domenica , 22 Dicembre 2024

La supply chain sul fronte del porto. Lotte di classe lungo la West Coast

di GIORGIO GRAPPI

Porti UsaMentre continua lo sciopero degli operai delle raffinerie della United Steelworkers union (USW), le rade dei porti della West Coast sono affollate di navi in attesa di poter attraccare, a causa di una disputa che ha visto opporsi la Pacific Maritime Association (PMA) e l’International Longshore and Warehouse Union (ILWU), il sindacato dei portuali. È di questi giorni la notizia che la situazione è stata sbloccata dopo una proposta di accordo attualmente in discussione. Dopo nove mesi di stallo, tuttavia, si calcola che saranno necessarie almeno otto settimane di lavoro a pieno regime per smaltire gli arretrati e tornare a una situazione di equilibrio. Ma di quale equilibrio si parla?

Poco visibili e lontani dall’immaginario dei movimenti, con l’eccezione dell’esperienza di Occupy Oakland, le dispute che ruotano intorno alle infrastrutture e ai trasporti che hanno nei porti il loro baricentro segnalano alcuni tratti distintivi della nuova crescita statunitense e il ruolo decisivo che infrastrutture e logistica ricoprono nella produzione contemporanea. In entrambe le dispute le associazioni dei datori di lavoro si scontrano con sindacati potenti, il cui peso, come osservato dal «Los Angeles Times» riguardo i portuali, deriva dalla posizione che occupano all’interno di settori ad alta intensità di capitale e globalmente connessi. Questi sindacati sono guidati da logiche a metà strada tra la difesa di rendite di posizione acquisite negli anni, grazie a una forza lavoro ridotta ma in posizione strategica, e la gara per mantenere il monopolio della rappresentanza sindacale in questi settori. Al tempo stesso, il loro potere è eroso dalla crescente platea di lavoratori in condizioni precarie che non agiscono all’interno delle dinamiche sindacali.

In entrambe i casi, il richiamo agli anni ottanta da parte degli organi di stampa evoca un nuovo passaggio di fase, dopo il decennio che ha reso evidente l’accelerazione verso un sistema produttivo globale che poco dopo sarebbe stato riconosciuto con il nome di globalizzazione. Se nel caso delle raffinerie lo sciopero può essere letto come una prima manifestazione dell’indipendenza energetica raggiunta dagli Stati Uniti e di una ripresa che permette la riattivazione di lotte operaie espansive (alla base dello sciopero ci sono, oltre a questioni salariali, richieste di maggiore sicurezza in un settore tra i più nocivi e pericolosi e le regole sulle assunzioni), lo stallo nei porti della West Coast mostra in tutta la sua portata la scala globale della produzione contemporanea e le sue contraddizioni. Si tratta in questo caso di una disputa che sarebbe esiziale considerare soltanto con le lenti di un classico scontro sindacale. Questo avviene infatti all’interno di supply chain globali. La riorganizzazione della produzione avvenuta con la globalizzazione ha contribuito a modificare in misura notevole il significato e il ruolo delle supply chain, che è ormai riduttivo considerare soltanto dal punto di vista della catena delle forniture. Considerare quanto avviene nei porti della West Coast tenendo presente quanto accaduto nelle recenti mobilitazioni dei lavoratori dei fast food, ad esempio, è un esercizio che permette di allargare lo sguardo: sindacalizzazione e lotta sul salario vanno comprese avendo chiare le interconnessioni, le differenze di scala e le logiche che affiorano soltanto in parte nelle linee dei picchetti. La distribuzione globale della produzione, infatti, ha reso per molti settori produttivi la stessa supply chain il centro dell’organizzazione industriale delle grandi aziende multinazionali e delle loro controllate. Le funzioni associate ai servizi logistici vengono così ad assumere una rilevanza che va molto oltre la semplice movimentazione delle merci e il rifornimento delle materie prime. Allo stesso tempo, l’organizzazione globale della supply chain e dei suoi costi misura il trasporto insieme all’insieme delle variabili che rientrano all’interno delle singole catene produttive. Se ciò è vero per la manifattura, lo è anche per altri settori, come ad esempio quello delle grandi catene di fast food, nei quali la lavorazione dei prodotti, il trasporto e il servizio al dettaglio rientrano all’interno dello stesso calcolo.

