venerdì , 22 Novembre 2024

Il capitale «apre» i confini: accumulazione e crisi del globale in Rosa Luxemburg

di MICHELE CENTO e ROBERTA FERRARI

Luxemburg AccumulazioneDopo l’introduzione al seminario dedicato a Riforma e Rivoluzione di Rosa Luxemburg che ∫connessioni precarie ha organizzato lo scorso autunno, pubblichiamo la seconda parte dedicata a una lettura fedele ma libera dell’accumulazione del capitale. Lo scopo principale  non è tanto una filologia politicamente corretta dell’opera di Luxemburg, ma la presentazione di alcuni spunti che partendo dalla sua analisi siano all’altezza della sua intelligenza e della sua coerenza.

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 «…esige un’illimitata libertà di movimento…e perciò una possibilità sconfinata di disporre di forza lavoro addizionale»

«Gli errori che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale», scrive Rosa Luxemburg in I problemi di organizzazione della socialdemocrazia. Vale forse la pena iniziare da qui perché, nelle pagine che seguono, ci occuperemo in fondo della fecondità degli errori, non del movimento operaio, ma di Rosa Luxemburg. Non è certo una novità che le tesi espresse dall’Accumulazione del capitale, volume che Luxemburg pubblica nel 1913, siano basate sull’assunto errato che l’affermazione mondiale del capitalismo coincida con la sua crisi definitiva. Quale significato può allora avere rileggerle oggi, nel momento in cui l’estensione globale del dominio capitalistico è direttamente proporzionale non solo all’inflessibilità del suo comando, ma anche alla rimozione di ogni scenario alternativo allo sviluppo capitalistico? Ha certamente ragione Slavoj Žižek quando sostiene che siamo capacissimi di immaginare la fine del mondo in seguito a un’invasione marziana, ma la catastrofe del capitalismo rimane per noi impensabile. La fecondità politica dell’errore di Luxemburg deve essere misurata allora su questa incapacità, non per trarre dalla sua oepra la via finalmente rischiarata per la rivoluzione, ma per acquisire strumenti utili alla comprensione del presente capitalistico, nel quale crisi e ripresa si giustappongono per consolidare il dominio del capitale sul lavoro che, nonostante le difficoltà organizzative, tenta sempre di sottrarsi agli imperativi che gli sono imposti, sia pure in maniera per lo più estemporanea. È cioè un presente di dominio e di lotta, di processi consolidati e di insorgenze improvvise, di rischi e di opportunità.

Fin qui, rientreremmo però ancora nell’ambito del «classico», inteso appunto come testo capace di parlare al presente. Un ambito irto di confini interpretativi, che vigila sulle letture dell’opera e le vaglia scrupolosamente. Insoddisfatti delle ottiche, spesso combacianti, che guardano alla terra degli errori o al cielo dei classici, abbiamo cercato di guardare dentro il processo di accumulazione descritto da Luxemburg, rinvenendo una pluralità semantica e una potenza politica che vale la pena valorizzare. Se l’accumulazione indica un moto proprio della modernità, la sua fenomenologia varia infatti a seconda dei contesti: essa indica il movimento del capitale, nella misura in cui indica quello del potere e dello scontro tra classi che accumulano forza, sia pur apparendo talvolta nient’altro che meccanismi di un impersonale processo di produzione. Non solo: seguendo fino in fondo l’analisi di Luxemburg, l’accumulazione sembra individuare il movimento del globale e dei «pezzi» che ne costituiscono l’assemblaggio. Non perché l’accumulazione indichi un cammino evolutivo, ma semmai perché esprime la politica del capitale nella sua connaturata tensione verso il globale. Dietro la più algida e scientifica delle opere di Luxemburg, si nasconde così la sua mappa della valorizzazione e della rivoluzione.

L’accumulazione del capitale

Rosa Luxemburg inizia la stesura dell’Accumulazione del capitale alla fine del 1912, quando si convince che nel II libro del Capitale di Marx vi sia un’incongruenza nella lettura del processo di riproduzione allargata. Fin dai tempi di Quesnay, l’economia politica classica vede nella riproduzione il processo che permette alla società di conservare un equilibrio tra offerta e domanda di prodotti – siano essi mezzi di produzione o mezzi di consumo – sicché il consumo di merci eguaglia la sua produzione. In altri termini, i redditi complessivi della società servono ad acquistare le merci prodotte da quest’ultima e consentire dunque la prosecuzione del processo produttivo. Per Marx questa è riproduzione semplice, ma a contrassegnare il processo capitalistico è in realtà la riproduzione allargata, dal momento che, scrive Luxemburg, «per ogni capitalista la produzione ha senso e scopo solo se gli permette, anno per anno di riempirsi le tasche […] del profitto, che rimane in eccedenza a tutti i suoi investimenti di capitale». E tale profitto deve essere «sempre crescente». In quest’ultima forma di riproduzione, i capitalisti non consumano tutti i loro redditi, ma ne risparmiano una parte per reinvestirla in nuovo capitale costante e variabile a beneficio della produzione di nuovo valore e non del consumo di merci. Un passaggio che consente una maggiore produzione di plusvalore, tanto che il conseguente incremento nella domanda di beni di consumo non intacca la logica dell’accumulazione che innesca invece un movimento progressivo e apparentemente inarrestabile. Da questo punto di vista, la logica dell’accumulazione capitalistica appare, infatti, inattaccabile: un argomento che sembrerebbe perciò dare ragione a chi imputava le crisi del sistema a irrazionalità e distorsioni emendabili attraverso un più sapiente uso degli strumenti offerti dalla macchina statale.

