Pubblichiamo un’intervista a Cristina del collettivo Riff Raff di Pordenone sulla legge regionale per il sostegno al reddito e l’inserimento lavorativo approvata nel mese di luglio dalla Regione Friuli Venezia Giulia. Risulta chiaro dall’intervista che questa misura non conferisce il potere di sottrarsi al ricatto del lavoro. Al contrario, mentre amministra la povertà secondo un criterio apparentemente assistenzialistico che ne affida la gestione ai servizi sociali, essa la universalizza, trasformando i poveri in una stabile figura della precarietà da governare a livello regionale anche attraverso l’Agenzia regionale per il lavoro. L’intervista permette così di portare alla luce la simultanea trasformazione dei sistemi di welfare e della pubblica amministrazione, una trasformazione che moltiplica le gerarchie e produce un’ulteriore precarizzazione attraverso la coazione al lavoro. L’obiettivo sembra essere quello di stabilizzare, a tutto vantaggio delle imprese, un regime occupazionale che si basa sulla compressione dei salari e sulla massima disponibilità dei lavoratori. Benché una valutazione più puntuale di questa legge sarà possibile solo una volta che sia entrata a regime, ci sembra che le osservazioni di Cristina offrano già diversi spunti per ragionare su che cosa significa rivendicare il reddito nel momento in cui esso diviene una delle risposte istituzionali alla crisi.
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Puoi dirci qualcosa di più su questa legge? Quali sono i tempi della sua applicazione, a chi si rivolge, che cosa comporta?
La legge è già in vigore ma manca il regolamento attuativo che dovrebbe essere fatto entro due mesi dalla data di pubblicazione della legge, che è avvenuta lo scorso 10 luglio. Sarà poi necessario attivare gli uffici preposti alla gestione, quindi la partenza effettiva dovrebbe avvenire tra ottobre e novembre. Comunque entro l’anno, visto che la regione ha stanziato 10 milioni di € per il 2015, anche se non è chiaro come pensa di elargirli entro dicembre. Per quanto riguarda il suo funzionamento, in mancanza del regolamento la legge è ancora ambigua e ci sono diverse interpretazioni. Certamente, prevede che la maggior parte di coloro che beneficiano di questa misura di sostegno al reddito lavori, oppure segua dei corsi di formazione finalizzati all’inserimento lavorativo. Sembra però che il percorso non coinvolga solo chi ne fa richiesta, perché il «patto di inclusione» che è chiamato a sottoscrivere dovrebbe vincolare anche la sua famiglia al percorso concordato con gli assistenti sociali e l’Agenzia regionale per il lavoro. Quindi se io come capofamiglia firmo perché ho avuto dei disagi è possibile che anche i miei figli siano tenuti a seguire percorsi di formazione e anche gli altri membri della famiglia potrebbero essere obbligati a fare lavori socialmente utili o «di solidarietà». La cosa interessante da questo punto di vista è che nei dossier fatti dalla Regione per istruire la legge viene citata quella del Trentino, ma non la legge sul reddito promulgata nel 2009 dalla Regione Lazio, che prevede tra l’altro di concedere il reddito al singolo e non alla famiglia, e si basa sulla possibilità di rompere il ricatto del lavoro e di scegliere uno stile di vita diverso. Questa legge non è stata finanziata e ha i suoi limiti, ma se dobbiamo muoverci sul piano della legislazione possiamo allora notare che lo spirito della legge del Lazio è diverso da quello della legge nostrana.
Per quanto riguarda i criteri di accesso, la legge fa riferimento prima di tutto alla residenza. C’è una giurisprudenza che dice che per questo tipo di aiuti i due anni di residenza sul territorio sono la garanzia di una presenza stabile, quindi il criterio è che il richiedente sia residente da almeno 24 mesi. Più problematico è invece il tetto ISEE che deve essere pari o inferiore a 6000 €. Da questo dipendono anche i soldi che vengono elargiti mensilmente, perché il reddito è solo un’integrazione per superare la soglia di povertà. Va detto comunque che questa legge riuscirà a coinvolgere meno dell’1% della popolazione del territorio regionale, quindi questa misura rivoluzionaria coinvolgerà una parte irrisoria della popolazione e questo nonostante la povertà sia in crescita. In altre parole, non verranno nemmeno aiutati tutti quelli che potrebbero esserlo. Si creerà anche una gerarchia tra i poveri, e la regione sceglierà queste persone secondo una graduatoria che poi le permetterà di gestire la loro vita come meglio crede.