Gli Stati Uniti, spesso considerati come promotori di una globalizzazione di tipo finanziario, sono nondimeno il sistema produttivo nel quale si è per prima dispiegata la rivoluzione logistica degli anni ’70. Qui è stato sviluppato un sistema logistico intermodale trans-continentale, che comprende non solo lo scambio tra nave e tir, ma anche un sistema ferroviario unico, con treni capaci di trasportare una doppia fila di container (double-stack). Diversi corridoi collegano le due coste del paese attraversando il continente, incluso il Canada, e rendendo possibile un sistema logistico integrato che, al momento, non ha eguali al mondo. I treni double-stack sono stati introdotti in molti altri sistemi logistici, ma in nessun luogo sono alla base del normale funzionamento del sistema. I porti della West Coast sono la porta d’accesso e di uscita di questo sistema verso l’Asia, il mercato che ha visto la maggiore crescita negli ultimi decenni.

Ciò non significa riproporre un’immagine degli Stati Uniti come forza egemonica anche sul piano delle operazioni logistiche, ma ricordare che le trasformazioni osservabili sul piano globale riguardano anche il sistema statunitense. Il sistema logistico statunitense, infatti, è sottoposto a grande pressione dalla crescita dei container in circolazione e convive con la forza propulsiva di operazioni globali che hanno origini e baricentri diversi dagli Stati Uniti. Il sistema ferroviario statunitense non è in grado di assorbire le moli di container scaricate dal trasporto marittimo, per capacità di trasporto e costi operativi, e nessuno dei porti della costa occidentale degli Stati Uniti è in grado di ospitare le nuovissime navi portacontainer ultra large, il cui utilizzo è dedicato principalmente a una delle rotte che più di tutte ha modificato gli equilibri geoeconomici globali, quella tra Far East (Asia) ed Europa. Ultima in ordine di tempo è la MSC Oscar, prodotta nei cantieri navali sud coreani e varata a gennaio, con una capacità di 19.000 container. La nave, alta 395 metri (più dell’Empire State Building, che ne misura 381), è in grado di trasportare 39.000 automobili o 1 milione di paia di scarpe. Navi come questa non soltanto non possono attraccare nella gran parte dei porti americani, ma non possono nemmeno attraversare il canale di Panama per raggiungere Richmond, in Virginia, l’unico porto statunitense con la profondità adatta ad accogliere le navi ultra large, attualmente servito da rotte che utilizzano il canale di Suez. Solo una costosa ristrutturazione dei porti della West Coast o l’allargamento del canale di Panama, riducendo il tragitto Asia-East Coast di circa 700 miglia nautiche rispetto al passaggio dal Mediterraneo e permettendo di evitare zone ad alta instabilità geopolitica, potrebbe favorire l’utilizzo di navi ultra large nelle rotte del Pacifico. Il progetto di allargamento del canale di Panama, tuttavia, pare già essere superato da navi come la MSC Oscar e dalla competizione a guida cinese, alla testa di un nuovo, mastodontico progetto, per scavare un nuovo canale interoceanico in Nicaragua, la cui profondità permetterebbe il passaggio di qualsiasi tipo di nave attualmente prevedibile.

