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Intendiamo contribuire al dibattito aperto da Plan C e Angry Workers perché lo riteniamo particolarmente importante in vista del meeting verso uno sciopero sociale transnazionale che si terrà a Poznan il prossimo ottobre. Di questo dibattito, compreso il più recente commento di Australian Left, condividiamo pienamente la necessità di un’analisi politica che metta sul piatto con onestà i problemi effettivi delle lotte e della loro organizzazione, e quindi l’urgenza di un discorso all’altezza di queste sfide. Non costruiremo perciò il nostro intervento su tutti i punti sollevati finora, ma ci concentreremo su alcuni nodi che ci paiono particolarmente importanti: qual è il problema dello sciopero sociale? Come pensare il rapporto tra le lotte nei singoli posti di lavoro e l’organizzazione transnazionale dei movimenti? Come affrontare il problema dell’espansività delle lotte e del rapporto tra le condizioni contemporanee del lavoro e la sua dimensione sociale?
Messo accanto alla parola «sciopero», l’aggettivo «sociale» cerca di rispondere al problema dell’organizzazione e dell’accumulazione di forza in un’epoca segnata da trasformazioni radicali dei rapporti di lavoro. Negli ultimi decenni, queste trasformazioni sono state descritte come la fine del regime di fabbrica e del lavoro operaio – spesso considerato la reliquia di un passato fordista ormai dimenticato – oppure come l’estensione della fabbrica all’intera società. Mentre cerca di afferrare cambiamenti concreti e di lungo periodo, questa lettura corre parallela al tentativo capitalistico di nascondere il lavoro operaio, relegandolo in quelle che sono state considerate le «periferie» del globo in Europa, in Asia o nelle Americhe, per dichiararne il carattere numericamente e politicamente residuale. Affermare che tutta la vita è messa al lavoro, indicare una situazione talmente generalizzata da diventare universale, rischia perciò di intrappolare in questo incanto metropolitano del capitale anche quelle sezioni del movimento che in Europa si pongono il problema di rimettere al centro della propria iniziativa il lavoro e lo sciopero. Per evitare questo rischio, e con esso quello di assecondare l’imperativo neoliberale all’individualizzazione e all’autoimprenditorialità, non è però sufficiente ridurre la nostra iniziativa al rovescio di quella del capitale. Non basta dichiarare la centralità politica del lavoro operaio, nonostante la sua presenza numericamente rilevante e la sua importanza indiscussa in ampie zone del pianeta. Non è neppure sufficiente dare visibilità al lavoro precario, come se questo fosse solo una parte del lavoro al quale garantire rappresentanza attraverso identità politico-sindacali che hanno già chiaramente dimostrato i loro limiti. È invece necessario riconoscere che, più o meno lontani dalle fabbriche, sono sorti centinaia di altri luoghi i quali, pur non avendo direttamente a che fare con la produzione materiale, non solo la rendono possibile, ma soprattutto replicano le sue modalità e l’intensità dello sfruttamento. Piuttosto che discutere della scomparsa del regime di fabbrica, allora, ci sembra necessario pensare a come esso si è trasformato, a quale logica sociale risponde, in che modo la fabbrica è direttamente connessa ad altri luoghi di lavoro.
Capire come si è trasformato il comando complessivo imposto sulla forza lavoro è essenziale a capire quale possa essere il soggetto dello sciopero sociale transnazionale. La nostra domanda può quindi essere formulata come segue: che rapporto c’è tra fabbrica e cooperazione sociale? Se la fabbrica non è più la forma esclusiva del comando capitalistico, quale scambio e quale scontro si dà tra le norme della fabbrica e le norme della cooperazione sociale, una volta che la società non ambisce più a risarcire la condizione operaia perché è stata irrimediabilmente cancellata la dimensione sociale dello Stato? Tra cooperazione sociale e lavoro c’è un conflitto latente, una crepa che non è immediatamente lo spazio dell’azione politica, ma che i movimenti hanno il compito di individuare e trasformare nella possibilità di quell’azione.