Bisogna poi pensare a tutte le persone che sono in cassa integrazione, ma che fino a ieri avevano un lavoro e quindi hanno vissuto un certo benessere, hanno la casa, la macchina, hanno goduto di un buon regime di vita con il loro salario. Perdendo il lavoro, queste persone sono entrate in una condizione di disagio e di necessità, questo disagio però non può essere registrato dai parametri ISEE. C’è stato anche chi ha proposto di aumentare il tetto ISEE a 8000 €, ma la proposta è stata respinta per mancanza di fondi, anche se questi sono aumentati da un originario stanziamento di 30 milioni a 52 milioni di euro per i primi tre anni di sperimentazione. La Giunta regionale sostiene che la legge sarà valutata in corso d’opera e che il regolamento potrà essere modificato, ma tutto è demandato a un futuro che è ovviamente molto vago. Non è chiaro per esempio se il richiedente avrà la possibilità di rifiutare un lavoro che gli viene offerto come accade ora con le misure per la disoccupazione. Nella legge c’è un riferimento al rispetto della professionalità delle persone ma anche su questo punto non c’è alcuna chiarezza. Se consideriamo l’imperativo a «riconvertirsi» a nuovi lavori per rispondere alla crisi che ha colpito tutti i settori, niente garantisce che venga rispettato il percorso formativo o professionale di ciascuno. In assenza di regolamento, in ogni caso, si può dire che chi ha appoggiato questa legge ha appoggiato qualcosa di vuoto, almeno per quanto riguarda il suo concreto funzionamento. Quanto allo spirito, questo è molto chiaro, si tratta di una misura che universalizza la povertà e sancisce il lavoro e la formazione coatti.
Come funziona questa legge sul piano della sua gestione amministrativa, quali sono gli uffici coinvolti a livello comunale, regionale o provinciale?
Una novità di questa legge è che mentre le leggi per il reddito fatte o solo promosse finora hanno avuto come centro focale l’Ufficio per il lavoro, la nostra Regione ha scelto come punto d’accesso per la richiesta del reddito gli assistenti sociali dei vari comuni e questo secondo me è un aspetto fondamentale. Senza considerare che il sistema di assistenza sociale è già al collasso e non si capisce come possa reggere questo nuovo onere, questa legge è in realtà un primo gradino per la risistemazione di tutto il sistema sociale regionale. La stessa assessore Telesca l’ha definita il primo passo per «sistemare» e «razionalizzare» – termini che in Italia significano tagliare – alcuni benefit, tra i primi il fondo di solidarietà e la carta famiglia. A questo punto nessuno può garantire il mantenimento dei fondi stanziati e le condizioni per l’accesso alle agevolazioni per le rette degli asili, per le mense e le tasse scolastiche, per le bollette, per l’affitto. Che questa legge sia gestita in prima battuta dal servizio sociale è una scelta politica: la legge considera le persone povere o i precari che non riescono ad avere una vita dignitosa non come persone che sono state espulse dal sistema produttivo a causa delle crisi, quindi per ragioni strutturali, ma come un problema sociale che rientra in un’altra statistica: non disoccupati, non inoccupati, ma poveri.
Accanto ai servizi sociali ci saranno poi le Agenzie regionali per il lavoro, visto che gli uffici provinciali sono stati aboliti assieme alla provincia di Pordenone. Se questo passaggio non ha peggiorato la situazione dei dipendenti pubblici coinvolti, che sono passati dalla provincia alla regione, non si può dire altrettanto per tutti quei contratti a termine e a progetto che non si sa che fine faranno. Per dirla con una battuta, il rischio è che chi oggi chiede il reddito faccia un colloquio con un operatore che domani sarà disoccupato e dovrà chiedere a sua volta di «beneficiare» di questa legge. Gli uffici regionali competenti lavoreranno in accordo con l’assistente sociale, ma il loro coinvolgimento non è chiaro, anche per quanto riguarda questo punto bisogna aspettare il regolamento.
