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La politica globale della logistica e il potere indiscreto delle infrastrutture

Potere discreto delle infrastrutturedi GIORGIO GRAPPI

Pubblicato su «Il Manifesto» del 21 gennaio 2015 con il titolo Battute di caccia nei flussi delle merci.

Logistica e infrastrutture sono termini la cui presenza nella cronaca e nella discussione di movimento è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni. In Italia, le lotte dei facchini nei magazzini di grandi marchi come TNT, DHL, IKEA e Granarolo hanno portato all’attenzione del pubblico le condizioni di lavoro in un mondo poco conosciuto. Di infrastrutture si è parlato a lungo e in modo diverso, soprattutto in relazione alla mobilitazione contro il TAV in Val di Susa. Raramente, tuttavia, è stata colta l’occasione per aggiornare linguaggi e pratiche della ricerca politica, finendo per relegare in secondo piano il loro carattere potenzialmente innovativo. Allargando lo sguardo al di fuori dell’Italia, rimangono comunque pochi i casi nei quali le lotte intorno alla logistica e alle infrastrutture sono state comprese in tutta la loro portata. Quello più eclatante è forse l’esperienza di Oakland, quando nel 2011 il movimento Occupy della città californiana ha produttivamente varcato i confini interni della metropoli per investire uno dei principali porti della costa occidentale degli Stati Uniti, arrivando a definire l’industria portuale come la «Wall Street nell’acqua» per gli evidenti legami con il mondo finanziario. Più di recente, l’incontro tra pezzi del movimento Blockupy in Germania e gli scioperi che hanno coinvolto i magazzini di Amazon nel periodo natalizio, così come la presenza riottosa di lavoratori portuali nelle manifestazioni sindacali in Belgio, ha riportato alla ribalta la questione su una scala potenzialmente europea. Tuttavia, se nel campo del business management e in quello della pianificazione urbana logistica e infrastrutture sono al centro della discussione da tempo, non si può dire altrettanto per le scienze sociali e per la riflessione critica sulla globalizzazione, se si escludono rare eccezioni quali, per l’Italia, i lavori di Sergio Bologna. La pubblicazione di The Deadly Life of Logistics. Mapping Violence in Global Trade, di Deborah Cowen (Minnesota University Press, 2014) e Extrastatecraft. The Power of Infrastrstructure Space di Keller Easterling (Verso, 2014) apre dunque una breccia importante su un complesso di strutture materiali e discorsive che hanno sin qui ricevuto un’attenzione non all’altezza della loro rilevanza. Considerando questo carattere di relativa novità, è opportuno innanzitutto comprendere in che modo logistica e infrastrutture siano concetti pienamente politici, che non si esauriscono nella loro dimensione materiale e immediatamente visibile, e come interagiscano tra di loro.

Per Cowen, geografa all’Università di Toronto, la logistica eccede la mera dimensione del trasporto e della movimentazione di merci, prodotti e materie prime, e rappresenta invece un principio organizzatore dotato di «una forza trainante nelle trasformazioni del tempo, dello spazio e del territorio che producono la globalizzazione e ricollocano la giurisdizione». La rivoluzione logistica, consumatasi nell’arco del ventennio che va dagli anni ’50 ai ’70 del secolo scorso è il prodotto combinato, da una parte, di una rivoluzione nel calcolo e nell’organizzazione dello spazio economico e della distribuzione fisica delle merci –  che ha sostituito alla domanda «quanto posso risparmiare?» quella «quanto valore posso produrre?» – e dall’altra dell’introduzione del container che, inserendosi tra i prodotti da trasportare e i mezzi di trasporto e riducendo drasticamente i tempi di trasbordo, ha aperto una nuova dimensione del trasporto globale. Il fatto che la supply chain abbia assunto una dimensione transnazionale fa sì che le misure per la sua salvaguardia mettano in tensione e ridefiniscano alcuni degli attributi centrali della sovranità statale a partire dalla sicurezza, oggi ridefinita dall’emergente disciplina della «supply chain security» e dalla crescita di reti nelle quali i confini sono ricostruiti e governati favorendo il passaggio di flussi e transazioni di merci e capitali, ma sono al tempo stesso organizzati attraverso nuove zone di contenimento e forme controllo dei movimenti della forza lavoro. I confini tra il militare e il civile tendono a confondersi. Non si tratta solo dell’origine militare della logistica come scienza, ma dei molti casi nei quali la conversione delle infrastrutture dagli usi militari a quelli civili-logistici avviene quasi senza soluzione di continuità. È il caso del progetto di Basra Logistics City, in Iraq, negli stessi spazi di Camp Bucca, la principale base e prigione statunitense nel paese durante l’occupazione. Secondo Cowen, il discorso tecnico della logistica ha adottato un’immagine organicistica della supply chain, raffigurandola come forza vitale da proteggere, con conseguenze mortali.