Le obiezioni di Luxemburg a Marx si muovono all’interno di questo schema. Anzitutto, Luxemburg sottolinea che l’accumulazione avviene solo nel momento in cui i capitalisti hanno venduto le merci. La realizzazione del loro valore sul mercato è condizione necessaria per appropriarsi sotto forma di denaro del pluslavoro estorto all’operaio nel processo di produzione. Senza la vendita, il plusvalore rimarrebbe ingabbiato nella merce e non potrebbe dunque essere capitalizzato. Affinché tutte le merci siano vendute occorre però che ci sia qualcuno che le compri. Chi sono i compratori, si domanda Luxemburg? La risposta a questa domanda non dipende dalla generosità del capitale ma da «rapporti sociali obiettivi». Dal momento che il capitalismo condivide con le altre forme storiche di produzione del passato l’esigenza di soddisfare le necessità materiali della società, «le merci capitalistiche possono essere vendute solo se e in quanto soddisfino i bisogni della società». Perché il moto progressivo dell’accumulazione venga costantemente alimentato occorre allora che il fabbisogno sociale cresca. Ma come è possibile? Affinché ci sia simmetria tra produzione e fabbisogno e quindi continuità dell’accumulazione occorre rifiutare l’ottica del capitalista singolo e ragionare dal punto di vista del capitale nel suo complesso, il che comporta la ricerca delle norme e dei codici sociali che consentono un processo di produzione che, sebbene guidato da capitalisti interessati solo al loro profitto, coinvolge l’intera società. La possibilità di realizzare le merci prodotte da un capitalista e dunque la possibilità di allargare la sua produzione dipenderebbero in definitiva dall’allargamento della produzione degli altri capitalisti, che in tal modo disporrebbero di maggiori risorse per acquistare le sue merci. E viceversa. Fin qui l’accumulazione sarebbe una «faccenda domestica», una questione interna alla classe capitalistica. L’allargamento complessivo della produzione comporterebbe la messa al lavoro di nuovi operai e quindi un incremento nella loro capacità di acquistare merci. Eppure, il salario è la forma che il capitale variabile assume quando finisce nelle mani degli operai e in altri termini è sempre denaro del capitale, se non altro perché nell’atto stesso in cui gli operai acquistano merci, che per definizione appartengono al capitalista, essi «restituiscono» a quest’ultimo il loro salario. Come osserva Luxemburg, seguendo questa tesi si arriverebbe alla tautologica conclusione che «quanto più il capitale accumula, tanto più accumula». Una tautologia a ogni evidenza insufficiente a rintracciare «il vero obiettivo del capitale: il profitto destinato alla capitalizzazione, all’accumulazione». In effetti, Luxemburg osserva che l’accumulazione del capitale non potrebbe avvenire se spettasse agli stessi capitalisti il ruolo di acquirenti di quella massa di prodotti che contengono il profitto destinato alla capitalizzazione. Se impiegassero, oltre un certo limite, denaro per l’acquisto di merci e lo sperperassero per articoli di lusso, essi commetterebbero «un peccato mortale contro lo spirito santo del capitale», che comanda di accumulare denaro-capitale e non merci. Né la soluzione può essere rinvenuta tra gli operai, poiché il salario è tarato sul loro essere non «clienti» ma pura forza-lavoro da riprodurre. Sarebbe dunque un assurdo logico pensare che siano gli operai coloro i quali possono risolvere il problema dell’accumulazione del capitale. D’altro canto, ogni spiegazione che ricorra al ruolo del ceto medio e delle «terze persone» è destinata a fallire. Le professioni legate al ceto medio sono infatti appendici della classe capitalistica ed esse ricavano il loro reddito o dai capitalisti medesimi o dalla classe operaia sotto forma di imposte indirette, ovvero da chi produce valore attraverso lo sfruttamento oppure attraverso il lavoro. Nel quadro cioè di una società ideale interamente capitalistica e chiusa al mondo circostante non capitalistico, l’accumulazione, conclude Luxemburg, è impossibile. È questa l’incongruenza che lei rinviene nello schema della riproduzione allargata di Marx, il quale appunto si serviva di un modello di società astratta composta da soli capitalisti e operai. L’accumulazione risulta possibile per Luxemburg soltanto finché esistano strati sociali e spazi non capitalistici da sottoporre al dominio del capitalismo. Soltanto, cioè, fino a quando il meccanismo dell’accumulazione intravisto da Marx non si sia esteso fino all’intero territorio mondiale. A dispetto di Werner Sombart, nella «maturità piena» del capitale, sono le sue forme fenomeniche a mutare, non la sua logica interna. Inteso in questo senso, il «capitalismo maturo» è un capitalismo che ha imposto la legge dell’accumulazione all’intero globo. Il capitalismo può allora cambiare volto, può perfino assumere una faccia umana per alcuni soggetti – di norma, maschi e bianchi – ma non può sottrarsi a tale legge se vuole mantenersi fedele a se stesso, senza cioè «de-generare» verso un diverso modo di produzione. Creare le condizioni per l’accumulazione del capitale significa allora individuare continuamente spazi di non conformità al capitale, all’interno dei quali avviare processi di valorizzazione. In un mondo come il nostro, saturato dalle sue leggi, può perfino significare la riconversione di spazi originariamente destinati a garantire la riproduzione sociale in luoghi di una rinnovata, ma ugualmente feroce, accumulazione. Proprio perché l’accumulazione capitalistica – e qui risiede la novità di questo modo di produzione – necessita di tutta la società, di tutto il suo spazio, non può limitarsi a valorizzare ciò che è già in corso di valorizzazione, ma deve creare artificialmente le condizioni per realizzare una mobilitazione totale in vista dei suoi fini.

Tanto più che, già per Luxemburg, tali strati e società non capitalistici non sono situati solo in aree extraeuropee, ma coesistono all’interno di paesi che già presentano un elevato sviluppo del modo di produzione capitalistico. Ciò che intuisce Luxemburg, ma anche in questo ci sembra in linea con la riflessione marxiana, è che «il capitale non può fare a meno dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro dell’intero globo». In tal senso, il capitalismo «procede innanzi in continuo ricambio organico» con l’ambiente non capitalistico. Se il merito di Luxemburg risiede proprio in questa capacità di situarsi al limite estremo del capitalismo per registrare come la sua affermazione dipenda in ultima analisi dall’imporre le proprie leggi su quel confine, il suo errore sta nell’assolutizzare questa decisiva acquisizione teorica. In altre parole, affermare che il capitalismo «può esistere solo finché trova attorno a sé quell’ambiente [non capitalistico]» non è corretto, ma indica e permette di ragionare su un problema reale del capitalismo.