Queste considerazioni non devono spingere a pensare che si affermi l’irrilevanza della maggior parte delle operazioni rispetto a quelle le cui dimensioni sono più eclatanti. Possiamo infatti distinguere due tipi di situazioni che coinvolgono l’industria del trasporto oceanico su scala globale: quelle il cui effetto è la produzione di nuovi scenari e l’apertura di nuove frontiere del trasporto marittimo, dal punto di vista della ridefinizione delle rotte e dell’introduzione di nuovi strumenti tecnici quali navi e porti, e quelle che hanno a che fare con la sua operatività quotidiana, di routine, che è influenzata, ma non bruscamente interrotta dalla prima. È questo il caso della disputa in corso nella West Coast degli Stati Uniti, giunta a un punto tale da spingere Obama a inviare il segretario del lavoro Tom Perez a San Francisco con il mandato di favorire un accordo tra le parti. Nella memoria di tutti i protagonisti c’è l’atteggiamento del governo Bush, che nel 2002 ricorse al Taft-Hartley Act per imporre ai sindacati la fine dell’agitazione dopo dieci giorni di sospensione dell’attività portuale. La mossa di Obama arriva dopo mesi di pressioni, a seguito di una situazione che si protrae almeno da ottobre, quando sono iniziati i rallentamenti nella produzione che fanno parte della tattica negoziale informale dei sindacati portuali. Da quel momento, la situazione tra le parti è andata deteriorandosi, seguendo percorsi tipici delle trattative sul contratto dei portuali, ma rivelando al tempo stesso una situazione particolare strettamente legata ai nodi del trasporto marittimo globale. Alla base dello stallo ci sono questioni che riguardano i salari, il controllo delle condizioni contrattuali e della gestione del personale e la competizione intersindacale.

I portuali si trovano di fronte la Pacific Maritime Association, che rappresenta 72 grandi compagnie del trasporto oceanico globale che operano nella West Coast, e non un datore di lavoro che ha le sembianze di un’autorità portuale. I 29 porti della West Coast valgono insieme circa la metà dell’intero commercio marittimo degli Stati Uniti e oltre il 70% dell’intero import dall’Asia. La PMA rappresenta sia gli operatori portuali sia le shipping lines, le compagnie di trasporto (la lista include Maersk, CMA CGM, COSCO, Evergreen, MSC). Gli scaricatori sono rappresentati dall’International Longhsore and Warehouse Union (ILWU). Il lavoro portuale impiega nella West Coast circa 20.000 lavoratori, di cui circa 13 mila a tempo pieno e 7 mila a termine. L’industria di cui parliamo oggi è stata il frutto della svolta radicale degli anni ’60 con l’introduzione del container e la firma dell’accordo sulla modernizzazione e la meccanizzazione (1960) e, più di recente, la firma nel 2008 di un accordo sull’automazione portuale. I datori di lavoro rappresentati nella PMA ritengono che i salari dei portuali siano insostenibili, arrivando a oltre 50$ l’ora. I portuali replicano dicendo che i salari sono in realtà più bassi, tra i 26 e i 36$ l’ora, ma spesso sono richiesti turni straordinari o particolari, che comportano il pagamento di straordinari (premium). Non pare tuttavia essere questo il fattore principale di attrito. La trattativa riguarda anche l’arbitrato, che attribuisce a delle figure terze il ruolo di supervisionare il rispetto del contratto e dirimere le controversie. Una funzione che di fatto elimina la funzione di rappresentanza sindacale tra la firma di un contratto e l’altro e che, secondo i sindacati, è diventata eccessivamente indipendente dalla contrattazione, poiché oggi un arbitro, eletto dalle parti alla firma del precedente contratto, può rimanere in carica per un tempo indeterminato se non c’è il consenso di entrambe le parti per decidere il suo licenziamento alla scadenza del contratto. I portuali vogliono invece che sia licenziabile anche solo da una parte. Gli arbitri sono figure rilevanti dell’organizzazione del lavoro globale, la cui presenza non è isolata all’industria portuale. Per fare solo un esempio, in Cina proprio la regolamentazione dell’arbitrato è alla base di tensioni latenti che attraversano diversi posti di lavoro. Il governo cinese insiste infatti su una giuridificazione dei rapporti di lavoro che, attribuendo un ruolo preminente all’arbitrato e alla risoluzione individuale delle controversie, mira a depotenziare la crescita di rivendicazioni collettive. Non di rado, le tensioni esplodono in modo anche violento.