Partiamo allora da un assunto: non esiste alcuna identità tra fabbrica e cooperazione sociale che possa risolvere il problema dell’organizzazione dentro e contro la catena globale dello sfruttamento. Con una formula forse troppo semplice si potrebbe dire che non è la fabbrica a essersi estesa alla società, ma viceversa è la società che è entrata in fabbrica spazzando via il mito della sua immediata omogeneità interna. Persino nel punto più alto del «passato fordista», la cooperazione necessaria alla valorizzazione del capitale non è stata garantita semplicemente dal comando assoluto e autonomo della fabbrica e non è stata confinata al posto di lavoro, ma è stata supportata dall’esistenza di un piano universale di mediazione, ovvero dalla garanzia di un risarcimento «sociale» dello sfruttamento attraverso la concessione diritti legati al lavoro. Ben lungi dall’essere un luogo omogeneo di organizzazione del lavoro e della cooperazione, la fabbrica è oggi trasformata dal venir meno della società intesa come ricomposizione e mediazione di rapporti di potere. Ora il capitale impone il suo comando producendo individualizzazione e segmentazione dei rapporti sociali dentro e fuori il lavoro. La dimensione «sociale» del lavoro si traduce perciò in una privazione di diritti e prestazioni sociali e in una produzione di gerarchie tra gli individui al lavoro che si dispiegano su scala transnazionale. Dire che la società entra in fabbrica, allora, significa dire che i rapporti sociali sono disarticolati in segmenti che si trovano l’uno accanto all’altro e sottoposti direttamente al dominio del capitale, che non viene più neutralizzato né compensato, seppur parzialmente, come in passato. Dire che la società entra in fabbrica significa rilevare che la condizione sociale dell’individuo non è esaurita dall’essere lavoratore, sia perché gli individui hanno sempre meno un legame costante con un singolo luogo di lavoro, sia perché la posizione che ciascuno ricopre di fronte al ricatto del salario non è misurata su un insieme di diritti e doveri in teoria uguali per tutti, ma su una scala differenziale di prestazioni, benefici e sacrifici. Dal punto di vista organizzativo e politico, dire che la società entra in fabbrica significa che non esistono di fatto processi di comunicazione, dentro e fuori la fabbrica, che possano essere semplicemente rovesciati nel segno dell’insubordinazione. Il «sociale» non è più immediatamente terreno di connessione tra gli individui messi al lavoro, sia perché la cooperazione è l’effetto di una segmentazione che entra nella fabbrica imponendosi come dominio, sia perché l’assenza del welfare State e le condizioni politiche dello sfruttamento rendono sempre più difficile individuare rivendicazioni e terreni comuni di lotta. E questo è tanto più vero, quanto più ogni eventuale beneficio sociale è ancora erogato a livello nazionale, mentre l’organizzazione della produzione si dispiega su scala transnazionale.
Bisogna allora chiedersi che cosa s’intende per «catena globale dello sfruttamento». Non si tratta semplicemente di registrare le trasformazioni causate dai processi di esternalizzazione e quindi di prendere atto del modo in cui una sola merce è prodotta lungo una filiera che va dall’Europa al vicino ed estremo oriente e ritorno. Le connessioni globali dello sfruttamento lanciano la sfida di costruire connessioni altrettanto costanti tra spazi lavorativi che, pur essendo anelli della stessa catena, non sono in comunicazione tra loro e non hanno nell’immediato il potere di romperla. Per rispondere a questa sfida è importante comprendere la funzione di quella che chiamiamo la «nuova logistica europea», che non coincide con le infrastrutture che supportano la distribuzione di materie prime e di merci su scala continentale, ma con una specifica modalità di organizzare il comando e la cooperazione a partire dalla segmentazione e dalla divisione. Di conseguenza, non si tratta soltanto di individuare nodi strategici nei quali lo sciopero come blocco della distribuzione possa tradursi in un’efficace interruzione di segmenti più o meno ampi della produzione, ma domandarsi come sia possibile trasformare le connessioni globali dello sfruttamento in una comunicazione costante e sistematica tra quei segmenti. Altrettanto importante è pensare al rapporto fra produzione e riproduzione sociale, soprattutto nel momento in cui quest’ultima riscrive la tradizionale divisione sessuale del lavoro all’interno del nuovo regime della mobilità dando vita a nuove catene globali dello sfruttamento.