Se non altro perché la lettura con cui Paul Sweezy liquida l’analisi di Luxemburg appare tarata su una fase dello sviluppo capitalistico definitivamente tramontata. Per Sweezy, l’errore di Luxemburg risiede nell’aver escluso la possibilità di un aumento generalizzato dei consumi, tale da superare le interruzioni cicliche nel processo di accumulazione. Quell’aumento, che sembrava dare nuova linfa ai meccanismi di riproduzione allargata, si inseriva però in una stagione di lotte che avevano permesso un’accumulazione di potere sociale sia sul terreno del salario sia su quello delle prestazioni di welfare. La destabilizzazione operata dall’irruzione dell’ordine neoliberale di quell’assetto di potere sociale, di quell’equilibrio tra le forze di produzione mediato e regolato dallo Stato, ci mette nuovamente di fronte al mistero dell’accumulazione, senza neanche fornirci un appiglio sicuro per seppellire gli errori dei nostri morti. Se Luxemburg non riesce a concepire un mondo uniformemente dominato dal capitalismo, concepisce però assai bene quanto inossidabili siano certe abitudini del capitale. Ammettere i torti di Luxemburg non ci impedisce allora di riflettere su quanto l’impoverimento materiale, il depauperamento dei legami sociali, la devastazione fisica e naturale, l’appropriazione sfrenata di tutto ciò da cui si possa estrarre valore costituiscono il quadro di un processo di accumulazione che tende a riproporsi con certe caratteristiche costanti. Risiede qui un lato della fecondità dell’errore di Luxemburg, che ci consente di verificare quanto valore venga estratto non solo dal nostro lavoro in senso stretto, ma anche dal nostro welfare, dal nostro modo di fare – e disfare – società e, perfino, dai nostri movimenti quando c’è un confine di mezzo. Un’estrazione che non cessa di affermarsi anche quando il capitalismo sembra ormai privo di un «fuori», di un «non-capitale» da piegare alla sua logica. Nel momento in cui il capitale esercita un dominio esclusivo sul globo, l’accumulazione deve dunque riuscire nella funambolica impresa di creare un «fuori» all’interno del sistema capitalistico. Si intuisce così la potenza raggiunta dal capitalismo, ma anche la crescente difficoltà di garantire la sua riproduzione riconfigurando continuamente rapporti di potere apparentemente consolidati. Tanto più che ragionare in termini luxemburghiani sul dilemma dell’accumulazione ci impone di sfuggire a ogni tentazione economicistica e di porre il problema in termini politici. Ovvero, in termini di rapporti di potere da cui l’esito del processo di accumulazione e la possibilità di rovesciarlo concretamente dipendono. Proprio perché punta «all’intero globo», sia pure arrestandosi alle sue soglie, sul piano politico l’accumulazione descritta da Luxemburg disegna uno scenario all’interno del quale è possibile ricostruire una trama globale delle lotte. Una trama incerta e irregolare, ma che evoca la possibilità di connettere singole insorgenze attorno a una comune opposizione alle molteplici facce dell’accumulazione. È questo l’altro lato della fecondità dell’errore di Luxemburg che, a modo nostro, ci interessa valorizzare.

L’accumulazione del potere

Hier ist die RoseNon ci siamo dilungati su debolezze e potenzialità dell’analisi luxemburghiana per amore di filologia, ma perché la sua lettura dell’accumulazione capitalistica sollecita una serie di riflessioni attorno al concetto stesso di accumulazione e alla possibilità di mettere in evidenza il lato politico del meccanismo accumulativo.

L’accumulazione, secondo Luxemburg, avviene solo quando il plusvalore estorto ai lavoratori viene realizzato e viene trasformato in capitale per far ripartire il processo di produzione. Politicamente, ancor più che tecnicamente, l’accumulazione è allora realizzazione dello sfruttamento. È in questo senso che l’accumulazione di capitale diventa anche accumulazione di potere sociale da parte del capitale. Ed è solo attraverso l’accumulazione che il capitale può prolungare, in maniera apparentemente indefinita, l’esercizio del suo dominio sul lavoro. Se non ci fosse accumulazione, in altri termini, il capitale non avrebbe le risorse per proseguire lo sfruttamento dei lavoratori, che è il perno attorno a cui ruota la riproduzione della società. L’accumulazione diventa quindi il moto specifico della società capitalista. Essa, come già aveva osservato Marx nel Capitale, contiene nel suo codice genetico il meccanismo di accumulazione e si serve di apparati di potere non solo di tipo economico, ma anche politico e ideologico, per piegare il mondo alle leggi della valorizzazione. Anche nella sua fase di pieno sviluppo il capitalismo continua a funzionare secondo il meccanismo dell’accumulazione, ovvero a sottomettere alla logica dell’accumulazione capitalistica le forme storiche di produzione precedenti.

Considerata in questi termini, l’accumulazione non può essere un processo lineare e/o evolutivo. Nella sua avanzata si nasconde sempre il rischio della mancata realizzazione; in  questo senso, la colpa del riformismo è di nutrire una fiducia sconfinata nelle sorti progressive del capitalismo. Al contrario, per Luxemburg l’accumulazione è sempre un processo che si dà in uno spazio disomogeneo e irto di contraddizioni, dalle quali evidentemente emerge la resistenza da parte dei produttori degli ambienti non-capitalistici. Stando alle pagine di questo volume, si tratta tuttavia di una resistenza flebile e destinata alla sconfitta di fronte all’avanzamento apparentemente inarrestabile del capitale. Una resistenza che quindi non è ancora lotta di classe. Eppure, se connettiamo questi segnali di resistenza alla visione più propriamente politica espressa nelle opere precedenti, ovvero se proviamo a palesare il contenuto politico celato sotto pagine dense di teoria economica, l’accumulazione si rivela un processo ambiguo, che mostra le intrinseche debolezze del capitalismo. In altri termini, dentro l’accumulazione apparentemente irresistibile del capitale si mostra in maniera incancellabile la presenza ingombrante della classe operaia.

