di AKIS GAVRIILIDIS
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Pubblichiamo un primo contributo in vista delle elezioni greche del prossimo 25 gennaio. Si tratta di un testo di notevole interesse, perché può aiutare a prendere le distanze dalle contrapposizioni domestiche, sia dalla fedeltà dichiarata ai principi sia dallo schieramento occasionale. Akis Gavriilidis affronta in maniera originale due nodi fondamentali: il ruolo e la posizione dei movimenti e lo specifico significato politico del momento rappresentativo nell’attuale situazione greca. Per Akis il rapporto tra movimenti sociali e SYRIZA non è riducibile all’alternativa tra la presa di parola diretta e il silenzio mentre parla il partito. Allo stesso tempo il momento rappresentativo è preso contraddittoriamente e ineludibilmente dentro la crisi della rappresentanza. Il sostegno elettorale a SYRIZA non si configura perciò come una cessione della possibilità di azione, ma come un modo per uscire dalla minorità in cui i greci sono stati obbligati negli ultimi anni, in quanto non adeguati agli standard del regime neoliberale. La possibilità di rendere contagiosa per l’Europa quella che è stata indicata come l’eccezione greca è una delle poste in gioco. Mai come in questo caso, delle elezioni nazionali sono un problema che va ben oltre il confine nazionale. Mai come in questo caso l’eventuale riaffermazione della sovranità porterà il segno della sua crisi.
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Se in una repubblica parlamentare le elezioni sono viste come una specie di rappresentazione o sostituto istituzionale dello stato di eccezione al livello del potere costituito, cioè come il momento che sospende temporaneamente la normalità per ristabilirla, allora la Grecia negli ultimi anni ha vissuto uno stato di «eccezione permanente» anche da questo punto di vista. Il periodo pre-elettorale, che è stato ufficialmente aperto lo scorso dicembre quando il parlamento non è riuscito a eleggere il presidente della repubblica, in realtà è cominciato quasi subito dopo le ultime elezioni (due in rapida successione, una a maggio e una a giugno 2012). Tutti sapevano che la posizione di Samaras non era affatto stabile, ma era in ogni momento a rischio, e agivano di conseguenza. Per molti è stata una sorpresa che sia riuscito a durare quanto è durato. È anche vero che questi due anni e mezzo non sono stati segnati da quelle vaste e inedite mobilitazioni di massa che hanno scosso il paese appena prima di queste due tornate elettorali consecutive. Quell’insieme non coordinato di manifestazioni, scioperi, occupazioni, scontri nelle strade e presidi nelle piazze ha prodotto un blocco istituzionale e ha avuto forti conseguenze politiche, a cominciare dalle dimissioni di Papandreou dopo il rifiuto unanime della sua idea di un referendum, sia in Grecia sia all’estero, e dal succedersi di quattro governi diversi in pochi mesi.
D’altra parte, questo stesso periodo ha visto nascere iniziative locali di solidarietà e mutualismo basate su forme non monetarie di cooperazione sociale. La più importante di queste è stata l’esperienza delle «cliniche sociali», fondate a Salonicco e in altre città da medici volontari che fornivano cure gratis per tutti coloro che non potevano permettersele, sia greci sia migranti. Non tutte queste iniziative si sono presentate come sovversive o radicali (cosa che non è per forza un problema, anzi può anche essere un vantaggio) ed è difficile stabilire la loro effettiva portata e il loro impatto (dal momento che si tratta di «economia sommersa», non sono neppure riportate nelle statistiche). Tuttavia, esse hanno probabilmente aiutato la società greca a sopravvivere e a non collassare totalmente, se non materialmente, almeno dal punto di vista ideale della possibilità di acquisire potere. Queste iniziative, in altri termini, hanno costituito luoghi in cui è stato tenuto vivo il senso della possibilità di organizzarsi autonomamente e di mettersi in rete non necessariamente contro il capitale e contro lo Stato (o contro gruppi di Stati), ma in ogni caso fuori e indipendentemente da loro. Questo è importante, tra le altre cose, perché nello stesso tempo la razionalità e la capacità della gente comune di organizzarsi (o la capacità comune della gente oppure, ancora, della moltitudine, come sarebbe più appropriato dire) erano stati fortemente messi in discussione, come vedremo a breve.