Dicevi che chi beneficia del reddito sarà tenuto a svolgere «lavori socialmente utili». Che cosa si intende con questo e che tipo di effetti pensi che avrà più in generale sul mercato del lavoro?
Anche in questo caso, è tutto piuttosto oscuro e i lavori richiesti non sono affatto definiti, non è chiaro se si andrà a dare una mano a un anziano oppure si lavorerà in un museo o altro. Certamente il problema è che questi «lavori socialmente utili» negli anni hanno causato la chiusura di appalti e quindi si sono sostituiti a lavori che, per quanto precari, comunque erano regolati da un contratto e svolti in cambio di un salario. È sufficiente considerare gli effetti delle «borse lavoro» attivate negli scorsi anni dal comune di Pordenone. Anche in questo caso, a quelli che ottenevano il sussidio veniva richiesto di dimostrare di essere «volenterosi» e di mettersi al lavoro. Gli effetti di questa misura sono stati subito evidenti. Posso raccontare la mia esperienza diretta: io facevo per una ditta di pulizie la guardiania delle mostre e a un certo punto mi sono resa conto che alla stessa scrivania erano seduti i normali dipendenti comunali, chi come me era assunta presso una ditta appaltatrice al minimo di regime contrattuale, poi i beneficiari delle «borse lavoro» e infine gli studenti pagati coi voucher o con i crediti formativi. Chi ha perso il lavoro, ovviamente, sono stati i dipendenti delle ditte in appalto, gli unici accanto ai dipendenti comunali ad avere una qualche garanzia contrattuale. Il problema di una legge come questa, allora, è che potrebbe produrre povertà, facendo perdere il lavoro a chi prima ce l’aveva. Sembra quasi che sia la stessa regione a fare dumping sociale.
In che modo il privato e il terzo settore saranno coinvolti nella gestione di questa legge?
Anche questo aspetto è piuttosto fumoso. Per quanto riguarda il terzo settore bisogna capire che cosa intende la Regione per «lavori socialmente utili» o di «utilità per la comunità». Io potrei essere obbligato a prestare servizio anche in associazioni o in cooperative, ma non si capisce ancora bene come. I privati dovrebbero essere utilizzati soltanto per l’inserimento al lavoro e per la formazione. Anche qui si apre un capitolo rilevante. Va ricordato che il Friuli Venezia Giulia con una legge entrata in vigore nel 2001, intitolata «Disposizioni di semplificazione amministrativa per il contenimento della spesa pubblica» ha soppresso l’istruzione professionale regionale (Irfop). Da quel momento in poi la maggior parte della formazione è in mano ad aziende e società private, che attraverso la Regione attingono ai fondi europei per organizzare ogni tipo di corso. Se prendiamo come esempio il piano formativo regionale conclusosi nel 2013 e finanziato dal Fondo Sociale Europeo, si nota che una parte dei soldi stanziati è stata effettivamente utilizzata, un’altra parte no, probabilmente perché i corsi non raggiungevano il numero minimo di partecipanti per essere attivati. Nel momento in cui la legge appena approvata obbliga chi beneficia del reddito o un membro della sua famiglia a questi corsi di formazione, considerati misure di inclusione attiva, allora è certo che i corsi potranno raggiungere il numero minimo di partecipanti e partire, e questo significa che i «privati» riceveranno nuovi finanziamenti, si parla di cifre che vanno dai 2 ai 20 mila euro, ciascuno. In altri termini, il dubbio è che le aziende possano prendere dalla porta di servizio altri fondi. Senza parlare poi del contenuto dei corsi, molti dei quali sembrano completamente inutili. Una cosa poco chiara è invece il ruolo delle agenzie interinali, che per esempio hanno una parte in Garanzia giovani; secondo me avranno qualche ruolo in questo «sfruttamento di persone e risorse» perché anche loro, se non erro, organizzano piani formativi e di inserimento al lavoro.
Passando ad alcune valutazioni politiche più generali: chi è che ha sostenuto questa legge, al di là della forze politiche che hanno contribuito alla sua approvazione, e che ruolo hanno avuto i sindacati?