Oltre a questi elementi, sullo sfondo rimane la questione della regolamentazione giuridica della rappresentanza sindacale e del sistema delle assunzioni. Il declino del lavoro sindacalizzato e la crescente precarizzazione hanno infatti aumentato la competizione intersindacale sulla rappresentanza. Dietro una mera questione di scontro per assicurarsi la posizione più forte nelle trattativa, tuttavia, ci sono anche questioni che rimandano alla riorganizzazione del lavoro portuale. La crescente meccanizzazione e l’utilizzo delle tecnologie informatiche nella gestione del trasporto container, infatti, portano alla ribalta figure del lavoro molto lontane dai tradizionali “camalli”. Oggi sulla banchina del porto convive un lavoro operaio, ancora pesante e ad alto rischio, per quanto sempre più specializzato, con il lavoro di ingegneri, tecnici, elettricisti. Questo si riflette anche nella composizione del costo del lavoro nell’industria dello shipping, ripartito tra i costi di operazione di una nave, all’interno dei quali ci sono i costi dell’equipaggio, e i costi di cargo handling e servizi portuali. Questi ultimi, che riguardano direttamente lo scontro in atto negli Stati Uniti, sono stimati su scala globale tra il 9 e il 14% del totale.

La posizione sindacale dell’ILWU è minacciata anche dalla crescita di figure del lavoro professionalizzate, rappresentate da sindacati come l’International Brotherhood of Electrical Workers o l’International Association of Machinists, che fanno dell’alta formazione uno strumento della loro azione sindacale, garantendo, in cambio di un ruolo centrale nel gestire l’ingresso in alcune posizioni lavorative, standard qualitativi e skills dei propri membri. La ricordata separazione esistente tra il lavoro portuale e quello sulla nave contribuiscono a questa situazione. Le operazioni che permettono alle navi di funzionare sono infatti svolte da lavoratori rappresentati da sindacati come la Operating Engineers Union, aggiungendo un ulteriore livello di frammentazione. Senza un coordinamento tra queste diverse figure del lavoro marittimo-portuale i singoli sindacati sono esposti a processi che, per quanto possano aumentare la capacità contrattuale di un singolo sindacato in alcune fasi specifiche, indeboliscono la capacità di contrattazione collettiva. Soprattutto sul piano delle rivendicazioni che eccedono quella salariale e che riguardano il piano giuridico-regolativo. La scelta dell’ILWU, che lo scorso anno ha abbandonato la AFL-CIO, il cappello che unisce diversi sindacati, è una diretta conseguenza di questa situazione.

Tuttavia, le conseguenze di questo scontro e la sua evoluzione non sono comprensibili sul piano locale, né soltanto sindacale, perché si giocano sul filo del trasporto marittimo globale. La situazione coinvolge tutto il range portuale della West Coast, che comprende 29 porti di rilevanza internazionale che rappresentano, nell’insieme, il gateway tra Usa, Asia e, più in generale, le rotte che utilizzano il Pacifico. Il Journal of Commerce cita due rapporti che stimano in due milioni di dollari al giorno l’impatto economico di un’eventuale blocco totale dei porti, una cifra considerevole, ma non decisiva per un prodotto interno lordo di 17 trilioni di dollari. Il problema è diverso se lo si guarda non dal punto di vista dell’economia di un paese, ma tenendo in considerazione l’impatto che questo può avere su alcune supply chain di cui le rotte pacifiche sono una componente fondamentale. Le navi portacontainer, infatti, non trasportano soltanto «il novanta percento di tutto» ciò di cui ci vestiamo o mangiamo, per riprendere il titolo di un reportage della giornalista Rose George, ma anche componenti e semilavorati che sono alla base della produzione leggera globale. Basti a questo riguardo citare alcuni esempi: la Honda ha dichiarato che avrebbe rallentato la produzione per almeno una settimana nei suoi impianti in Ohio, Indiana, Ontario e Canada, poiché diverse componenti dei modelli Civic, CR-V e Accord dipendono dalle spedizioni dall’Asia. Un portavoce della compagnia ha detto che il rallentamento dei porti sta causando una carenza di rifornimenti che impedisce la piena operatività degli impianti. Lo stesso avviene per Fuji, che produce Subaru, e Toyota. A brindare sono gli operatori di aerei cargo. Per non arrivare a un blocco della produzione, infatti, queste compagnie stanno aumentando il ricorso alla spedizione via aerea, con conseguente aumento dei costi. Cathay Pacific, specializzata nel cargo aereo, ha dichiarato un aumento del 12.5% solo nel mese di gennaio. Un’altra conseguenza riguarda gli asset finanziari legati allo shipping e l’aumento del costo complessivo delle spedizioni. Alcune compagnie hanno dichiarato perdite dei volumi anche fino all’8% già nell’ultimo quarto del 2014. Ma non è solo la logistica in ingresso a essere danneggiata: anche l’industria del recycling, per voce della National Waste & Recycling Association (NWRA) ha dichiarato la propria preoccupazione per una situazione che rischia di compromettere uno dei traffici più promettenti di porti come quello di Los Angeles e Long Beach, l’export di carta e metalli di scarto. Anche se l’argomento è meno presente sulla stampa, un reale blocco dei porti avrebbe, tra le sue conseguenze, ripercussioni sensibili sul sistema di gestione dei rifiuti della costa occidentale degli Stati Uniti e sul prezzo della carta riciclata su scala globale.