La dignità: «sociale» o «politica»?
La domanda sulla relazione tra le intense mobilitazioni del 2012 (e/o la loro successiva mancanza) e gli sviluppi elettorali è complessa e ancora aperta. Del resto si tratta di una domanda estremamente interessante, da un punto di vista sia politico sia teorico. Se dovessi scegliere una sola parola che può servire come approssimazione di una risposta, questa parola sarebbe: dignità. Tuttavia, appena pronunciata, questa risposta si rivela di per sé ambigua e niente affatto semplice. Vediamo perché.
Axioprépeia (dignità, appunto) è un termine che compare in primo piano negli slogan che SYRIZA usa in campagna elettorale. Questa scelta non era scontata perché a mia memoria questo termine non è mai appartenuto al discorso politico in Grecia. Benché il richiamo non sia esplicito, è chiaro che questa parola è stata presa in prestito dal discorso degli Aganaktisménoi, «gli indignati», che hanno occupato piazza Syntagma (in centro ad Atene, di fronte al Parlamento) per molti giorni nell’estate del 2011, più o meno in contemporanea con Madrid, New York e il Cairo, dove masse di persone si sono raccolte per rivendicare Karama (la parola araba per «dignità»). Dal primo giorno dell’occupazione di piazza Syntagma fino a molto tempo dopo, gli occupanti sono stati costantemente criticati da tutti gli schieramenti politici e dagli intellettuali più autorevoli della società greca. Professori europeisti/neoliberali, giornalisti, artisti, il partito comunista greco, la maggior parte degli anarchici e molti di sinistra, inclusi alcuni membri di SYRIZA, erano sconcertati da questi raduni che non avevano obiettivi definiti, non avevano stabilito le loro priorità o delle precise rivendicazioni politiche. Gli unici slogan che emergevano da quelle mobilitazioni riguardavano il rifiuto del debito, la democrazia diretta, la dignità, e la condanna dei politici di professione che avevano «tradito» la gente e/o la nazione. Tutto ciò suonava però troppo generico, impraticabile, superficiale, persino nazionalista. Molti si riferivano ironicamente a queste assemblee populiste, ingenue e inarticolate come a una «psicoterapia di gruppo improvvisata». Anche gli attivisti di gruppi di sinistra, che pure simpatizzavano con l’occupazione e cercavano di unirvisi, avevano difficoltà a trovare un linguaggio comune con questa emergenza mista e turbolenta della moltitudine. Sembra che, dopo che gli occupanti hanno abbandonato le piazze e/o sono stati sgomberati in maniera violenta, la loro azione sia stata dimenticata; nessuno li nomina mai, se non per rimproverarli o deriderli retrospettivamente. L’implicita appropriazione della rivendicazione di dignità è attualmente l’unica traccia della loro esistenza nel discorso pubblico.
