domenica , 24 Novembre 2024

5 luglio: come la moltitudine ha bloccato un colpo di Stato post-moderno in Europa

di MICHALIS BARTSIDIS – AKIS GAVRIILIDIS – SOFIA LALOPOULOU

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MoltitudineIl fatto che domenica scorsa il «No» abbia ottenuto una maggioranza schiacciante nel referendum in Grecia è ben noto a tutti. Le osservazioni, le conclusioni, gli argomenti, le possibili conseguenze che possono essere tratte da questo evento sono praticamente infinite. Con questo testo, necessariamente breve, ci interessa però trasmettere un elemento semplice, al quale non è stato dato spazio sufficiente nei resoconti mainstream e che per noi è importante almeno quanto il risultato stesso del voto. La scorsa settimana in Grecia si è assistito alla rottura del silenzio – durato quasi tre anni – delle masse e al loro ritorno in primo piano nell’arena delle mobilitazioni sociali e politiche. Tutto questo è accaduto in poco più di quattro giorni.

La sera del 29 giugno, due soli giorni dopo l’annuncio del referendum da parte di Tsipras, emergeva un’immagine della società greca segnata dal silenzio, dalla paura e dalla confusione. Questi aspetti sono stati accentuati e continuamente ritrasmessi dai mezzi di comunicazione di massa. Molti dei funzionari e degli intellettuali legati a SYRIZA sembravano condividere questo imbarazzo e sembrava che alcuni di loro – ministri inclusi – prefigurassero la caduta del governo e si preparassero ad abbandonare la nave. In effetti, non è un segreto che tanto in Grecia quanto all’estero ci siano stati sforzi coordinati per trovare una via semi-legale per liberarsi del governo.

In questo clima, sono stati organizzati un raduno e un concerto in piazza Syntagma a sostegno del «No». La partecipazione è stata mediocre, caratterizzata principalmente dalla presenza di membri «duri a morire» della «Piattaforma di Sinistra» di SYRIZA, trotzkisti e altri soliti sospetti. Poco prima di mezzanotte l’ultima band, di cui faceva parte anche il veterano del rock Dimitris Poulikakos, si è esibita di fronte a poco più di cinquecento persone. È stato deludente, soprattutto in confronto al raduno di circa 7000 persone mobilitato con lo slogan Ménoume Evrópi [Restiamo in Europa] una settimana prima (quindi, prima della proclamazione del referendum) e sponsorizzato da partiti di opposizione, canali e celebrità televisive, ONG, preti ortodossi e funzionari dell’UE. Alcuni commentatori hanno paragonato questo raduno alla mobilitazione di Maidan in Ucraina.

Nel corso della settimana, le rispettive campagne sono andate avanti. Molti ministri e quadri di SYRIZA erano ancora latitanti o sostenevano il «No» con scarsa convinzione. Così i mass media, senza opposizione, hanno continuato a bombardare il pubblico con messaggi terroristici, assicurandoci che, se avessimo votato «No», saremmo stati cacciati dal paradiso dell’Unione europea, saremmo diventati «come lo Zimbabwe», il turismo e l’economia in generale sarebbero collassati, sarebbe scoppiata una guerra civile e la Grecia sarebbe affondata nel mare come una seconda Atlantide (l’ultima minaccia non l’abbiamo sentita con le nostre orecchie, ma non ne saremmo stati sorpresi).

Alla fine, il venerdì prima del voto un altro evento è stato organizzato nella stessa piazza di Atene (come pure di fronte alla Torre Bianca di Salonicco e in luoghi centrali di molte altre città). Nessuno, neppure lo stesso Alexis Tsipras, mentre si rivolgeva al pubblico, poteva credere ai propri occhi: in piazza c’era una folla di almeno 100.000 persone, e folle altrettanto numerose erano presenti ovunque. Va osservato che molte di queste persone avevano venti o trent’anni, e apparentemente non avevano alcuna precedente esperienza politica o affiliazione. Ed è importante notare che l’ingresso di Tsipras è stato accompagnato da una colonna sonora davvero inconsueta – unica, per quello che noi possiamo ricordare: una canzone degli anni Settanta di Thanos Mikroutsikos, basata sulla poesia «Microcosmo» di Nazim Hikmet, scritta da un poeta turco che racconta un fatto accaduto a Calcutta, in India. Certo, la poesia era tradotta in greco, ma anche così rompeva la lunga tradizione delle scelte estetiche fatte in queste circostanze, che negli ultimi quarant’anni sono state fortemente stereotipizzate attorno a un repertorio fisso fatto di eroici sacrifici, un repertorio prodotto da «vacche sacre» della nazione come Mikis Theodorakis, Elytis, Seferis e altri artisti-profeti.

