globali. Estrazione e «raffinazione» rilevanti per definire strategie commerciali o per essere venduti a chi deve promuovere le proprie merci e servizi. E non è quindi un caso che il crowdworking sia il punto di partenza per definire nuove e efficaci strategie di sindacalizzazione per il lavoro digitale, che esso sia dipendente o indipendente (il lavoro autonomo di seconda e terza generazione sul quale hanno molto elaborato Sergio Bologna e Andrea Fumagalli).

 Per tornare ad Amazon, va ricordato che ha automatizzato radicalmente i suoi magazzini, dalla gestione delle scorte al trasporto dei materiali reperiti negli scaffali, alla tracciabilità dei pacchi confezionati e inviati per corriere, ma da subito sollecitato l’apporto di contenuti scritti da uomini e donne perché sono i consumatori che possono fare la fortuna di un libro, di un cd musicale o di un dvd.

Inizialmente, l’impresa garantisce sconti a chi compone recensioni e commenti, ma quando sale la protesta corre ai ripari. Per molti, quei testi scritti sono lavoro gratuito che andrebbe invece retribuito. Per tacitare i «contestatori», Amazon mette a punto una piattaforma per la gestione dei commenti, ma anche delle tag per individuare il prodotto corrispondente i commenti. Può essere attivata attraverso il sito Amazon web service e comporta la registrazione del singolo e la definizione del sistema di remunerazione per i compilatori di recensioni e commenti. Questo non significa che la società di Jeff Bezos non usi anche imprese esterne o lavoratori indipendenti, ma è «trasparente» che la gestione rimane centralizzata – eufemisticamente Amazon chiama l’interattività e queste fase iniziali del data mining come Human Intelligent Tasks.

Anche in questo caso, il divenire impresa globale di Amazon è strettamente intrecciato con lo sviluppo della Rete. La scelta di dichiarare espressamente che quello che era lavoro gratuito va comunque pagato sembra preservare Amazon da critiche. Sembra quindi che con la piattaforma messa a punto i guai siano finiti, ma per qualche malizioso il Mechanical Turk rimane sempre un esempio di appropriazione privata di un contenuto destinato ad essere comune, visto che molti dei commenti sono ancora scritti da consumatori singoli. Non manca chi annuncia class action per vedere riconosciuto il ruolo di free lancer e magari contrattare collettivamente i compensi per questa collaborazione. Minacce mai divenute realtà, sovrastate dal rumore di fondo di alcuni scandali: alcuni autori di libri o musicisti o registi, usando un anonimo nickname, hanno scritto recensioni entusiastiche delle proprie opere. Per i produttori di opinione pubblica significa che gli unici depositari della qualità di un’opera culturale sono loro e non i componenti di una folla che potrà anche esprimere un potere di condizionamento del mercato, ma non è certo la fonte che può stabilire il bello e il brutto, la qualità o l’irrilevanza estetica di un’opera. Poco interessati a questi rumori di fondo, i manager di Amazon continuano imperterriti per la loro strada, aprendo filiali in Europa, Asia, Canada, America Latina e consolidando così la leadership dell’azienda nel commercio on line.

La fedeltà prima di tutto

Jeff Bezos è infatti convinto di una necessaria diversificazione del business della sua impresa. Comincia a far produrre software, si muove cautamente nel campo della produzione televisiva e cinematografica per arrivare a proporre negli Usa un festival annuale di cortometraggi, divenuto nel tempo un importante appuntamento per film-maker affermati e per quelli che cercano visibilità presso le major hollywoodiane. Acquisisce il sito Internet Movie Database, una specie di Bibbia light per la consultazione sulla storia del cinema. Dà vita a Amazon Marketplace, sito per la vendita dell’usato che riesce quasi a scalzare dal podio eBay. E quando annusa, con quasi un anno di anticipo su altri, la crescita degli ebook, manda sul mercato Kindle, un lettore elettronico che garantisce schermi leggibilissimi e la possibilità di annotare commenti sul libro in lettura. Kindle è un successo, anche se la scelta di usare uno standard proprietario è fortemente criticata. Jeff Bezos è un pragmatico. Alla guerra di standard non è interessato. Il suo obiettivo è «fidelizzare» l’utente.