(S-)provincializzare la Grecia
In generale, l’origine e la natura di questa paura della masse o di questo odio per la democrazia da parte degli intellettuali non è difficile da identificare: nasce da una classica concezione avanguardistica e paternalistica di come si fa politica tipica del XX secolo. Ma abbiamo qui una particolare variante greca della cosa, un marchio locale caratterizzato dall’uso di termini e nozioni quasi razziste (culturalmente) e orientaliste. Le manifestazioni della moltitudine sono definite come arretrate, violente, irrazionali … ma anche irresponsabili, in quanto implicano un’idea di sé come eccezione rispetto all’universalità dell’obbligazione e del credito. In modo spesso involontario e talvolta consapevole, questa rappresentazione ha riprodotto il discorso neoliberista-eurocentrico che fa della povertà una caratteristica ‘essenziale’ di nazioni, popoli o gruppi sociali «falliti»: la «pigrizia» dei poveri, la loro incapacità di diventare imprenditori di sé e di adattarsi alla governamentalità neoliberista. Si tratta di etichette che riprendono una lunga tradizione che vede la Grecia Moderna come una mancanza, come una copia non soddisfacente del suo glorioso prototipo classico e della cultura occidentale che ne costituisce l’ultima continuazione o reincarnazione. Una tradizione definita in maniera molto proficua come «auto-colonizzazione»:
Per i Greci l’auto-colonizzazione nasce dalla loro interiorizzazione della lezione dell’Ellenismo, che percepiscono come straniero e autoctono allo stesso tempo, sia l’Altro sia il Medesimo. […] Un’autonoma rappresentazione dell’identità greca al di fuori dei valori e delle categorie politiche e culturali dell’Europa è impossibile, dato che la formazione dell’identità neo-ellenica, la sua determinazione testualizzata, è coestensiva alla penetrazione occidentale. In più, la colonizzazione di una cultura che si colloca all’interno dell’Europa ed è perfino considerata come il suo punto di origine complica qualunque nozione totalizzante dell’Europa in questo momento. Parti dell’«Occidente» e dell’«Europa» sono esse stesse Altro e soggette a colonizzazione, come chiunque nei Balcani sa bene. All’interno di questo paradigma, i Greci non sono attori deboli violentati da un discorso esterno. Piuttosto, essi per tutto questo tempo hanno messo in campo la loro stessa auto-colonizzazione – sono tanto gli «aggressori» quanto le «vittime» di se stessi[1].
Questo sentimento auto-colonialista di «fallimento», di «non stare al passo» e il bisogno di rimediare si riflettono a loro volta nel discorso di Samaras e degli analisti neoliberali, il cui ritornello permanente è «dobbiamo rendere di nuovo la Grecia un paese normale». Talvolta il «di nuovo» è omesso del tutto. La «norma» di questa normalità è ovviamente l’«Europa», concepita come il modello universale di modernità capitalistica che la Grecia non è riuscita ancora[2] a raggiungere – o lo ha fatto solo temporaneamente.
Proprio per questa ragione, però, la parola d’ordine della «dignità» si rivela ambigua – almeno quanto lo era lo slogan «Noi non abbiamo attraversato i confini, i confini hanno attraversato noi» cantato dai migranti messicani negli Stati Uniti. La rivendicazione di dignità allude a un sentimento di umiliazione, di perdita di autostima. Cos’è, dunque, questa umiliazione? Può essere chiaramente almeno due cose: un sentimento di inferiorità per il fatto di «non essere un paese normale», nel cui caso si adotta una visione gerarchica (auto)colonizzante delle culture; oppure, l’ambizione di «provincializzare l’Europa», di vedersi come la provincia di una provincia più grande anziché come l’incarnazione patologica di una norma astratta.
Il voto come uscita e come slealtà
Credo che questo coinvolgimento affettivo con la condizione post-(auto-)coloniale costituisca la motivazione principale del voto a favore di SYRIZA. Ovviamente, questa non è la spiegazione che darebbe il partito, o almeno non la darebbero i suoi ideologi di punta. Gli strumenti principali attraverso cui queste persone pensano e cercano perlopiù di portare avanti la loro pratica politica sono le nozioni di egemonia, di sovranità nazionale/popolare, e il modello, più o meno tradizionalmente di sinistra, di «espressione/rappresentazione». Secondo questa interpretazione, SYRIZA avrebbe acquistato forza perché ha saputo esprimere fedelmente i bisogni della classe lavoratrice, ha saputo accrescere le aspettative del «mondo (o ambito) del lavoro» [o kósmos/ to stratòpedo tis ergasías sono parole frequentemente utilizzate in articoli rilevanti o nei documenti di partito]. In questo quadro, i «movimenti sociali» sono visti come positivi e interessanti, ma anche come «parziali», «particolari»; non ci sono sempre, per cui il partito, che è permanente, deve «politicizzare» queste lotte in modo da farle arrivare al livello «centrale», il livello dello Stato-nazione, che è pensato come «superiore» ed è più «universale». Al massimo, è concepito come «condensazione di un rapporto di forze sociali», secondo la famosa definizione di Nikos Poulantzas (che, tra l’altro, fino alla sua prematura scomparsa, è stato membro di quello che è stato chiamato «il Partito Comunista Greco degli Interni», un piccolo gruppo collegato alla tradizione Eurocomunista, che può essere considerato come l’«antenato» della SYRIZA dei nostri giorni).
