giovedì , 21 Novembre 2024

L’estate del nostro sconcerto. La Grecia, l’Europa e le lotte transnazionali

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Questo non è un colpo di Stato. Senza dubbio c’è stata un’imposizione di fatto unilaterale che ha completamente ignorato e quindi cancellato ogni traccia del referendum greco. Bisogna però anche dire che lo Stato da colpire non c’era più da tempo: dissolto dalla pressione del debito, con una sovranità impossibile, con un 1/3 del suo popolo che vive al di fuori di un territorio nazionale spesso controllato da capitali provenienti da altri Stati. Non possiamo quindi accontentarci della lettura golpista dell’Editto di Bruxelles. Farlo vorrebbe dire continuare a coltivare l’illusione che ha contagiato non pochi, anche alle nostre latitudini politiche, che hanno interpretato il referendum dell’OXI come la rivincita della democrazia contro la finanza transnazionale. Così come hanno visto nel referendum l’atto di un popolo finalmente tornato sovrano contro le angherie della governance finanziaria europea, ora vedono l’Europa che si accanisce contro i popoli. Questa fede nel potere dei popoli potrebbe perfino avere contenuti edificanti, se almeno tenesse conto che quel potere si è smaterializzato di fronte alle feroci imposizioni dettate dall’accordo tra i leader europei e Tsipras, e se non finisse per sorvolare sul fatto che la democrazia, la sovranità e il suo popolo sono parte del problema e non la soluzione. D’altra parte anche in Grecia in queste ore qualcuno si azzarda a osservare che sono soprattutto centinaia di migliaia di precari a essere stati sacrificati sull’altare di quel che resta dello Stato greco e del suo popolo.

La totale impermeabilità dell’Eurogruppo alle proposte avanzate dalla Grecia è stata evidente fin dal principio. Con ostinata coerenza la posizione di Schäuble & Co. è rimasta immutata anche dopo il referendum. Il comando finanziario dell’Europa si è fatto beffe del regime democratico che la volontà sovrana del popolo greco avrebbe dovuto riattivare. Governance finanziaria coniugata a Sovranità e Democrazia della zona euro: ecco la formula perfetta del coup, qualunque sia il destino riservato a Tsipras. Il valore del referendum poggiava invece sulla critica pratica alla democrazia del debito, una forma di governo «tipicamente europea», grazie alla sua capacità di far coesistere il sistema nazionale della rappresentanza democratica con le istituzioni transnazionali. Il debito è ciò che ha reso e rende possibile questa alchimia tra l’Europa e i suoi Stati, tra una sovranità evanescente e intermittente e la sua negazione. I meccanismi materiali che riproducono in continuazione questa costituzione europea sono il regime del salario e il governo della mobilità. Il significato dell’OXI del 5 luglio non poteva dunque essere confinato alla presa di posizione del 61% dei greci, perché poneva a una moltitudine infinita un quesito fino ad allora inammissibile: «ma allora è possibile? Possiamo liberarci della tirannia del debito e delle sue ancelle?». Una domanda più scomoda per le colombe socialdemocratiche che per i falchi liberali, per Hollande più che per Merkel, sicché non ci sembra più il caso di indugiare nella germanofobia di questi giorni. È vero che c’è una memoria della paura che si riattiva di fronte alla possibilità che per la terza volta nel giro di un secolo la Germania possa tentare di imporre un suo ordine in Europa. Eppure la situazione non è questa. Non siamo di fronte alla vendetta di una singola classe dirigente. Non siamo di fronte alla forza assoluta di un’economia nazionale, ma a un’economia che occupa una posizione strategica all’interno delle catene globali della produzione che attraversano la nuova logistica europea. La Germania non è uno scandalo in quanto potenza egemone in Europa, ma perché agendo come Stato legittima una costituzione europea nella quale gli Stati funzionano come costante supplemento repressivo della democrazia del debito. La Germania è uno scandalo perché impedisce all’Europa di prendere commiato dal suo passato nazional-statale. Siamo di fronte al paradosso di un Editto che, deciso da un paio di governanti, dovrà essere votato dal parlamento greco e dai parlamenti di altri sette Stati che non avrebbero obiettato nulla alla Grexit. Questa è l’Europa politica.