Non solo gli ostacoli all’accumulazione provengono dai meccanismi contraddittori dello stesso capitalismo che, una volta realizzata una società fatta di soli capitalisti e operai, sarebbe destinato a crollare, ma la lotta di classe operaia può essere definita come lotta contro l’accumulazione. Questo è infatti il cuore del meccanismo capitalistico, ma anche il suo punto debole: la scommessa a cui il capitalismo non può rinunciare dato che la produzione di merci presuppone sempre un azzardo, che è perfino l’argine ideologico a difesa della proprietà privata. D’altronde, se la lotta di classe è lotta per emanciparsi dalla classe, essa deve avere come obiettivo primario proprio l’accumulazione, in quanto condizione stessa della riproducibilità dello sfruttamento. E non a caso il momento rivoluzionario irrompe proprio quando l’accumulazione entra profondamente in crisi, producendo tensioni, guerre e catastrofi. Un’annotazione che è bene tenere in mente quando si evoca, per esempio, il presunto spontaneismo di Rosa Luxemburg. Per quest’ultima, la rivoluzione necessita di condizioni sociali oggettive e, se può darsi anche in contesti non segnati dal pieno sviluppo capitalistico come la Russia, deve comunque fare i conti con lo stato dei rapporti di potere tra le forze sociali antagoniste, di cui il processo stesso dell’accumulazione sembrerebbe essere un indicatore. Essa non è un atto che può darsi sempre, ma un processo organizzativo (abbiamo visto perché diverso dall’organizzazione leninista) all’altezza dello sviluppo dei rapporti di produzione e che si articola nelle contraddizioni innescate dalla crisi.

Ci sembra qui interessante segnalare che l’itinerario successivo alla crisi del processo di accumulazione non è così univoco come appare a prima vista. In primo luogo perché la crisi del processo di accumulazione non equivale a una semplice crisi economica, ma a una vera e propria crisi del processo di produzione di potere sociale. Sicché, è vero che il destino del capitalismo è segnato, ma spetta alla classe operaia internazionale il compito della «rivolta […] al dominio del capitale, prima ancora che, sul terreno economico, esso [il capitalismo] sia andato a urtare contro le barriere naturali elevate dal suo stesso sviluppo». Luxemburg coglie non solo la centralità del soggetto operaio nel processo rivoluzionario, ma ci offre anche uno spunto per affinare i nostri strumenti di fronte alle sottigliezze del capitale. Le vie di quest’ultimo sono infinite, ma hanno dei passaggi obbligati. Uno di questi, il principale, è l’accumulazione, il punto dell’intero processo in cui il capitale acquista potere ma è anche più vulnerabile. Da questo punto di vista, non solo l’accumulazione è accumulazione di potere sociale da parte dei capitalisti, ma è anche opportunità di accumulazione di potere politico da parte operaia.

L’accumulazione del globale: lo Stato, le imposte, la guerra

Per Luxemburg l’accumulazione è soprattutto trasformazione e violenza necessari alla normalizzazione dei rapporti di produzione capitalistici. Il capitale, scrive Luxemburg con espressioni che anticipano Fanon, ha bisogno di altre razze – e in questo senso della differenza, arbitraria o meno che sia – «di disporre senza limiti di tutte le braccia del mondo»: l’assorbimento e la messa a lavoro di queste «razze» da parte del sistema salariale capitalistico costituisce una delle basi storiche necessarie del capitalismo.

Innanzitutto Luxemburg mette in primo piano la dimensione inevitabilmente globale dell’accumulazione e lo fa mostrando che il capitale si libera dei confini spaziali ed economici per crearne di nuovi interni, sociali e politici. Il capitale, arrivato al confine del suo regno, «si apre una strada» al di fuori. Questa strada è stata storicamente la ferrovia, veicolo dell’accumulazione. Nell’aprirsi questo varco all’interno dell’ambiente non capitalistico, il capitale introduce il «fuori» all’interno del processo capitalistico. Questo «fuori» entra a far parte del processo e ne permette la riproduzione allargata: esso è dunque una parte del suo meccanismo, è lo spazio dove è possibile l’accumulazione. La differenza spaziale del «fuori» diventa, nel tentativo del capitale di imporre l’uniformità del proprio tempo, il «non ancora» misurato sulla scala della temporalità omogenea del capitale. A ben vedere però, oltre Luxemburg, si può osservare che la traduzione geografica della dialettica tra dentro e fuori rischia di essere fuorviante. Esattamente come il «non ancora», anche il «fuori» è già il frutto di un’astrazione circa l’esigenza del capitale di estendersi indefinitamente e di esercitare in maniera differenziale il suo dominio. Questo tentativo, però, non riesce mai completamente e, proprio su quel terreno irto di contraddizioni che la stessa Luxemburg ha messo in luce, noi vediamo emergere una geografia composita e disomogenea di differenze. La dialettica dentro–fuori è per Luxemburg il movimento essenziale dell’accumulazione, un movimento dove tutto, anche ciò che non è capitale, diventa capitale. La sua illimitata estensione, la sua espansione sconfinata produce, però, anche quello che Luxemburg non può ancora vedere compiutamente: un cortocircuito proprio di quel dentro-fuori, una disomogeneità interna e trasversale ai confini, geografica e politica, che emerge però, più che nella sua analisi dello sviluppo dello spazio non capitalistico, nell’insistenza sugli ostacoli che l’accumulazione incontra proprio perché politicamente quello spazio esterno non è omogeneo e vuoto come vorrebbe il capitale. Esso è uno spazio esterno solo nel momento esatto in cui il capitale se ne appropria.

Il processo di accumulazione del capitale è legato alle forme di produzione non capitalistica attraverso tutti i suoi rapporti materiali e di valore: capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Mercato interno e mercato esterno, allora, sono per Luxemburg concetti dell’economia sociale e non della geografia politica, sono cioè spazi del capitale. Il processo storico di accumulazione si svolge perciò sulla scena non capitalistica del mondo e non può esistere senza di essa. Questo processo deve inoltre avvenire seguendo strade precise e inevitabili. Luxemburg individua perciò tre fasi dell’accumulazione: la lotta del capitale contro l’economia naturale; la lotta contro l’economia mercantile semplice e la lotta di concorrenza fra i capitali su scala mondiale per le residue possibilità di accumulazione. Gli scopi economici della prima sono: impadronirsi di risorse, «liberare» forza lavoro per costringerla a lavorare per il capitale, introdurre l’economia mercantile, e separare agricoltura e artigianato. La distruzione e l’annientamento delle comunità sociali non capitalistiche sono quindi essenziali per questo processo, per la realizzazione di plusvalore e per il rinnovo del capitale costante e variabile. Anzi questo processo, per Luxemburg, non è provvisorio ma perdura.