Un’altra caratteristica di Amazon è la riservatezza. Nulla a che vedere con la tutela della privacy. Su questo crinale rispetta le leggi dei paesi dove è presente, anche se l’attività di data mining non è sconosciuta nelle sue sedi. Le informazioni dei singoli sono catalogate ed elaborate costantemente, sia per promuovere prodotti consoni agli stili di vita dedotti dai consumi, sia per aggregarli per sofisticate strategie pubblicitarie. La riservatezza riguarda ciò che accade nei suoi stabilimenti. Nulla deve trapelare su come si svolge il flusso di lavoro e sul sistema integrato teso a automatizzare molte parti del lavoro. E riservate devono rimanere anche le regole che ogni dipendente deve seguire. Nell’articolo del New York Times ne vengono citate quattordici. Alcune riguardano appunto le relazioni gerarchiche, dove l’invito a proporre miglioramenti all’organizzazione del lavoro è evocato come un comandamento scolpito nelle tavole della Legge. Questo significa che chi lavora dentro Amazon deve usare la testa per sviluppare idee innovative. Anche qui niente di nuovo sotto i bit fluttuanti del capitalismo digitale. Innovare è quasi una religione, con i suoi precetti e le sue laiche ricompense, come accedere alle stock option e veder assicurata la copertura sanitaria, negli Usa, o vedere rinnovato il contratto di lavoro temporaneo nella vecchia Europa. Sulla riservatezza, ammantata della retorica della sicurezza, Amazon non scherza. Ne sanno qualcosa i lavoratori tedeschi che hanno vissuto l’esperienza di avere come vigilantes uomini reclutati tra le formazioni neonaziste. Quando è scoppiato lo scandalo, il sindacato tedesco Ver.Di non ha esitato a parlare degli stabilimenti Amazon come di lager. I vigilantes con la testa rasata sono stati ovviamente rimossi, perché Amazon è camaleontica: non ama molto la pubblicità, si adatta bene alle leggi nazionali, le rispetta, ma cerca sempre una falla per introdurre le sue regole. In Germania esistono contratti nazionali di lavoro ed è fissato un salario minimo. Amazon rispetta ciò, ma sono stati tuttavia gli stabilimenti di Lipsia e Bad Hersefld che per primi hanno conosciuto lo sciopero: sempre secondo il sindacato Ver.Di un lavoratore di Amazon ha un salario inferiore di alcune centinaia di euro rispetto a quelli di altri lavoratori del terziario. Il mimetismo dello shopping mall digitale è emerso anche in Francia, come ha documentato il giornalista Jean-Baptiste Malet nel suo libro En Amazonie (Kogoi Edizioni)amaro resoconto del suo periodo di lavoro dentro Amazon. Turni massacranti, alti ritmi di lavoro, mentre tutto è documentato dal rilevamento dei dati che il singolo deve comunicare attraverso dispositivi digitali. Tutto è standardizzato, parcellizzato, al punto che non sono pochi coloro che hanno qualificato Amazon come l’esempio calzante di un taylorismo digitale.