Per quel che mi riguarda, trovo più promettente leggere questa situazione, come qualunque altra, dal punto di vista delle linee di fuga piuttosto che a partire dai suoi conflitti o dalle sue contraddizioni. Le condensazioni di forze sono meno interessanti della diluizione, dell’osmosi, della dispersione. Non c’è dunque alcuna diretta correlazione in virtù della quale qualcuno dovrebbe rivolgersi a questo o quel partito solo a causa della propria classificazione sociologica. Per questo credo fermamente che l’ascesa spettacolare di SYRIZA non sia dovuta al suo essere l’espressione fedele di qualcosa, ma nella stessa misura, o addirittura in misura maggiore, a un’infedeltà, a una slealtà. Tanti hanno scelto questo partito non perché abbiano riconosciuto in esso la capacità di rappresentare adeguatamente un’identità «sociale» pre-esistente a un livello più alto di trascendenza chiamato «politica», ma perché ha dato loro la possibilità di uscire dalle loro identità precedentemente stabilite. Un’uscita che era al tempo stesso sociale e politica – livelli che appartengono entrambi a un piano di immanenza.
Questo votare come esodo significa che le persone hanno optato per questo partito non perché fossero convinte da un progetto (per esempio il socialismo, l’uguaglianza, la sovranità nazionale) di società futura; ma perché esso ha permesso loro di entrare in una deterritorializzazione. Questo tipo di esodo è molto diverso, è anzi l’opposto, rispetto alle voci di una Grexit (l’uscita della Grecia dall’Eurozona) che vengono diffuse cinicamente dai neoliberisti al fine di spaventare gli elettori per non farli votare per SYRIZA ma anche, in misura minore, dall’estrema sinistra e altri sovranisti come prospettiva positiva di salvezza nazionale.
Invadere la rappresentanza
Tuttavia, qui si dovrebbe soprattutto evitare l’errore di considerare questo appuntamento elettorale come un mero voto di protesta, o come un voto per il male minore. Non si tratta di una «scelta razionale» ma di una «scelta emotiva» (il che, tuttavia, non significa che sia assurda) che, in quanto tale, ha una connotazione positiva. Molte persone hanno infatti guardato a SYRIZA non perché vi abbiano trovato infine la «vera» risposta, né perché abbiano raggiunto una «vera» coscienza di classe contrapposta alla «falsa» coscienza che hanno avuto finora; piuttosto, hanno visto in questa scelta il modo di porre un problema, di lasciare aperta la loro instabilità e soprattutto, e quest’aspetto è perfino più rilevante, di contaminare con questa instabilità il livello apparentemente più alto, di trasferirla cioè nel cuore delle istituzioni nazionali e internazionali che determinano le loro vite.
Nel quadro di questa contaminazione, trovo estremamente importante il termine occupying representation, coniato dal blogger spagnolo Iohannes Maurus in relazione a Podemos. È vero che questi due partiti «rimangono forze assai differenti, sia dal punto di vista della loro cultura politica sia da quello della loro storia e del rapporto con i movimenti». Nello specifico, tuttavia, quello che sto prendendo in considerazione non è ciò questi partiti sono o fanno, ma ciò che le persone fanno quando votano per loro. Sotto questo aspetto, nelle modalità attraverso cui uomini e donne si rivolgono a SYRIZA vedo senz’altro un tentativo di introdurre l’irrappresentabile nella sfera della rappresentanza (più che trovare la «vera» forma della rappresentanza). Così come vedo senz’altro una dimensione di «occupazione» nel (cosiddetto) «livello politico centrale» da parte di elementi «non centrali». Cosa che è piuttosto diversa da una «relazione dialettica tra il sociale e il politico», ma anche da un abbandono purista del politico in virtù del fatto che «le elezioni non producono cambiamento» e altre formule simili.