Emerge evidentemente una concezione stadiale dello sviluppo capitalistico e una visione naturalistica dello spazio. Tuttavia, l’attenzione di Luxemburg al carattere non semplicemente progressivo del tempo del capitale complica anche la sua concezione dello spazio, rilevando la compenetrazione di capitalistico e non capitalistico e soprattutto mettendo in primo piano le sovrapposizioni politiche tra l’uno e l’altro. Il perdurare del processo di distruzione del capitale mostra una differenziazione spaziale che non è dominata interamente dall’azione del capitale, ma che il capitale può sempre giocare e valorizzare a suo vantaggio.

Se partiamo dal fatto che la dialettica dentro-fuori è oramai insufficiente, oltre che fuorviante per comprendere la dinamica del capitalismo globale, possiamo tuttavia rilevare la permanenza della sua logica sottostante: non si tratta più un dentro e un fuori geografico, o di un dentro e un fuori temporale, ma di spazi di accumulazione creati sulle possibilità ulteriori di sfruttamento. Una volta diventato globale, il capitale si ritrova infatti con lo stesso problema che segnala Luxemburg: il suo fuori oggi è necessariamente un dentro ma la dinamica di devastazione necessaria per la sua accumulazione rimane la stessa. Ciò di cui Luxemburg sembra consapevole è il fatto che il capitale crea il suo “fuori” innanzitutto impoverendo e immiserendo spazi ulteriori.

Per Luxemburg la concorrenza pacifica nel capitalismo, e quindi l’omogeneizzazione dello spazio e del tempo globale, non è che una vana illusione che presuppone che l’accumulazione capitalistica possa fare a meno delle forze produttive e della domanda delle strutture sociali primitive. Il capitale divora un «fuori» che deve rimanere tale per essere produttivo, non può cioè mai essere del tutto fagocitato nel «dentro» del capitale, non può coincidere con esso, né d’altra parte può restare com’è. In effetti, questo è un paradosso tanto falso quanto vero: il capitale diventando globale ha mostrato di poter fare a meno delle strutture sociali primitive e anzi di sfruttarle mettendole a valore, inglobandole. Tuttavia, una qualche struttura di questo tipo resta necessaria e in modi diversi il capitale continua oggi a produrre spazi, zone, corridoi, o anche solo livelli sempre nuovi di precarizzazione, dove è possibile sfruttare e impoverire, cioè accumulare, su una scala diversa non di spazio ma di valore. Non si tratta qui di una questione geografica, ma di rapporti sociali che il capitale è costretto a riprodurre al suo interno per accumulare. Possiamo dire che l’impoverimento è oggi il nome dell’accumulazione capitalistica, così come lo è la coazione al lavoro di fabbrica in ampie regioni del pianeta. In questo senso l’insistenza di Luxemburg sulla violenza e sull’imprescindibilità dell’accumulazione originaria è l’intuizione di un problema cruciale del capitale globale.

Proprio dai limiti delle concezioni luxemburghiane emerge il problema che il capitalismo globale ci pone oggi davanti e cioè quello di una disarticolazione della frontiera che complica la geografia del capitale, producendo una moltiplicazione di «fuori» interni al capitale. Il testo di Luxemburg si muove sulle soglie del globale, e pur non cogliendo interamente la dimensione politica specifica di questo movimento, vede il suo tratto distintivo e mostra l’impossibilità di un dentro/fuori del capitale dominato da una legge unica e immutabile. Proprio il perdurare di un rapporto di violenza, cioè di una costante e mai definitiva trasformazione del «non capitalistico», lascia intravedere spazi regolati in modo differenziato, che vanno costretti al tempo del capitale con la forza. In questo senso, le strade precise e inevitabili che questo movimento globale del capitale percorre non hanno come esito per Luxemburg uno spazio pacificato e uniforme. La concezione luxemburghiana dell’accumulazione non può, come è ovvio, pensare il presente globale, ma mostra in maniera incredibilmente attuale l’accumulazione come problema che non si esaurisce varcando le frontiere. L’apertura dei confini di cui ci parla Luxemburg, pur partendo da una concezione naturalistica dello spazio, contiene importanti indicazioni per ragionare sul capitalismo andando oltre una concezione statica e uniforme dello spazio e dei rapporti sociali, e individuando contemporaneamente elementi costanti del suo percorso, in base ai quali è necessario ripensare l’organizzazione politica.

L’unica soluzione del capitale al problema dell’accumulazione è infatti la violenza, assieme con il crescente militarismo, sostenuto dallo Stato. Nella fase di accumulazione primitiva il militarismo ha giocato un ruolo centrale per la conquista e la subordinazione delle colonie. Dal punto di vista economico, esso è uno strumento eccellente per realizzare il plusvalore, cioè come campo di accumulazione. Luxemburg ammonisce così a non pensare che si possano raggiungere stadi di definitiva marcescenza del capitalismo, ma osserva l’emergere di fenomeni strutturali che si ripresentano ciclicamente con intensità diversa. Solo scaricando sulla classe operaia i costi di mantenimento degli impiegati e dei militari, i capitalisti liberano plusvalore da capitalizzare. Non si dà però già la possibilità di capitalizzazione, perché non si è creato nuovo sbocco per produrre nuove merci con questo plusvalore realizzato: questo sbocco è offerto dallo Stato. La domanda dello Stato si rivolge a una categoria specifica di prodotti: gli strumenti bellici del militarismo. Si estorce così la stessa massa di plusvalore senza dover cedere alla forza lavoro la stessa quantità di mezzi di sussistenza. Contemporaneamente, l’impiego delle imposte estorte ai lavoratori per la produzione di mezzi bellici offre al capitale una nuova possibilità di accumulazione, perciò è il capitale ad anticipare le imposte allo Stato, perché è al capitalista che esse saranno restituite. Qui sta un aspetto estremamente significativo dell’analisi luxemburghiana del ruolo politico del militarismo: non si tratta tanto di una smania irrefrenabile dello Stato per la guerra, ma della necessità dello Stato di «governare» la guerra. La guerra non è semplicemente un’arma di distruzione, ma una precisa modalità di estrazione di plusvalore, libera dall’onere di riprodurre la classe operaia. In questo senso nessun pacifismo coglie il bersaglio cruciale che non è la guerra in sé ma ciò che la rende appetibile agli Stati.