Di fronte a questa Europa politica, non possiamo che prendere atto di una sconfitta. E non basta dire che l’Europa è finita, perché i suoi valori costitutivi di solidarietà sono stati smarriti in una lunga notte belga. Non è vero che da domani la sfida sarà quella di sottrarsi al quadro europeo rincorrendo a disdicevoli chimere sovraniste e nazionalizzatrici, se non nazionaliste. In una notte lunga e piena di terrori è in realtà venuta alla luce un’Europa del capitale finanziario grondante sangue e sporcizia da tutti i pori. Essa si è rivelata per quello che è, ma lo ha fatto affermando una capacità di comando per certi versi sorprendente. Eccola l’Europa politica che i socialdemocratici di tutto il mondo uniti hanno vagheggiato per calmierare gli eccessi di un’Europa intesa semplicemente come unione monetaria. Non è d’altronde un segreto che il crisis-management sia uno degli elementi centrali di ogni buona governance e che nei fatti ne sia il fattore costitutivo. Al netto delle tensioni e delle contrapposizioni che l’azzardo di SYRIZA ha prodotto nel contesto europeo, la compattezza dimostrata dall’EuroSummit palesa la coerenza di un progetto politico che, mentre  punisce il dissidente infido e irresponsabile, dà vita a meccanismi di governo del capitalismo che si integrano nella costituzione europea e ne innovano le pratiche. Laddove si è dato, lo scontro mortale non è stato sui dettagli dell’accordo e sul suo carattere di adesione al programma neoliberista, ma sulla possibilità di radicalizzare il carattere mobile dello spazio europeo e, dunque, sulla Grexit inseguita dal falco Schäuble. Di fronte a questa prospettiva, lo spettro del disfacimento ha preso il sopravvento. Una volta presa la grande decisione di rifiutare la Grexit, tuttavia, l’orgia notturna nella quale, come riportano le indiscrezioni, Tsipras è stato «crocifisso» ha avuto al massimo, in segno di opposizione, qualche sguardo abbassato. Da ieri l’Europa ha una best-practice per trattare con i paesi recalcitranti, un metodo «tipicamente europeo», per citare le parole del noto fiscalista Juncker.

Ma è davvero tutta forza quella che appare? Davvero questa Europa è il monolite che la notte belga ha preteso di rappresentare davanti al mondo? In realtà in quella notte si è mostrato in tutta evidenza il vero e proprio terrore di fronte alla possibilità che qualcuno si sottragga alla presa del debito. Il non riuscire a trovare alcuna mediazione, il riproporre senza variazioni una ricetta vecchia di cinque anni destinata irrimediabilmente a fallire, il presentarsi con una faccia impresentabile, tutti questi sono davvero atti di forza? Noi avanziamo l’ipotesi politica che questa apparente prova di forza sia in realtà piena di incertezza. Noi pensiamo che proprio in questa situazione si possa incidere nella dura crosta della costituzione europea. Proprio per questo possiamo porci l’unica domanda che ci interessa.

E noi? Che cosa ci rimane oltre alla delusione con cui, come è noto, non si ottiene granché? Dopo l’Editto di Bruxelles cosa ne è dei precari, operai e migranti che hanno guardato con speranza alle urne greche? Che cosa ne è della moltitudine dell’OXI? Tsipras promette che farà pagare i costi dell’accordo a chi ha contribuito alla crisi e ci ha speculato sopra. Eppure, c’è la sua firma in calce a un documento che prevede riforma delle pensioni, rimodulazione dell’Iva, riforma del mercato del lavoro, abolizione della contrattazione collettiva e introduzione dei licenziamenti collettivi, oltre a un pacchetto smisurato di privatizzazioni e liberalizzazioni. Ecco il «catalogo delle atrocità» previsto dall’Editto di Bruxelles. L’austerità dopo l’austerità, l’austerità che produce se stessa grazie all’austerità. Con una domanda che rimbomba: ma se non ha funzionato prima, perché dovrebbe servire adesso? E d’altra parte non è nemmeno certo che queste misure vengano infine approvate.

