Strangelove non perde occasione per mostrare all’Italia tutto il suo nuovismo di facciata. Anche sulla scuola, infatti, il suo metodo lo pone tra gli eredi del centralismo democratico: si ascoltano (o, meglio, si finge di ascoltare) tutti e poi si procede a eseguire quanto si era già deciso, come se non avessero parlato. Stalin ne sarebbe stato fiero e, si parva licet comparare magnis, anche Berlusconi lo è. Stesso dicasi per la sua abilità nel costruire ricatti: 100.000 assunti (ma non tutti subito) in cambio della disarticolazione della scuola: prendere o lasciare. Un uomo di sani principi, di quel rude decisionismo che sovente affascina i ceti dirigenti in crisi di legittimazione.
L’italiano che odia l’Italia e gli italiani perché non sono gli States sta facendo tabula rasa di quel che resta di ogni istituto democratico riproponendo la sua personale versione di un autoritarismo che rischia di aprire la strada a forme di leadership ben più pericolose che, in nome della governabilità, potranno scivolare verso la Ragion di Stato e oltre. Avesse cambiato il nome del PD in «i democratici» – come qualche giorno fa aveva detto qualche quotidiano ben informato – avrebbe fatto, per la prima volta, una reale operazione di chiarezza; tanto più se il suo gemello avesse fatto altrettanto modificando il nome di quel che resta del suo partito in «i repubblicani». Ben che vada stiamo diventando il 53° stato degli Usa: Precariopoli.
Qui non c’è differenza tra forma e sostanza: l’autoritarismo o il decisionismo di Renzi è la riforma, della scuola e non solo, come mostra la continuità col preside-padrone. Questo progetto (contenuto) non è indipendente dalle forme con le quali lo si attua. La scuola è l’ultimo baluardo. Dopo il Jobs Act, infatti, e in piena continuità con esso, resta da precarizzare solo l’istruzione pubblica e poco altro. E, come già fatto per il lavoro, la modalità è la stessa: l’individualizzazione estrema di tutte le figure che la compongono, dai presidi agli studenti, per far credere loro di poter trattare singolarmente sulle condizioni della propria fatica. In quest’ottica, è meglio che anche l’università si prepari all’offensiva d’autunno. La scuola odierna non è per molti aspetti difendibile, lo sappiamo; ma, per altri, presenta ancora aspetti di eccellenza e di contrasto all’ideologia capitalistica che, a quanto pare, risultano sempre più insopportabili a chi la vuole asservire solo e unicamente al comando d’impresa. È su queste forze reali di opposizione che bisogna puntare, per quanto deboli possano sembrare, al fine di riformare, ricostruire, aggiornare la scuola: non è certo la strada della distruzione per la distruzione che porterà lontano.
Si auspica che, una volta tanto, gli insegnanti non siano divisi: questo è un momento in cui non ci si deve presentare in ordine sparso. Bisogna difendere tutto e tutti, anche se si conoscono bene i difetti e le miserie del settore e di chi ci lavora. Ed è un momento in cui o si rischia o non si cava un ragno dal buco. Basta aspettare sindacati titubanti, bisogna agire. Basta urlare nella speranza che qualcuno, magari un Padre buono, ascolti e provveda, bisogna prendersi delle responsabilità. Basta aspettare altri partiti o la patetica sinistra del PD che, finora, con la sua etica dell’irresponsabilità (ossia del calcolo o della responsabilità ipocrita), ha avallato ogni decisione del governo, in nome di un’ipoteca sulla possibile vittoria elettorale: bisogna dimostrare una superiore cultura politica e imparare a giudicare da quello che i politici fanno non da quello che dicono di voler fare o che avrebbero fatto se…
Quando gli studenti e gli insegnanti occuperanno le scuole, magari assieme ai genitori, che rivendicano una partecipazione che hanno gestito in modo sempre più retrogrado, allora si riconosceranno un ruolo, senza aspettare che siano altri a farlo. La scuola è di chi la fa e di chi se la prende. Gli altri ne stiano fuori. Contro il legalismo nel quale le forze sedicenti responsabili cercano di far impantanare la lotta sorta in questi ultimi giorni richiamandosi ai diritti degli studenti e delle famiglie ridotti a utenti, il sacrosanto blocco degli scrutini è lo sparo ad alzo zero che prende di mira la retorica della scuola come istituzione orientata al cliente; istituzione che si vuol ridurre al clientelismo imperante.
Per cambiare, ma non per il gusto del cambiamento, come propone Strangelove bensì per imboccare la strada di una scuola più democratica (almeno), più rispettata, più formativa e meglio retribuita, non bisogna far passare questa riforma. Altrimenti, come in molti altri casi, dall’abolizione della scala mobile a quella dell’articolo 18, dal blocco dei contratti nazionali alle bizantine procedure concorsuali (quando ci sono) e via discorrendo, il cedimento avrà conseguenze di lungo periodo. È però ormai tale la miopia ragionieristica delle élites al potere che queste credono davvero di poter sostituire alla politica la partita doppia. E più sono incapaci di agire politicamente più sono inclini alle scorciatoie di bilancio. L’economicismo è sempre stato un mezzo per ridurre la complessità politica: quindi un’ideologia.
Ripetere quanto già detto sull’aziendalismo, sulla figura del preside-sindaco-sceriffo-manager-padre-duce, sulla destrutturazione dei saperi e sulla loro banalizzazione, sull’umiliazione quotidiana di coloro che li trasmettono o sulla nuova idolatria delle tecnologie informatiche, è qui inutile, perché è stato ripetuto da molti e molte volte. Senza abbandonare la discussione, perché bisogna imporre un linguaggio diverso da quello della retorica renziana, che va contrastata a tutti i livelli, si deve però agire risolutamente per fermare l’attacco. Solo dopo, la scuola potrà continuare o, meglio, cominciare davvero a discutere del proprio futuro con un’autonomia che non sia quella proposta dai piazzisti del capitale. Se, invece, prevarranno ancora una volta i tentennamenti, i sensi di colpa, l’etica del servizio pubblico, le paure, il tarlo del «speriamo che me la cavo» o che ce la caviamo in qualche modo, allora, non resterà che augurare a tutti «buona s(cu)ola». E buone elezioni, per chi è chiamato a esprimersi.