La violenza dello Stato si esplicita però anche sotto forma «legale», se vogliamo dare questa etichetta ai meccanismi fiscali. Il sistema delle imposte opera infatti trasformando l’economia contadina in economia mercantile: il contadino è costretto a trasformare in merci il suo prodotto, e contemporaneamente ad acquistare i prodotti del capitale. Il risparmio ipotetico dei contadini diventa nelle mani dello Stato una domanda e una possibilità d’investimento per il capitale. In questo senso, Luxemburg può dire che il colonialismo e la sottrazione di potere d’acquisto agli strati non capitalistici dei paesi d’origine – che il capitale ottiene con la guerra – danno fuoco alla miccia dell’accumulazione. La politica coloniale permette poi con la violenza di fare dell’accumulazione un processo potenzialmente infinito, nel tempo e nello spazio, in grado cioè di alimentare continuamente se stesso: la politica coloniale è la nuova macchina del tempo del capitale ma ogni suo viaggio è distruzione. Le grandi opere del passato non sono agli occhi del capitale che cibo per il presente, indispensabile a placare quella «fame divorante» incapace di pensare il domani e, perciò, anche di capire il valore del passato. La distruzione del passato è la moneta del progresso, il suo prezzo necessario. Luxemburg non considera questo fatto come un semplice dato, il costo necessario del progresso, ma descrive nei dettagli la brutalità e l’orrore della colonizzazione inglese e francese come condizione stessa dell’accumulazione. Il problema di Luxemburg non è però di natura morale ma politica; si tratta di comprendere il volto esterno del capitalismo e della sua condizione-limite necessaria per pensare la possibilità della rivoluzione.

L’accumulazione del globale: il capitale, l’impero, la classe

Un momento centrale di questa prima fase è dunque l’inserimento delle comunità a economia naturale, una volta distrutte, nel traffico commerciale e nell’economia mercantile. Qui il capitale «si apre la strada», squarciando e separando. Il capitale può strappare con la forza i mezzi di produzione alle comunità e costringerle con la violenza a farsi sfruttare, ma non può costringerle a realizzare il suo plusvalore acquistando le sue merci. Per questo sono necessarie le grandi opere di civiltà dei moderni sistemi di comunicazione: ferrovie, navi, canali, cioè «rapina, sfruttamento e frode, perpetrati sotto la bandiera del commercio». Luxemburg non si limita a esporre fatti o eventi storici, ma descrive la natura e il volto del processo capitalistico, il ritmo del suo incedere, il suo linguaggio.

Gli ambienti non capitalistici non sono soltanto bacino da cui prelevare. Il capitale deve trasformare la massa rurale in acquirente delle sue merci e perciò inizialmente mira a ridurre l’economia contadina all’unico ramo di cui non può immediatamente impadronirsi, cioè l’agricoltura. Una volta impoverito il contadino, ed essendo questi costretto ad abbandonare il suo terreno, le società capitalistiche private possono accaparrarsi senza difficoltà interi terreni pubblici del tutto abbandonati. Nel frattempo il capitale sostituisce i contadini con gli affittuari, «veri schiavi salariati del capitale», e li costringe ad acquistare prodotti capitalistici, compiendo così il suo piano.

Questo processo di frantumamento altro non è che la fase imperialistica dell’accumulazione, la quale segue metodi specifici: prestiti esteri, costruzione di ferrovie, rivoluzioni e guerre. I prestiti internazionali costituiscono la contraddizione intrinseca della fase imperialistica: essi sono allo stesso tempo mezzi indispensabili per l’emancipazione degli Stati capitalistici in ascesa e armi di controllo nelle mani degli Stati capitalistici tradizionali che dirigono la loro politica estera, doganale e commerciale. Lo scopo della produzione capitalistica non è infatti il consumo, ma la domanda, nuova o determinata con la forza, da parte di altri e non delle sue classi, lavoratrice e capitalistica. Qui sta quell’assolutizzazione che è stata a ragione criticata e che tuttavia permette a Luxemburg di osservare il modo in cui il capitale attraversa i confini e ne produce di sempre nuovi, di osservare cioè l’essenza del suo dominio. Il risultato non è solo la crescente accumulazione di capitale, ma anche una sempre più vasta «sfera d’interessi» necessaria all’ulteriore espansione politica ed economica, ad esempio, del capitale tedesco in Turchia, e la rapida decomposizione, rovina e dissanguamento dei contadini asiatici a opera dello Stato turco, che a sua volta sviluppa una crescente dipendenza finanziaria e politica dal capitale europeo. Il capitale diventa, a un tempo solo, l’artefice della domanda nei paesi esteri, della rovina di quei sistemi di produzione e perciò della loro dipendenza. È così compiuto il suo dominio funzionale all’accumulazione.

Luxemburg esplora i movimenti del capitale nel mondo, nel suo fuori/dentro, in quel processo di inglobamento che serve all’accumulazione, ma anche come processo sempre incompiuto di differenziazione:

Il capitalismo è la prima forma economica dotata di una forza di propagazione; una forma che reca in sé la tendenza immanente a espandersi in tutto il mondo e a espellere tutte le altre forme economiche; una forma che non ne tollera altre accanto a sé. Ma nello stesso tempo la prima che non può esistere da sola, senza altre forme economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a divenire forma economica mondiale, s’infrange contro l’incapacità intrinseca a essere una forma mondiale di produzione. È una vivente contraddizione storica; il suo moto di accumulazione è insieme l’espressione, la soluzione continua e il potenziamento di un’antitesi interna.

L’antitesi interna non è il fuori, ma il fatto che senza acquirenti non-capitalisti e non-operai, come i contadini turchi, non è possibile accumulazione.  Senza un costante impoverimento materiale e politico l’accumulazione incontrerebbe a un certo punto un limite.