In generale, la situazione ha aumentato la percezione del rischio nella supply chain, alimentando una certa tensione nei confronti dei sindacati, accusati di attaccare interessi vitali del commercio e della produzione statunitense. Un atteggiamento che si pone in continuità con la crescente securitizzazione delle supply chain e la loro assimilazione a elementi vitali di una nazione, insieme alle infrastrutture. Il dispiegarsi globale delle supply chain, il loro attraversare regimi giuridici differenti, e l’impatto che su questo piano può avere il protagonismo operaio, tuttavia, suggeriscono di rifuggire da eccessive semplificazioni, come quella di leggere la riorganizzazione delle supply chain sul piano della militarizzazione della società, anziché dell’organizzazione del lavoro. Paragonare i portuali a dei terroristi, come alcuni commenti apparsi sui siti statunitensi hanno fatto, ha infatti come conseguenza quella di oscurare proprio la dimensione del lavoro portuale e, più generale, di quello che ruota intorno alla realizzazione e al funzionamento delle infrastrutture..

Al centro rimane la traballante situazione del mercato globale dello shipping. La PMA ha accusato i portuali di effettuare uno “sciopero pagato” attraverso un rallentamento della produzione. I portuali, a loro volta, puntano il dito contro una serrata mascherata da parte degli operatori portuali, che avrebbero volutamente ridotto i turni per aumentare la congestione dei porti e, così, avere un’arma di pressione in più. L’immagine della baia di San Francisco punteggiata di navi portacontainer in attesa sarebbe, da questo punto di vista, un risultato voluto. Questa permette di distogliere l’attenzione da un mercato globale dei container, che vive di forti squilibri, permettendo alle compagnie coinvolte di far apparire i portuali responsabili di una fase di incertezza che risulta invece come strutturale dell’industria navale nel suo complesso. I fattori principali che la caratterizzano sono la sproporzione tra la crescita della capacità nel trasporto container e la crescita nella domanda, dovuta a diversi fattori, tra i quali i tempi di reazione dell’industria navale e la logica finanziaria che spesso guida le scelte delle grandi compagnie. La risposta dell’industria alla crescita potenziale della domanda avviene infatti attraverso l’offerta di nuove navi, operazione che richiede diversi anni dal momento della programmazione a quello del varo. Una discrasia temporale ha conseguenze profonde nell’indirizzo dell’industria navale, favorendone gli squilibri.