La coda lunga di Taylor

Il valore della denuncia delle condizioni di alienazione, di sfruttamento presenti nell’articolo del New York Times, ma anche del libro di Jean-Baptiste Manet, non sta quindi nell’evidenziare il lato oscuro di Amazon, bensì nel porre con forza la critica della logica che innerva il regime di accumulazione capitalistico contemporaneo dal punto di vista del lavoro vivo. In un caleidoscopio di figure lavorative, emergono i chain workers, i knoweledge workers, i professional, i migranti, gli operai industriali in una successione dove è possibile riscontrare ripetizioni e differenze di forma nel rapporto con il capitale. Ma sarebbe illusorio individuare nei chain workers la leva per una ricomposizione sociale del lavoro vivo. Così come condurrebbe in un vicolo cieco immaginare i knowledge workers come la figura che ha preso il posto dell’operaio-massa nel conflitto con il capitale. Né è molto convincente parlare di taylorismo digitale o di neotaylorismo in alternativa a un post-fordismo interpretato come evoluzione tecnico-organizzativa del processo lavorativo e non come diversa articolazione dei rapporti sociali di produzione che ha nella precarietà e nella deregolamentazione radicale dei rapporti di lavoro un fattore trainante e nella conoscenza ridotta a merce e a mezzo di produzione un carattere distintivo. Con pacato realismo la tendenza a standardizzare, omogenizzare e scomporre la prestazione lavorativa è una tendenza immanente al capitalismo sans phrase. Ma se con l’organizzazione scientifica questo consentiva l’esercizio di controllo sulla forza-lavoro, attualmente sono altre le strade percorse per consentire quel doppio movimento di appropriazione del plusvalore relativo e assoluto che Marx pensava momenti distinti, mentre ora sono contemporanei. In altri termini non c’è plusvalore relativo se non c’è plusvalore assoluto e viceversa. Questo significa allungamento della giornata lavorativa e intensità della produttività individuale come fattori non separabili l’uno dall’altro. Per far questo, più che Taylor i manager di Amazon hanno studiato l’organizzazione del lavoro della Toyota, il total quality management. In altri termini hanno fatto proprio e tradotto quello spirito Toyota che l’ingegner Taiichi Ohno aveva invocato proprio per superare, mantenendo saldo il controllo sul lavoro vivo, la parcellizzazione del lavoro applicata in gran parte della imprese capitalistiche nel lungo Novecento. E se alla Toyota per questo serviva gestione ottimale dei magazzini, riduzione dei tempi di consegna delle automobili e loro relativa personalizzazione, delegando ai team produttivi il controllo sulla qualità, in Amazon tutto questo è automatizzato. Ai lavoratori il compito di controllare che il sistema integrato non vada in tilt, riducendo al minimo le possibilità di errore nell’individuazione dei prodotti negli scaffali e nel loro packaging. Dunque, massima concentrazione e obbligo a proporre miglioramenti del processo lavorativo. Più o meno le stesse cose che accadono a molti altri chain workers, come è emerso negli scioperi statunitensi a WalMart, a McDonald’s o, a queste latitudini, nelle mobilitazioni dei facchini della logistica o nel recente sciopero a Ikea. Dal punto di vista dei chain workers, la dequalificazione e la standardizzazione delle operazioni da svolgere sono il fattore costitutivo del loro, lavoro, a fattori ai quali tuttavia sono da aggiungere a quella messa in campo della loro attitudine a innovare il processo organizzativo. Elemento comune però a quanto dove svolgere alle altre figure produttive che contribuiscono ad alimentare il bacino del lavoro vivo impegnato nella rete produttiva. Sia però chiaro che il termine innovazione non è sinonimo di creatività – caratteristica dell’individuo sociale difficile da definire – né di miglioramenti radicali. Per innovazione, si intende quella combinazione originale di fattori noti del processo lavorativo per migliorare il prodotto. Può essere, attingendo al lessico economico, incrementale, per apprendimento o esogena all’impresa, ma l’impresa deve ricondurla al suo controllo, anche se questo significa un’alternanza tra coercizione, cooptazione e coinvolgimento degli stessi consumatori. Per Amazon tutto questo significa riduzione dei costi e maggiore velocità nel packaging e nella consegna delle merci al consumatore finale. L’innovazione deve dunque investire l’insieme della rete produttiva. La società di Jeff Bezos deve quindi attivare i dispositivi di “cattura” affinché l’innovazione diventi fattore interno del suo operato