Questa incapacità a farsi «mondiale» e la messa a valore continua di questa «antitesi interna» – il cortocircuito del dentro/fuori mondiale – che Luxemburg mette in luce, ci sembrano paradossalmente connessi con quella dimensione globale con cui facciamo i conti oggi, dove il capitale fa apparentemente a meno di acquirenti non capitalisti e non operai, creando però continuamente gli «altri» di cui ci parla Luxemburg, attraverso una destrutturazione della cittadinanza e del lavoro come rapporti sociali dati. L’accumulazione si dà in altri termini attraverso una sottrazione di reddito e di libertà di movimento, di welfare e di salario, che passa per la violenza dello Stato. Detto altrimenti, possiamo chiederci cos’è il non capitalistico per l’accumulazione nell’epoca del capitalismo globale.

Non sorprende la rilevanza che quest’opera ha assunto per gli studi postcoloniali: proprio quelle «condizioni di frontiera» di cui ci parla la studiosa chicana Gloria Anzaldúa, emergono nel testo di Luxemburg nei termini della violenza, della rovina, della guerra e della resistenza. Il lato dell’accumulazione che ha per arena la scena mondiale, per protagonisti il capitale e gli ambienti non capitalistici, non ha problemi di forma, istituzionale o morale ‒ «la politica coloniale, il sistema dei prestiti internazionali, la politica delle sfere d’interesse, le guerre», e «costa fatica identificare sotto questo groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi ferree del processo economico». Non è il dominio politico che qui interessa a Luxemburg, ma il modo in cui esso agisce attraverso le leggi ferree del processo economico. Questo aspetto, conclude Luxemburg, non è infatti, come la teoria liberal-borghese vorrebbe, un insieme di più o meno accidentali manifestazioni delle relazioni internazionali. Al contrario, la violenza politica è qui il veicolo del processo economico: è nel continuo rimando tra queste due facce che si compie il ciclo storico del capitale.

Nel descrivere la violenza e il dominio esercitato dalla politica coloniale come condizione del processo di accumulazione, Luxemburg non pensa però la possibilità della rivoluzione nei termini di un’immediata sollevazione delle comunità oppresse. Esse sono a quest’altezza ferocemente sovrastate dalla potenza del capitale, dominate, sconfitte. Portare dentro il «fuori» non capitalistico non significa quindi per Luxemburg solamente valorizzarlo, ma piuttosto spremerlo, usarlo: è proprio la devastazione e l’impoverimento il modo di valorizzazione del capitale. Luxemburg si sofferma sulla brutalità e sulla violenza del capitale che sovrasta completamente i modi di produzione non capitalistici, le loro storie e il loro passato, determinando totalmente il loro futuro. Non è però una celebrazione dell’enorme potenza del capitale, perché è proprio con la devastazione che si dà a un certo punto, ma «un attimo prima che», l’impossibilità dell’accumulazione e perciò l’occasione della rivolta. Questo meccanismo perfetto, oliato di sangue e fango, incontra un ostacolo proprio nelle condizioni che esso stesso ha determinato, proprio nel suo processo di valorizzazione distruttiva. Tanto più questo processo di accumulazione deprime il livello di vita di tutti i ceti tanto più si trasforma in un susseguirsi di catastrofi e convulsioni politiche e sociali che, assieme alle crisi economiche periodiche del capitalismo, rendono man mano «impossibile l’accumulazione e necessaria la rivolta della classe operaia». C’è qui evidentemente uno scarto tra le convulsioni di altri ceti (che non sono la classe operaia) e la rivolta della classe operaia e che apre un problema sul soggetto politico del discorso di Luxemburg che resta irrisolto, e contemporaneamente indica la rilevanza di una comunicazione e connessione politica che in realtà non è mai data spontaneamente come conseguenza dello sfruttamento o della devastazione.

Con Gayatry C. Spivak potremmo allora chiederci can the subaltern speak? Il testo luxemburghiano non ci offre risposte, ma la sua riflessione sulla violenza e sulla disarticolazione del dentro/fuori come esito dell’antitesi interna del capitale, ci permette di ripensare i limiti e le opportunità della rivoluzione e delle lotte in un orizzonte globale. Ciò che ci sembra utilmente evocativo è l’audace pretesa, tutta politica, che Luxemburg ha di andare oltre le differenze. Non si può dire che Luxemburg non le veda, per quanto la loro specificità sia sempre e solo un effetto della ferocia capitalistica, ma la descrizione dello spazio globale non è la questione politica cruciale del testo luxemburghiano, tantomeno lo è la valorizzazione delle differenze, se non nella misura in cui esse producono estensione dello sfruttamento e connessioni politiche globali.

Il soggetto di queste lotte è infatti per Luxemburg sempre la classe operaia globale, vale a dire che la connessione tra classe operaia interna ai paesi capitalistici e le comunità devastate, o le nuove classi operaie da esse scaturite, è pensata prima di tutto politicamente. Quello che ci interessa valorizzare a partire da Luxemburg è, dunque, una riflessione politica sulla dimensione completamente globale della lotta di classe.

Il capitalismo è «forma storica dell’organizzazione della società moderna», e «il commercio mondiale è una condizione storica di esistenza del capitalismo». Il suo ordine è «la ferrovia davanti e la rovina dietro», vale a dire che nel momento del suo dispiegarsi il capitale è vincente, domina, «si apre la strada» ed è poi la sua stessa contraddizione a tradirlo, creando la possibilità della sua fine, cioè della presa di potere. Il capitale vince finché non è sconfitto. Questa sconfitta è data per Luxemburg da una simultaneità fondamentale tra convulsione generata dalla devastazione capitalistica e necessità ineliminabile della rivolta, cioè presenza del soggetto globale della lotta. Questa pretesa unità e simultaneità è tanto problematica quanto utile per ripensare oggi i processi di soggettivazione politica. Per Marx come per Luxemburg «la rivoluzione sociale non può prendere la sua poesia dal passato ma soltanto dal futuro».

