domenica , 22 Dicembre 2024

Un diritto alla città oltre i diritti?

di FELICE MOMETTI

Affrontare il tema dei diritti non è, non è mai stata, una questione semplice. Ancor più se riferita alla città, alla metropoli, al territorio. I rapporti che si determinano tra i contenuti dei diritti, la natura dei soggetti che li rivendicano e le forme assunte dal conflitto per ottenerli, condizionano spesso il senso, la validità e l’efficacia dei diritti stessi. Henri Lefebvre prima e David Harvey poi hanno costituito dei punti di riferimento per molti di coloro che hanno frequentato il campo dei diritti applicati allo spazio urbano o per dirla con Lefebvre alla «società urbana». In entrambi gli autori c’è il tentativo di mettere al centro dell’analisi della produzione capitalistica le contraddizioni spaziali ‒ la loro natura e la loro articolazione interna ‒ che si danno a livello urbano.

La logica combinatoria di Lefebvre

Il diritto alla città insieme a La rivoluzione urbana e a La ville et l’urbain, testi pubblicati tra fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, costituiscono il corpus teorico della riflessione di Lefebvre di quel periodo. Un periodo contrassegnato da forti sommovimenti sociali in cui «l’assalto al cielo» sembrava o si immaginava a portata di mano in una serie di paesi tra i quali la Francia. Per Lefebvre il punto di partenza è la netta separazione del valore d’uso della città, della vita urbana, del tempo urbano, rispetto al valore di scambio degli spazi acquistati e venduti, del consumo dei beni, dei luoghi, dei segni urbani. In sostanza la città del capitalismo fordista ha tutte le caratteristiche di una merce senza mai esserlo veramente e nemmeno diventarlo. Un campo di tensione tra valore d’uso e valore di scambio ‒ generato da quel processo a due facce dell’industrializzazione/urbanizzazione ‒ che mai si risolve in un senso o nell’altro a differenza delle città del passato, antiche e medioevali, che erano «opere» del valore d’uso e non «prodotti» del valore di scambio. Lefebvre non approfondisce queste affermazioni che spesso assumono la valenza di postulati collocati su una piattaforma di lancio di una teoria ascendente della realtà urbana. Tra l’altro pare piuttosto avventuroso il nesso che stabilisce tra filosofia e città: oggi (fine anni ’60), dice, si potrebbe concepire una descrizione fenomenologica della vita urbana o costruire una semiologia della realtà urbana che, nella città attuale, corrisponderebbe al logos della città greca. Lefebvre è un autore «eccessivo» nel senso che spesso eccede le proprie argomentazioni, come se fosse spinto da uno spirito sistematicamente rivolto ad alimentare la complessità dei fenomeni per sottrarsi al riduzionismo di un certo marxismo allora in voga nei partiti della sinistra francese. E, quindi, anche per aprire un dialogo con il pensiero strutturalista (ammesso che di questo si possa dare una definizione univoca), per Lefebvre la città e l’urbano sono anche testi scritti e da scrivere, linguaggi, forme che si trasformano in funzioni che entrano in strutture che le riprendono e le trasformano. Ma una volta disposte sul tavolo le categorie e le definizioni della città, della società e dello spazio urbano si tratta di capire quali relazioni intrattengono tra loro. Quale metodo adottare?

In prima battuta il metodo corretto di analisi, per Lefebvre, consiste nel passare dalle conoscenze più generali a quelle che riguardano i processi e le discontinuità storiche, alla loro proiezione o rifrazione nella città e inversamente dalle conoscenze particolari e specifiche riguardanti la realtà urbana al loro contesto generale. La città diventa la proiezione della società sul territorio ma, allo stesso tempo, è anche la mediazione delle mediazioni sociali, territoriali, economiche, istituzionali. Tutto ciò avviene in presenza di una società urbana che manifesta una logica diversa dal mercato perché l’urbano è «opera» che si fonda sul valore d’uso. Un percorso, questo, di andata e ritorno dal generale al particolare e viceversa molto simile all’approccio ideologico ‒ in cui «tutto si tiene» ‒ di un certo marxismo che si voleva superare. L’insufficienza di questo metodo è percepita anche da Lefebvre che, per uscire dall’impasse, individua alcuni procedimenti mentali che devono affiancarlo. Il primo è la «trasduzione». Un procedimento che elabora un oggetto teorico, un oggetto possibile, e si sviluppa mediante continui feed-back tra lo schema concettuale e le osservazioni empiriche. Il secondo procedimento è «l’utopia sperimentale controllata dalla ragione dialettica», ma qui Lefebvre non ne specifica il senso e il contenuto. In entrambi i casi, comunque, il riferimento a una società urbana come un valore d’uso che deve essere liberato dal valore di scambio è esplicito. È il passaggio che gli permette di introdurre il diritto alla città. Un diritto che può essere formulato solo come diritto alla vita urbana trasformata e rinnovata, un diritto al valore d’uso. In La rivoluzione urbana, Lefebvre va oltre e assegna «all’urbano» lo statuto di forza produttiva che di per sé si contrappone ai rapporti di produzione capitalistici. Ma chi è il soggetto portatore del diritto alla città? È  la classe operaia perché con la sua sola esistenza nega e contesta le strategie dirette contro di essa. La riflessione di Lefebvre, come si vede, è fortemente contestualizzata e in gran parte datata dove i soggetti, i metodi e i contenuti del diritto alla città sono presupposti nella loro identità, coerenza interna e performatività. Il diritto alla città diventa così quasi lo sviluppo necessitato della combinazione logica di una serie di elementi dati: la classe operaia, il circuito «virtuoso» tra schemi concettuali e osservazioni empiriche, la società urbana come valore d’uso. Pur senza sollevare la questione della presenza di rapporti capitalistici negli stessi valori d’uso questo è un esito che, indirettamente, viene messo in discussione dallo stesso Lefebvre, qualche anno dopo. Infatti, in La produzione dello spazio, egli parla non più di diritti ma di pratiche spaziali, rappresentazioni dello spazio e spazi rappresentati interpretandoli come elementi costitutivi di un concetto di spazio urbano connotato socialmente. Senza tuttavia mai arrivare a definire lo spazio urbano come uno specifico rapporto sociale, uno spazio cioè come rapporto e non come esito, opera oppure prodotto, che si dà nel più generale processo di valorizzazione capitalistico.