Pensare il rapporto tra la fabbrica e la cooperazione sociale permette allora di portare alla luce la fabbrica nascosta e di mostrare politicamente che cosa la fabbrica nasconde. L’aggettivo «sociale» deve riferirsi all’organizzazione politica dello sciopero. Si tratta cioè di costruire una comunicazione politica tra i luoghi di lavoro e della cooperazione sociale riconoscendo che il comando capitalistico che si esprime attraverso il salario agisce su scala transnazionale, che esso produce i suoi effetti dentro e fuori i luoghi di lavoro e li rende funzionali l’uno all’altro. Se il comando capitalistico si impone disarticolando il legame sociale, il fatto che i lavoratori siano concentrati all’interno di uno stesso luogo di lavoro non è sufficiente a far sì che il lavoro operaio si riconosca autonomamente come nucleo centrale della classe.
In questo quadro, il problema dello sciopero sociale transnazionale non può risolversi in una divisione del lavoro in virtù della quale i movimenti diventano il supplemento sociale di forme tradizionali di sciopero organizzate dai sindacati. Ciò significherebbe riprodurre una separazione tra fabbrica e cooperazione sociale che dà per scontata sia la capacità dei sindacati di produrre l’organizzazione del lavoro, sia la capacità dei movimenti di sottrarre la cooperazione sociale al comando del capitale, offrendo un tessuto di connessione a ciò che altrimenti è sconnesso. Dal lato dell’iniziativa sindacale, è invece sempre più evidente che anche le vertenze più radicali e di successo, come quelle nel settore della logistica in Italia, rischiano di risolversi in conquiste limitate e parziali, proprio perché confinate a un singolo settore produttivo, a una singola categoria di lavoratori, a una singola impresa, a un singolo contesto nazionale. Il carattere globale dello sfruttamento neutralizza costantemente gli esiti delle vertenze locali, mettendone drammaticamente in evidenza i limiti. Il problema non è solo la pigrizia politica di chi considera le lotte che capitano nel suo cortile di casa come le uniche rilevanti. Anche quando sono vittoriose, le vertenze locali non assumono un carattere esemplare e faticano ancor di più ad avere un significato simbolico riconosciuto, quindi una capacità espansiva. Allo stesso tempo, la solidarietà offerta dai movimenti alle lotte sul lavoro non risolve il problema della loro politicizzazione, perché si scontra con il limite dell’allargamento e deve essere ripensata alla luce del rapporto tra l’interno e l’esterno dei luoghi di lavoro. L’iniziativa locale, mutualistica e comunitaria, deve fare i conti con una società che si configura globalmente come assenza di legame. Al di là della funzione che le strutture mutualistiche possono avere in caso di scioperi di successo, parlare di «socializzazione della società» significa sottovalutare il fatto che, mentre si dà in termini di individualizzazione e isolamento, l’idea della società come possibile luogo di composizione degli interessi rafforza l’illusione di una cooperazione sociale di per sé svincolata dal dominio e dal ricatto che la legano alla produzione. Così, si rischia di indicare la via di una ricomposizione che, invece di fare i conti con le contraddizioni esistenti, tende a escluderle per costruire la propria omogeneità interna e difficilmente esce dai confini dell’attivismo esistente.