Da quel che mi risulta, i sindacati hanno partecipato ad alcune audizioni che ha fatto la Regione. Questa legge è stata fatta molto di fretta e anche questo distingue la presidente Serracchiani e la sua Giunta. Se ne parla poco, si lascia poco spazio alla discussione e poi si approva. I sindacati sono stati consultati – ovviamente solo CGIL CISL e UIL –, sono state ascoltate associazioni di assistenza come la Caritas, gli uffici di assistenza sociale del comune, ma non è stato ascoltato nessun sindacato di base né si è cercato in alcun modo di sentire i soggetti coinvolti, i precari e i disoccupati, ad esempio, se non attraverso i sindacati confederali che però non mi paiono particolarmente rappresentativi dei lavoratori intermittenti e del lavoro precario in generale. I sindacati non sembrano comunque aver sollevato obiezioni, anzi; almeno dalle dichiarazioni sui giornali; CGIL, CISL e UIL hanno dichiarato entusiasticamente che le loro richieste sono state accolte. Quindi evidentemente approvano l’impianto sostanziale della legge, che passa attraverso il lavoro, secondo il principio per cui non si ha niente se non si dà qualcosa in cambio. Sono contenti loro, è contento tutto il centro sinistra che ha riempito la Regione di cartelloni con il logo del PD, di SEL e della lista civica della presidente Serracchiani che sbandierano il successo con il motto «tutti ne parlano, noi l’abbiamo fatto». Tutto il centro sinistra, compreso il M5S che ha votato la legge, è contento di avere finalmente messo in atto una misura sul reddito, anche se non stiamo parlando di «reddito di cittadinanza» ma di «misure di inclusione attiva e di sostegno al reddito». Forza Italia dal canto suo è contraria, la sua proposta è quella di un «reddito d’onore», ovvero di offrire un sostegno monetario che il beneficiario avrebbe dovuto restituire una volta trovato un lavoro. Al peggio non c’è mai un limite!
Voi avete invece organizzato un presidio informativo il 24 luglio. Qual è il messaggio che avete mandato e qual è il punto sul quale secondo voi è necessario insistere?
Nel corso del presidio abbiamo sostenuto tre concetti fondamentali. In primo luogo, che non si può negare a nessuno il diritto alla scelta, perché questa legge di fatto nega la volontarietà, bisogna per forza accettare un percorso, all’interno di schemi istituzionali, vincolando al contempo tutto il nucleo familiare. Si tratta solo di un ricatto. Se vuoi questi 550 € – che poi sono al massimo 550 €, perché possono essere anche molti di meno – sei «obbligato» a «condividere» un percorso. Legato a questo c’è il secondo punto, cioè che ai padroni vengono dati non certo 52 milioni di euro – cioè i fondi che sono stati stanziati per il primo triennio di applicazione di questa legge – ma 500 milioni di euro senza chiedere nulla in cambio. Ci sono solo regole per accedere alle graduatorie e ai finanziamenti, ma non c’è scritto da nessuna parte che le aziende «devono» garantire i posti di lavoro o devono aumentare l’occupazione, quindi mentre ai padroni vengono dati soldi senza condizioni, alle persone precarie o a quelli che si trovano in una situazione di disagio, ai «poveri» come li chiamano loro, agli «sfruttati» come sono in realtà, non solo verranno dati pochi soldi, ma verranno dati anche in cambio di lavoro. La terza cosa che abbiamo sostenuto è la nostra proposta, quella di avere un reddito di esistenza incondizionato e universale che possa finalmente dare la possibilità di creare dei percorsi diversi di vita e di scelta. Ci siamo in parte richiamati ai principi del reddito minimo garantito per tutti, articolati dal BIN. In ogni caso, questa legge regionale dovrebbe innescare un discorso a livello italiano sulla questione del reddito, che cosa intendiamo noi, che cosa vogliamo rivendicare. Al di là dell’attenzione che in generale è minima, non c’è un movimento che sembra essere in grado di rispondere puntualmente alle implicazioni politiche di una legge come questa. Il problema sta anche nella disomogeneità, il fatto che queste leggi vengano approvate a livello regionale e non nazionale. Aprire un dibattito serio secondo noi è importante per creare un movimento effettivo, non solo per dire che siamo contro questo tipo di leggi ma sopratutto qual è la nostra alternativa, e su questo siamo carenti, anche se qualche spiraglio si sta aprendo grazie a movimenti di rivendicazione e lotta come lo Sciopero Sociale.