La crescita a doppia cifra dei paesi Asiatici e del Sud America ha giustificato un’euforia produttiva che ha spinto verso il gigantismo navale e la realizzazione di portacontainer sempre più grandi, con conseguenze sul piano della geografia e della pianificazione portuale. Il calo nella crescita asiatica e, al tempo stesso, la crisi iniziata nel 2008, hanno complicato il quadro spingendo gli operatori a trovare nuove soluzioni per mantenere il sistema in equilibrio. La risposta alla sovrapproduzione è stata un’ulteriore spinta alla sovrapproduzione, unita a strategie di risparmio come la navigazione lenta (slow-steam), che agiscono sul costo del carburante, il fattore di costo maggiore (tra il 35 e il 50%) per le spedizioni oceaniche. A questo si aggiunge la dinamica finanziaria che ruota intorno a navi e container, il cui mercato globale è ormai impossibile da tracciare con certezza a causa di alcuni fattori che riguardano la specificità dell’industria dello shipping. Il problema principale è rappresentato dal fatto che per produrre profitti occorre rispondere alla richiesta degli shipper, e cioè avere un numero sufficiente di container lì dove possono essere caricati. La situazione ottimale è ovviamente che i container circolino sempre pieni, ma questo non può accadere perché le rotte commerciali sono spesso squilibrate in una direzione o nell’altra. Secondo alcune stime, la conseguenza di questo sbilanciamento è che quasi un terzo dell’intero traffico è dovuto al riposizionamento di container vuoti, una tendenza che le grandi compagnie cercano di limitare frenando la competizione attraverso alleanze il cui scopo è l’ottimizzazione nell’utilizzo di navi e container. Questi sono alcuni dei motivi per i quali il network design è una disciplina ingegneristica emergente, allo scopo di offrire sistemi di calcolo che, tenendo conto di tutte le variabili presenti, permettano una progettazione del network, ossia delle rotte e della flotta utilizzata, nel modo più produttivo. A ciò va aggiunto il funzionamento dell’industria dei porti container, la cui produttività è misurata in numero di operazioni di movimentazione. Questa comprende sia i container scaricati e caricati, sia quelli semplicemente spostati da una nave all’altra (transhipment). Nei porti della costa West, il transhipment coinvolge alcuni hub, il cosiddetto sistema «a farfalla», con diversi porti minori che ruotano intorno a uno maggiore, dal quale provengono le merci dal trasporto oceanico, ma la parte decisiva è all’interno della supply chain Far East-Nord America, attraverso il pacifico. Come detto, nei porti arrivano oltre a merci finite, componenti e semilavorati, che poi finiscono nelle catene produttive degli Stati Uniti.

Ciò significa non solo che lo stesso container, in un porto hub dedicato al transhipment, può essere contato più volte, ma che il dato della movimentazione può essere privo di ogni rapporto con la merce trasportata e con il sistema a monte del porto. La produttività del porto, insomma, non dice nulla su quanto questa incida al di fuori del porto, se non si mette in relazione con il sistema nel suo complesso. Se prendiamo invece il singolo container, questo potrà corrispondere a livello globale anche a sei diverse operazioni di movimentazione se, ad esempio, tra la partenza e la destinazione vi sono due trasbordi. Ne deriva che la relazione tra la profittabilità del trasporto container e il trasporto merci è sempre più debole, minata tanto dalle caratteristiche dell’industria navale, quanto dal modo in cui il container è diventato un oggetto finanziario in quanto tale (si vedano su questo i lavori di Sergio Bologna). Uno sguardo ai dati dell’industria navale mostra come l’unico motivo della leggera crescita registrata lo scorso anno, dopo anni di perdite da parte di tutte le principali compagnie, sia il calo dei costi per unità, e non l’aumento della produzione. Nel primo semestre del 2014, infatti, i guadagni per unità delle grandi compagnie sono calati del 4%, ma i costi sono calati del 6% rendendo possibile un margine di profitto.