Non ci interessa nemmeno pontificare sulla dannazione o sulla beatificazione di Tsipras. L’alternativa era in ogni caso una Grexit che, in queste condizioni, di autonomo non avrebbe avuto nemmeno la facciata. E poi, siamo così sicuri che una presunta liberazione dal giogo europeo avrebbe spalancato le porte a un benessere ottenuto a suon di nazionalizzazioni? È una questione che, in una situazione che non preludeva a imminenti insurrezioni, poteva davvero essere posta? Lasciamo volentieri la diatriba a chi ha pensato che la Grecia fosse l’anello debole della catena e ora, invece di registrare che quella catena si è stretta senza apparenti problemi, lamenta che non si sia osato rompere l’anello. Per noi, oggi, la questione centrale è: quale può essere la politica della moltitudine dopo l’Editto di Bruxelles? In Italia abbiamo già sperimentato che cosa quelle misure comportano, sebbene non con quella progressione accelerata che i diktat di Bruxelles impongono e con un commissariamento molto più soft. Crescente impoverimento e progressivo assoggettamento dei governati all’Europa del capitale finanziario: questo è il destino che tocca in sorte agli operai, precarie e migranti che rendono impossibile parlare di un popolo greco, dopo aver toccato gli altri proletari d’Europa. Se la rassegnazione alla verità del debito è il fondamento ideologico dell’attuale costituzione europea, noi non ci rassegneremo.

Lo spazio europeo rimane il quadro minimo di un’azione di classe transnazionale perché è questa la scala minima del potere che dobbiamo contrastare. Il punto è capire come quel quadro è stato modificato prima dall’OXI della moltitudine e poi dalla sua sconfitta. In altri termini, il punto è capire come su quel destino che si vuole irreversibile possa tornare ad agire quel nesso instabile e precario tra l’opposizione al comando finanziario e la sua espressione politica in grado di arrivare a investire anche il piano istituzionale. Con l’Editto di Bruxelles non è finita la storia. È iniziata una nuova fase, in cui la dialettica tra riforma e rivoluzione, sia pure aggiornata all’anno 2015, coglie solo un pezzo del problema e non indica una soluzione. Noi per la prima volta abbiamo assistito a uno scossone dentro al processo di istituzionalizzazione della democrazia del debito. Il problema che abbiamo davanti è: con quali forze e con quali discorsi affronteremo il prossimo scossone, la prossima crepa che si aprirà nel governo del capitale finanziario europeo finalmente dispiegato? L’entusiasmo suscitato dal risultato del referendum greco, il senso della possibilità di un riscatto che esso ha sorprendentemente indicato non risolve il problema della capacità realmente esistente di trasformare l’entusiasmo in iniziativa politica. Forse oggi sembra che l’occasione dell’OXI sia andata irrimediabilmente perduta. A noi pare invece che essa abbia indicato chiaramente una linea che ora è necessario seguire e approfondire. Il no deve necessariamente assumere ora una forma transnazionale, perché questa ci sembra l’unica via per disattivare la duplice trappola di una democrazia del debito e di una sovranità a doppio taglio. Assumiamo il problema democratico come un nostro problema, così come ci poniamo il problema dell’ascesa delle forze nazionaliste e xenofobe, ma non pensiamo che, di fronte al dispiegamento di politiche che producono ricchezza da un lato e precarizzazione, impoverimento e insicurezza dall’altro, questi problemi si possano risolvere con facili formule. C’è invece una scommessa difficile che molti in Europa stanno già facendo. Scommettere sullo sciopero transnazionale significa per noi costruire quella trama organizzativa di connessioni che ci permetta di essere pronti ad affrontare il prossimo scossone. Lo sciopero transnazionale è l’azione che può anticipare e completare ciò che potrebbe accadere in Spagna e ciò che improvvisamente può accadere in ogni parte d’Europa. Significa affrontare il comando dell’Europa ponendosi il problema del potere, in cui non dover più subire le scelte altrui. SYRIZA ha portato l’esasperazione nei vertici europei. Quell’esasperazione che noi, precari, migranti e operai, conosciamo bene. È tempo ormai di costruire le condizioni per rovesciare sull’Europa il nostro attuale sconcertoun no transnazionale carico di stupore.

 

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