Per Easterling, architetto e urbanista alla Princeton University, le infrastrutture – definite come «punti di contatto», regole «che governano lo spazio della vita di ogni giorno» – eccedono la loro dimensione fisica, materiale, per comprendere una matrice di dettagli, di «formule ripetibili» che generano spazi e forme di vita operando come dei software che rendono alcune cose possibili e altre impossibili sulla base di protocolli, routine e programmazioni. Queste formule stabiliscono la disposizione degli spazi infrastrutturali, la loro capacità di produrre determinate relazioni e determinati comportamenti in circostanze specifiche. Segnati da moltiplicatori, marcatori, scambi e dalla capacità di comandare dinamiche e comportamenti «in remoto», gli spazi infrastrutturali agiscono come protocolli che fanno dell’urbanistica una funzione di disposizione dello spazio sociale ed economico. Easterling analizza da vicino il caso delle zone economiche speciali e di libero scambio che costellano l’economia globale, della banda larga e degli standard qualitativi ISO (International Standars Organization, una compagnia privata che produce protocolli di qualità per il processo produttivo come i noti ISO 9000 e ISO 14000), osservando come anche i discorsi e le storie a essi associati possiedano queste caratteristiche di software e, attraverso il managementese, una neolingua parlata nei circoli del business e della governance elaborata a partire dagli anni ’60, distribuiscano ricette per lo sviluppo, la crescita e la gestione delle scelte economiche. L’evoluzione della zona è di particolare rilevanza: da enclave di sfruttamento statica e separata dallo spazio circostante, sostenuta da incentivi quali l’esenzione fiscale, essa è infatti divenuta un nuovo paradigma di sviluppo integrato per città globali capaci di attrarre investimenti tanto sul piano della produzione industriale, quanto su quelli dei servizi e dell’Information technology, dei trasporti e della costruzione di unità residenziali di lusso, come nel caso di Dubai.

Le infrastrutture, organizzate nella forma del corridoio, costituiscono una delle spine dorsali della supply chain, tanto dal punto di vista ‘materiale’ – come nel caso di porti, ferrovie, pipeline o cavi in fibra ottica per connessioni internet – quanto ‘immateriale’, come nel caso delle transazioni finanziarie e d’informazioni che connettono luoghi diversi e distanti rendendo possibile l’operatività dei software. Nel mondo della logistica e delle infrastrutture, infatti, il software non è soltanto una metafora per descrivere processi mobili, ma è anche lo strumento tecnico utilizzato per la programmazione e il controllo tanto delle infrastrutture e delle supply chain, quanto del management aziendale e dei processi lavorativi attraverso l’utilizzo di protocolli gestionali e KPIs (indicatori di performance) aggiornati in tempo reale. Tanto Cowen quanto Easterling sottolineano la politicità dello slittamento verso forme di conoscenza e di calcolo che si presentano come puramente «tecniche», sostanzialmente a-politiche, ponendole in relazione con le forze e le forme trainanti della geo-economia globale. Se dal punto di vista teorico-politico siamo di fronte a una ridefinizione del rapporto tra la circolazione delle merci e la circolazione del capitale, comprendere la portata spaziale e materiale delle supply chain e delle infrastrutture, le loro implicazioni dal punto di vista delle trasformazioni del lavoro e del ruolo della tecnologia informatica, significa far luce su una delle principali forme della governance globale, nella quale i centri di potere sono integrati all’interno di flussi e transazioni finanziarie, di dati e informazioni che rendono la catena stessa l’elemento centrale. Cowen e Easterling, da prospettive diverse, mostrano come la deregolamentazione associata alle politiche neoliberiste sia in realtà il prodotto di una regolamentazione di diverso tipo, eccentrica rispetto al sistema regolativo dello Stato nazione nelle sue forme rappresentative. È qui che emerge il ruolo delle grandi corporations, delle agenzie e organizzazioni internazionali, incluse quelle private, degli standard, dei forum che riuniscono gli stakeholder, di tutto ciò che Easterling chiama Extrastatecraft, descrivendo la produzione di norme, forme di governo e comunità «al di fuori, in aggiunta e, a volte, anche in partnership con lo Stato». Lungi dall’essere totalmente liberi, gli spazi infrastrutturali della logistica pretendono libertà dalla burocrazia statale per soggetti e attori selezionati, ma accettano i codici di un’amministrazione extra-statale globale, complessa e spesso contraddittoria.

Lo Stato non scompare, ma si vede assegnare diversi ruoli. Se da un lato le zone o gli altri spazi infrastrutturali possono funzionare come «proxy» e camuffamenti dello Stato (Easterling), esso agisce come facilitatore organizzativo e finanziario per progetti che coinvolgono attori privati (Cowen). Se la dimensione rappresentativa è svuotata di ogni efficacia, emerge una nuova forma di legittimazione politica che passa per operazioni logistiche, la moltiplicazioni di modelli urbanistici organizzati intorno alla zona e veri e propri «protocolli della crescita», formule della governance che prescrivono il giusto rapporto tra pubblico e privato, la corretta distribuzione degli spazi urbani e  la possibilità di «acquisire capitale simbolico costoso nella forma di uno skyline scintillante»  (Easterling). Le proposte politiche di Cowen e Easterling mostrano tuttavia come vi sia urgente bisogno di continuare quest’opera di decodificazione politica. Le proposte messe in campo, come l’uso disinvolto della teoria queer contro la dimensione biopolitica della supply chain (Cowen) e una strategia discorsiva di rovesciamento della logica dell’Extrastatecraft e del software attraverso la produzione di formule ripetibili dai contenuti positivi (Easterling), non fanno infatti pienamente i conti la situazione descritta. Al fondo della vita della logistica e dello spazio infrastrutturale, infatti, c’è un mondo della produzione nel quale la fabbrica è ormai «allungata» attraverso geografie politiche ed economiche profondamente asimmetriche, che producono e sfruttano le differenze (Cowen) e dove formule come le zone mettono in atto una nuova violenza che si scarica in ultima istanza sui lavoratori, le loro condizioni di sopravvivenza e riproduzione, ad esempio sotto la forma di una drastica riduzione della sicurezza sul lavoro  (Easterling). Non è un caso che l’attivismo operaio costelli il loro funzionamento di interruzioni, scioperi, e blocchi. Comprendere la materialità della produzione di valore organizzata lungo corridoi logistici capaci di mettere in relazione tra loro spazi e soggetti differenti, e quali siano le possibilità di organizzazione e sovversione efficaci all’interno di questo mondo, è la posta in gioco cui questi testi ci invitano a pensare.

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