Una teoria politica della crisi

Per Luxemburg, il movimento del capitalismo genera dunque le condizioni oggettive, ovvero le contraddizioni insolubili, che rendono la sua riproduzione impossibile. Il socialismo è appunto il superamento dialettico della «cattiva infinità» in cui ricade il capitalismo. In questo senso, la realizzazione del socialismo necessita di una negazione radicale e oggettiva a un processo capitalistico che si pretende esclusivo e onnipotente. Una negazione che si manifesta in primo luogo come rovesciamento del meccanismo accumulativo.

Rivoluzione, accumulazione e crisi sono dunque per Luxemburg profondamente intrecciate nella dinamica strutturalmente contraddittoria del capitalismo. Nella misura in cui la teoria luxemburghiana dell’accumulazione è un’analisi della legge di moto del capitalismo, essa rappresenta altresì una teoria della sua crisi. Tuttavia, mentre l’esito catastrofico del capitalismo viene esaminato con estremo rigore logico, l’insorgenza operaia appare evocata in alcuni punti ma non è mai oggetto di una trattazione specifica. Un fatto singolare se consideriamo che per Luxemburg la classe operaia deve comunque colmare i vuoti lasciati tanto dalla teoria quanto dall’organizzazione e risolvere le contraddizioni insite nel capitalismo. La posizione di Luxemburg può essere spiegata forse alla luce del suo tentativo di rivestire di oggettività scientifica il suo lavoro più teorico. Innestare la lotta di classe nel movimento scientificamente votato alla catastrofe del capitalismo significava offrire un appiglio più solido tanto a quegli operai che sceglievano la via della rivoluzione e non delle riforme, tanto a quei dirigenti di partito che lottavano contro il riformismo.

Strutturare una teoria della crisi attorno al problema decisivo dell’accumulazione di capitale non è un atteggiamento scontato. Non lo è soprattutto se l’accumulazione viene descritta non soltanto come momento di realizzazione della merce sul mercato, ma all’incrocio tra la produzione di valore e la sua realizzazione, ovvero come realizzazione dello sfruttamento. Essa cioè non indica semplicemente un problema oggettivo nella costituzione del capitalismo, ma anche un campo di battaglia, un luogo di conflitto, dove le resistenze all’introduzione dello sfruttamento capitalistico nei paesi non capitalistici possono saldarsi alle lotte contro gli oliati meccanismi dell’accumulazione nei paesi pienamente capitalistici.

La teoria luxemburghiana della crisi acquista allora un evidente impatto politico nella misura in cui combatte duramente quelle teorie che da Tugan-Baranovskij in poi, e specialmente nell’area revisionista del SPD, avevano espresso forti perplessità sulla certezza che il capitalismo sarebbe andato in crisi. Queste posizioni prediligono infatti un approccio che mette in luce le sproporzioni e gli squilibri del capitalismo, più che le sue tendenze alla crisi. Nell’età della scienza sociale dispiegata e della sua fusione con le politiche pubbliche, sproporzioni e squilibri possono essere infatti temperati con interventi mirati da parte dello Stato. Tuttavia, per Luxemburg il ruolo dello Stato non può che essere circoscritto: può ritardare la crisi, ma non impedirla. Lo Stato, dunque, non solo sconta il limite intrinseco a un’organizzazione strutturalmente votata a servire gli interessi di una determinata classe, ma finisce per risultare un argine troppo debole a fronte di una crisi che si annida nel meccanismo stesso dell’accumulazione. Una crisi che inevitabilmente è destinata a scoppiare, sebbene necessiti di un momento soggettivo che ne determina l’esplosione finale e che assume le forme del rovesciamento operato dalla classe operaia contro le strutture politiche, economiche e sociali attorno a cui fino a quel dato momento della storia si è sviluppato il sistema capitalistico. Il risvolto riformista contenuto nella teorie di Tugan era già stato svelato d’altronde da Kautsky, il quale invece formulò una teoria della crisi basata interamente sul sottoconsumo e quindi sulla necessità del capitalismo di appropriarsi di nuovi mercati di sbocco che risolvessero le crisi di sovrapproduzione. In questo senso, però, Kautsky mette l’accento su fattori puramente oggettivi, procrastinando a data da destinarsi l’organizzazione di un movimento rivoluzionario, il quale, in tale ottica, emergerà dalle cose più che dai rapporti sociali. E non a caso la teoria kautskyana non si concentra tanto sulla produzione di valore, laddove determinati rapporti sociali devono necessariamente sorgere, ma sulla fase del consumo, laddove regnano invece i meccanismi impersonali e apparentemente simmetrici dello scambio delle merci. Con Luxemburg, invece, la crisi del sistema è da rintracciare non in un singolo momento del processo, il consumo, ma lungo l’intera filiera dell’accumulazione. È la concatenazione che struttura le diverse fasi del processo di accumulazione a generare così una tendenziale sovrapproduzione, a cui il sistema cerca di rimediare non attraverso degli automatismi regolatori, ma tramite la produzione di nuove merci che, nell’ottica di Luxemburg, cessano prima o poi di trovare uno sbocco realizzativo. È questa coazione a ripetere, un’insensatezza portata all’esasperazione per raggiungere un fine «più umano dell’umano», che per Luxemburg vizia fin dall’origine la vicenda storica del capitalismo e ne segna il destino. Se la forza del capitalismo risiede nella sua mutevole fenomenologia, la sua debolezza sta nell’inflessibile ostinazione della sua logica. Ed è in questa crepa che nuovi spazi di soggettivazione potranno mettere in crisi la realizzazione dello sfruttamento.

Mantenendo aperto uno spazio dialettico tra oggettività e soggettività della crisi/rivoluzione, tra tendenze oggettive e curvature storiche, Luxemburg mette in luce invece l’intreccio profondo tra il funzionamento del capitalismo e le condizioni della sua crisi. Le figure segnalate nel testo precedente – classe/partito, spontaneità/organizzazione, riforma/rivoluzione – riemergono in questo spazio problematico, con un ulteriore carico, però, di politicità nella misura in cui l’analisi di Luxemburg si avventura fino alle soglie globali della catastrofe del capitalismo. «La fame divorante dell’accumulazione non è in grado di pensare al domani», scrive d’altronde Luxemburg. Ed è anche in questo senso che la rivoluzione è sempre un problema dell’oggi o, se non altro, di quel presente assoluto che la narrazione neoliberale ha estorto alla storia.

 

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