E sciopero sociale sia

La concentrazione dei dipendenti e la omogeneizzazione nella prestazione lavorativa dei chain workers si ripete senza grandi differenze. Uguale precarietà lavorativa, eguali bassi salari. Eguale l’invito alla fedeltà aziendale e all’innovazione. Eguale difficoltà nella diffusione delle mobilitazioni che contestano il regime di sfruttamento e ricatto. I conflitti sono sempre circoscritti e limitati e quasi mai riescono a rompere le barriere che circoscrivono la loro dimensione locale. L’assenza di una generalizzazione dei conflitti sul salario e sulle condizioni di lavoro non discende tuttavia da una «soggettività» politica inadeguata, bensì proprio dalle caratteristiche del lavoro vivo.

Nelle narrazioni dei chain workers emerge la costante di una distanza tra il lavoro svolto e l’autorappresentazione della propria identità. Il lavoro è considerato solo dal punto di vista del reddito, meglio del salario che garantisce, mentre l’accento è posto sulla vita esterna al lavoro. Consapevole è tuttavia la colonizzazione della vita sociale: il lavoro è un fantasma che incombe sulla vita quotidiana. La precarietà non è dunque relegata alla tipologia contrattuale, ma è espressione anche dell’arbitrio sulla propria vita che gli algoritmi del sistema integrato scandiscono attraverso le definizioni dei turni di lavoro e del grado di soddisfazione dell’impresa sul lavoro, spesso dequalificato e ripetitivo, svolto. L’esito, talvolta, è una sottrazione dei chain workers da quella colonizzazione della mente rappresentata dal lavoro. Sta in questa sottrazione dall’esercizio del potere sulla propria vita uno dei motori della crisi dell’etica del lavoro. Per i chain workers significa che il lavoro attiene al regno della necessità, dal quale affrancarsi investendo sulle attività extra-lavorative l’ambivalente pratica del riconoscimento sociale delle identità individuali. Sta su questo margine, su questa implosione dell’etica del lavoro una delle spiegazioni della difficoltà di generalizzare i conflitti dentro e contro il comando di impresa: si pratica il conflitto solo per quel che serve, in attesa di tempi e chances migliori. Eguale discorso, anche se segnato da specifiche differenze, vale per la condizione delle altre figure lavorative, le quali, indipendentemente dai nomi più o meno altisonanti che le qualificano, esprimono tutte la colonizzazione della vita da parte del lavoro. Da questo punto di vista la “fidelizzazione” dei lavoratori della conoscenza è uno degli obiettivi da parte del comando di impresa.

Il reportage del New York Times mette quindi in evidenza le pratiche del biopotere sulla vita esercitate dal comando di impresa. Ciò che il giornalista non dice, ma che è stato invece il tema ricorrente nel diluvio di commenti che sono seguiti sui media e in Rete, è il «che fare». Quesito eminentemente politico, come sempre. Tanto più cogente alla luce delle diversità delle figure lavorative. Ma se una lezione si deve trarre dalla polemica su Amazon, questa lezione riguarda la dimensione sociale delle forme di contestazione al comando di impresa. Per rompere, ad esempio, la dicotomia conflittuale tra consumatori e lavoratori; tra chain workes e «analisti simbolici». Ma anche per mettere in relazione tutti i nodi della rete produttiva, dai magazzinieri ai trasportatori ai gestori del sistema integrato di automazione. In tempi recenti, in Italia e non solo, è stato usato il termine coalizione per definire la necessità di una messa in comune delle proprie condizioni di lavoro e di sfruttamento. Al di là degli equivoci che il termine può alimentare – il maggiore è quello di alludere a soggettività e organizzazioni sociali già definite apriori, chiudendo così il campo dell’intervento – la coalizione pone al centro dell’attenzione il nodo che ancora rimane tale: la necessità di un processo costituente di una rete politica del lavoro sans phrase. In passato la cruna dell’ago da passare era lo sciopero. Oggi, per evitare che non rimanga circoscritto a un settore, deve avere la capacità di prospettare una riappropriazione del comune prodotto. E che sciopero sociale sia, dunque.

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