Questa impressionante partecipazione in qualche modo ci ha scaldato i cuori ma, anche così, sabato sera molta della gente con cui abbiamo interagito, a Salonicco e Atene, era esitante e in apprensione rispetto al risultato. Solo gli amici e compagni di Nicea, un quartiere tradizionalmente operaio costruito negli anni ’30 del Novecento da rifugiati dell’Asia Minore, comunicavano la certezza della vittoria del «No».

Ascoltando i loro messaggi, abbiamo pensato che fossero troppo ottimisti.

Sia come sia, i canali televisivi hanno preparato i loro palchi e un esercito di sondaggisti e specialisti vari ha cominciato la sua parata. Tutti hanno sostenuto «che la battaglia si sarebbe combattuta sul filo e che sarebbe stato molto difficile predire il risultato, dato probabilmente per un confronto tra il 51 e il 49%». Quando però i primi risultati sono apparsi sullo schermo, è stato chiaro che non sarebbe accaduto questo. Le cifre arrivate da piccoli villaggi di provincia, sperduti negli angoli più remoti del paese, anche da zone note per il loro background ultra-conservatore, davano tutte uniformemente il 60% a favore del «No». Gli spogli delle grandi città, compresa Atene, non hanno cambiato il risultato. Il «No» ha vinto in tutti i 52 distretti elettorali, non c’è stata una singola regione che abbia concesso la maggioranza al «Sì».

Che cosa ha spinto tutte queste persone a rientrare sulla scena politica e a prendere le cose in mano, quando nessun altro lo avrebbe fatto?

In una qualche misura, è stata l’indignazione. Molte persone si sono infuriate e hanno votato «No» per reazione ai tentativi sfacciati di ricattarli e manipolare il loro voto, per reazione alla loro infantilizzazione da parte di funzionari altezzosi e coloniali dell’Europa Nord-Occidentale, ma anche a quella implicita nel moralismo auto-colonizzante esibito dalla (auto-proclamata) «elite intellettuale modernista» in Grecia. Questi personaggi non sono stati in grado di gestire o mascherare la propria arroganza e il proprio spirito di vendetta, quando per pochi giorni sono stati convinti che avrebbero vinto[1], e ciò è stato lampante.

Abbiamo però l’impressione che ci fosse un senso di dignità, persino di speranza, nell’impegno di così tanti giovani. Può sembrare curioso usare la parola speranza in una situazione di precarietà generalizzata, miseria prolungata e impoverimento, nello scenario di una corsa alle banche su vasta scala. Ma sembra che la gente in tutti questi anni abbia avuto talmente tanta paura da avere superato una certa soglia. Questo non significa che siano stati disperati; almeno, non tutti loro, almeno, non sempre. Può anche significare che non possono più essere terrorizzati, che alcune minacce non siano per loro abbastanza spaventose. Oltre questa soglia, ci può essere ancora una forza che assicura stabilità e pace alla mente, anche nel più grande scompiglio, persino una certa creanza e virtù civica, che è tale in quanto può funzionare come un conatus democratico.

È allora possibile che questa speranza, a prima vista irrazionale perché non può trovare alcuna giustificazione nei fatti dell’«economia» e della «realtà esterna» in generale, sia una speranza generata dal nostro essere insieme, dal nostro essere e agire in comune. Qualcosa che non scaturisce «dall’interno» di un’essenza o di un soggetto pre-esistente, che si chiami «il popolo» o «la nazione». È una speranza che sorge all’interno di singolarità che si incontrano, che nasce tra di loro. Una speranza della moltitudine.

[1] Un esempio dovrebbe bastare: durante un dibattito televisivo Antigoni Lyberaki, professore di sociologia e parlamentare del partito «To Potami» [Il Fiume] di Stavros Theodorakis, ha affermato senza vergogna che «i poveri non sono necessariamente cattiva gente [sic], ma fanno scelte sbagliate nei momenti critici».

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