Il diritto vuoto di Harvey

La prefazione di Harvey al suo Città ribelli è un omaggio alla visione di Lefebvre. Ma, come talvolta accade, gli omaggi sono solo delle forme strumentali di riconoscimento per introdurre riflessioni che se ne distanziano. Per Harvey il diritto alla città è un significante vuoto pieno di possibilità immanenti, dipende da chi lo riempie. Il diritto alla città è il diritto a cambiare e reinventare la città secondo le nostre esigenze. Il diritto alla città è un diritto umano legato al tipo di persona che vogliamo essere. Rivendicare il diritto alla città significa rivendicare il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le città vengono costruite e ricostruite. Si potrebbe dire che per Harvey il diritto alla città è il diritto umano al superamento del capitalismo. A sostegno della sua argomentazione, Harvey si rifà al concetto di eterotopia di Lefebvre (diverso da quello di Foucault) in cui si delineano degli spazi liminali, di soglia, di passaggio, dove «qualcosa di diverso» è possibile. Le pratiche che si danno nello spazio urbano creano dappertutto degli spazi eterotopici in cui confluiscono spontaneamente i gruppi più disparati che «irrompono», aprendo la possibilità di un’azione collettiva per qualcosa di radicalmente diverso. Se per Lefebvre il soggetto presupposto del diritto alla città era una mitizzata classe operaia, per Harvey è un’astratta umanità che può manifestarsi come popolo, a dir poco problematico aggiungiamo noi, come nel caso di Occupy Wall Street. Sono comunque le pratiche e non i soggetti che fanno la differenza. Ad esempio, secondo Harvey, la pratica del commoning in cui la relazione tra gruppi sociali e ambiente è collettiva e non mercificata. Una pratica cruciale perché permette di distinguere tra un bene pubblico concepito come costo per lo Stato e un common il cui statuto e il cui uso rispondono a logiche e finalità diverse. E quindi l’urbanizzazione è da intendersi come l’intreccio tra la continua produzione di un common urbano (anche nelle forme di spazi e beni pubblici) e la sua perpetua appropriazione e distruzione da parte di interessi privati. Il diritto alla città come diritto umano al common urbano? Sembrerebbe di sì. Il valore d’uso transita dalla società urbana di Lefebvre al common urbano di Harvey. Un common urbano senza connotazioni e confini che scaturisce dall’aspetto oscuro, dice Harvey, dell’assorbimento del surplus di capitale da parte del processo di urbanizzazione. Senza entrare nel merito della differenza tra un capitale che si valorizza in ambito urbano e l’assorbimento di un generico surplus da parte del processo di urbanizzazione (vecchio dibattito del marxismo, soprattutto americano), resta il fatto che tanto in Lefebvre quanto in Harvey il diritto alla città non è mai visto come un processo di soggettivazione, ma è sempre riferito a dei soggetti o a delle pratiche già dati. In fondo per Harvey l’urbano è sempre concepito come un’infrastruttura materiale per la produzione, la circolazione, lo scambio e il consumo.

Politicizzare lo spazio urbano

Non esiste un «fuori» all’organizzazione capitalistica del territorio: una società urbana, un common urbano altri rispetto alla riproduzione allargata dei rapporti di produzione capitalistici e alla valorizzazione del capitale. Lo spazio urbano è un rapporto sociale in cui non c’è una gerarchia precisa o una separazione definita una volta per tutte tra una prassi in cui i soggetti non realizzano e non trasformano nient’altro che se stessi e le azioni individuali e collettive sottomesse ai rapporti capitalistici. Per dirla con Balibar, l’una passa costantemente attraverso le altre e viceversa. Non si tratta di un uso capitalistico del territorio e della città, come se città e capitale fossero entità diverse e distinte in cui il capitale vampirizza una società urbana, un common urbano, che non devono altro che essere liberati dalla morsa dell’appropriazione privata. La città, il territorio, lo spazio urbano sono sia il teatro dei rapporti sociali che rapporti sociali essi stessi, incessantemente investiti dalle trasformazioni del modo di produzione, di circolazione e di consumo. Le gerarchie urbane sono continuamente riconfigurate dal rapporto sociale che si dà nello spazio urbano. Politicizzare lo spazio urbano significa quindi aprire un conflitto che aumenti la tensione nel rapporto sociale tra affermazione delle ragioni e dei comportamenti soggettivi, individuali o collettivi, e la riproduzione della gabbia del dominio, dello sfruttamento e della rendita urbana. È da questo punto di vista che può acquisire una valenza politicamente innovatrice la questione dei diritti, compreso il diritto alla città. La rivendicazione di un diritto non è separabile da un processo costituente, o quanto meno trasformatore, del soggetto che lo rivendica. Il momento stesso del rivendicare il diritto alla città dovrebbe interpellare sia uno spazio urbano come rapporto sociale, sia le forme della sua radicale modificazione.

 

Bibliografia

Henri Lefebvre, Il diritto alla città (1967), Ombre Corte, 2014

La rivoluzione urbana, Armando editore, 1973

La ville et l’urbain, in Espaces et Sociétés, 1972

David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, 2013

L’esperienza urbana,il Saggiatore, 1999

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