Qual è, in questo quadro, il ruolo dei porti? La risposta non è semplice, perché per anni le autorità portuali si sono tenute molto lontane dalle questioni che riguardavano le condizioni di lavoro o il trasporto navale. Il perdurare dell’impasse, tuttavia, potrebbe portare a qualche cambiamento le cui conseguenze andranno prese in considerazione. Per il momento, diverse autorità portuali hanno denunciato lo stallo invitando le parti a trovare un accordo, segnalando un sensibile calo nei volumi dei container a gennaio. Queste posizioni rivelano una tensione esistente tra il capitale investito nelle infrastrutture, quali appunto i porti e le reti a esso collegati, e quello investito nel trasporto marittimo, incluse le navi portacontainer. Le aurità portuali sono entità amministrative, in questo caso pubbliche, che di fatto possiedono i porti, il terreno sui quali questi sono costruiti e le infrastrutture connesse. Come spesso accade quando parliamo di infrastrutture, proprietà, gestione, operatività e utilizzo non coincidono e gli interessi dei soggetti coinvolti non sono immediatamente sovrapponibili. Il calo dei volumi causato da uno scontro tra gli shippers e lavoratori portuali comporta una generale riduzione della produttività che si scontra con l’esigenza di rendere produttivi gli impianti e non sottoutilizzarli dopo gli investimenti iniziali. I porti di Seattle e Tacoma denunciano un calo nella movimentazione container del 13% rispetto a gennaio 2014. Quello di Oakland addirittura del 34%. In generale, l’utilizzo delle gru è calato da 26/28 movimentazioni di container all’ora a meno di 18. La relazione tra la disputa in corso e questi numeri è probabilmente meno univoca di quanto questi dati suggeriscano, ma è comunque utile alle autorità portuali per sottolineare l’importanza della West Coast per il sistema logistico e produttivo statunitense e, mentre si rivendica una voce all’interno di quanto sta succedendo, puntare il dito contro lo stato di congestione e spingere verso nuovi investimenti.

La corsa ad accaparrarsi una posizione di primo piano all’interno dei corridoi globali continua, portando con sé interessi crescenti e spesso confliggenti tra diverse frazioni del capitale, che possono però approfittare del modo in cui questi interessi si riflettono anche in una frammentazione delle lotte operaie lungo linee industriali che seguono le diverse mansioni e il loro dispiegarsi attraverso regimi giuridici e condizioni soggettive differenti tra loro. La già ricordata esperienza di Occupy Oakland riuscì a portare la critica della finanziarizzazione e del potere di Wall Street sul fronte del porto, ma c’è bisogno anche di altro e di comprendere quali relazioni vi siano tra i portuali e le altre figure del lavoro lungo la supply chain. Si tratta di pensare contemporaneamente come mettere in connessione le diverse parti della catena e come affrontare la stratificazione che interessa anche i singoli nodi della rete. Si pensi ad esempio alla protesta vincente delle 600 impiegate addette al data entry per i porti di Los Angeles e Long Beach, il cui posto di lavoro era minacciato dall’esternalizzazione verso Cina e Arizona, appoggiate dai portuali con otto giorni di sciopero. Il modello che paiono indicare le vicende dei portuali statunitensi della West Coast pare essere quello, non nuovo, di un’alternanza tra vertenze durissime, la cui efficacia dipende spesso dalla posizione specifica ricoperta dai settori di forza lavoro coinvolti, e accordi con la controparte.  Mentre è necessario riconoscere l’incisività tattica dell’organizzazione sindacale nelle singole vertenze, tuttavia, ne va segnalata l’insufficienza laddove proviamo ad allargare lo sguardo tanto per quanto riguarda la dimensione spaziale della produzione globale, quanto rispetto alla composizione di una forza lavoro mobile ed eterogenea. Se le fantasie della logistica pretendono di districare questa matassa pensando di poter imporre in ciascuno dei suoi nodi la sua logica globale, comprendere quali siano questi nodi per costruire invece nuove forme di comunicazione e organizzazione sul piano transnazionale è necessario per allargare il fronte del porto e portare sul piano materiale della supply chain tutto il potenziale delle lotte operaie che costellano l’arcipelago logistico.

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