Una «ricomposizione di classe» che immagini la classe operaia come un soggetto unitario e omogeneo non è un progetto praticabile oggi. La classe operaia è una moltitudine attraversata da differenze che sono strategicamente rilevanti per aggredire punti cruciali delle catene globali dello sfruttamento. Lo sciopero sociale transnazionale dovrebbe allora muoversi simultaneamente in due direzioni, capaci di fare valere politicamente tanto i caratteri generali del lavoro contemporaneo, quanto le differenze che lo attraversano fuori e dentro la fabbrica, fuori e dentro i luoghi di lavoro. Mobilità e precarietà ci sembrano i caratteri generali a partire dai quali pensare l’organizzazione su una scala realmente transnazionale. Mobilità e precarietà sono simultaneamente l’effetto delle politiche dell’Europa e dei suoi Stati e ciò che queste politiche non riescono mai a governare fino in fondo, al punto da doversi imporre con violenza per realizzare un comando efficace sui movimenti del lavoro. Tuttavia, per creare materialmente uno spazio condiviso dove i limiti del comando capitalistico possano essere evidenziati e dove l’isolamento possa essere rotto da una comunicazione capace di produrre mobilitazione espansiva e continua, è necessario far valere politicamente le differenze che attraversano il lavoro contemporaneo.
In questa direzione ci sembra strategicamente rilevante l’individuazione di rivendicazioni condivise. Esse non costituiscono di per sé una soluzione, né risolvono il rapporto con le istituzioni, benché possano forzarne i limiti. L’individuazione di rivendicazioni condivise va considerata come una possibilità di produrre comunicazione politica e organizzazione attraverso i confini, di creare una connessione tra segmenti altrimenti separati dal dominio del capitale. Parlare di salario minimo europeo significa stabilire un rapporto tra le lotte sui posti di lavoro capace di aggredire il comando capitalistico lungo le catene globali dello sfruttamento in ogni singolo punto. Significa trovare un collegamento politico sistematico tra il lavoro operaio e le molteplici figure del lavoro precario che si dispiegano lungo una medesima filiera. Significa superare i limiti che la contrattazione collettiva nazionale ormai incontra ovunque, rilanciando lo scontro su un livello più alto. Parlare di reddito minimo e welfare europei significa riconoscere il modo in cui la società è entrata nella fabbrica, riconquistare quote di potere sociale contro la segmentazione e l’impoverimento del lavoro, a partire dal rapporto indissolubile tra la precarietà nel lavoro, quindi il salario, e le trasformazioni contemporanee del welfare. Parlare di un permesso di soggiorno minimo europeo per tutti i migranti significa infine assumere i movimenti del lavoro vivo come elemento di forza e non più solo di debolezza, riconquistando la possibilità pratica di sottrarsi ai regimi di globali dello sfruttamento e del governo della mobilità.
Queste rivendicazioni non possono essere separate l’una dall’altra e non possono essere considerate prerogativa di questo o quel segmento del lavoro. Piuttosto, è il loro rapporto ciò che dovrebbe permetterci di innescare una comunicazione politica efficace attraverso i confini delle categorie, dei luoghi di lavoro, degli Stati. Queste rivendicazioni possono costituire il terreno di una connessione reale tra precarie, migranti e operai e offrire gli strumenti per una politicizzazione dello sciopero sociale su scala continentale. Affermare il carattere europeo di queste rivendicazioni significa aggredire le condizioni politiche dello sfruttamento al livello delle istituzioni europee, sottraendo le lotte a un orizzonte esclusivamente nazionale che, come dimostra la vicenda greca, rischia di essere continuamente schiacciato dal comando finanziario dell’Unione.
Per tutte queste ragioni è per noi fondamentale che l’assemblea verso lo sciopero sociale transnazionale si svolga a Poznan: la scelta conferisce centralità a un luogo che il comando del capitale pretende politicamente periferico. La nostra scommessa è invece quella di rovesciare questa pretesa, indicando quei luoghi strategici lungo le catene globali dello sfruttamento dove sono più evidenti gli effetti dell’irruzione della società in fabbrica. Dove, in altri termini, all’intreccio tra regime del salario, governo della mobilità e segmentazione del legame sociale si rende più evidente la posta in gioco globale della nostra iniziativa.