Per mostrare chiaramente i termini di questa differenza, lasciatemi ricorrere a una citazione:
La trasformazione radicale è impossibile senza movimenti sociali dinamici e potenti. Non si tratta di stabilire se SYRIZA avrà o meno successo senza una forte mobilitazione dal basso; è piuttosto una questione di partecipazione politica al processo trasformativo di auto-liberazione e di auto-emancipazione, senza le quali il concetto di politica radicale è in ultima istanza privo di significato. Rispetto alla strategia politica, credo anche che i movimenti sociali abbiano bisogno di rapportarsi al partito secondo un principio di esternità, ovvero che debbano conservare un significativo grado di autonomia dalle esigenze della politica di partito e delle deliberazioni ufficiali (Jerome Roos: What happens in Greece can transform Europe).
Mentre sono assolutamente d’accordo, in termini pratici, con la richiesta di un «significativo grado di autonomia», non credo che «esternità» sia la giusta parola per descrivere tale processo nel momento in cui ciò che chiamiamo «i movimenti» hanno già invaso (in maniera intermittente) le istanze della rappresentanza. La formula «mobilitazione dal basso» suona obsoleta, nella misura in cui presuppone un dualismo tra un «sopra» (politico) e un «sotto» (sociale). Questa distinzione è precisamente ciò che i movimenti contestano, sia irrompendo nello spazio politico-istituzionale sia sottraendosi a esso. Per questo motivo sarebbe un errore criticare e disprezzare le masse alla luce del fatto che esse avrebbero apparentemente fatto un passo indietro, delegando il lavoro politico a professionisti e venendo meno alla loro missione rivoluzionaria. Sottrarsi alla dimensione politico-istituzionale può anche essere una forma di deterritorializzazione e non per forza una ritirata. Le persone hanno abbandonato le strade non per realizzare attraverso «mezzi parlamentari» gli obiettivi che non sono riusciti a raggiungere tramite «mezzi extra-parlamentari», ma per iniettare nel Parlamento, nel Governo e nella governance europea nel suo complesso quella stessa incertezza e quello stesso elemento di rischio che hanno permeato le loro vite negli ultimi anni.
In verità, se si guarda ai discorsi concreti prodotti sia dal (cosiddetto) «basso» livello sia da quello «alto», vi sono senz’altro molte questioni controverse. Tuttavia, l’elemento promettente e trasformativo non riguarda ciò che le persone letteralmente dicono, ma quello che fanno mentre prendono parola; in particolare, la produzione di «un problema di identità», di una discrepanza. L’interesse suscitato dalla posizione di preminenza assunta da SYRIZA deriva dall’apertura performativa di un vuoto che incrina le distinzioni impermeabili tra l’economico, il sociale e il politico.
Che questo implichi molti rischi è scontato, tanto più che il rischio è precisamente lo strumento per far saltare questa distinzione: votare SYRIZA è per i più un modo di rendere contagiosa la contingenza. Finora, l’obbligo di ripagare il debito è stato giustificato dall’«economia», presentata come un fattore «oggettivo» contro cui nessuna obiezione è concepibile; come un assoluta costante alla quale le variabili devono adattarsi. Assegnare la maggioranza a un partito che dà voce precisamente a questa obiezione può essere un modo per i più per rovesciare il ricatto a cui sono sottoposti, usando le forze del nemico per i propri obiettivi. La «volontà del popolo», e la necessità che sia rispettata, costituisce parte integrante delle convenzioni che hanno dato vita all’«Europa». Così, un «essenzialismo strategico» della rappresentanza può essere utilmente opposto al determinismo del mercato, in quanto ulteriore «realtà dura» che non può essere contestata. A chi fa notare che «è l’economia, stupido!», una valida risposta potrebbe essere «e questa è la democrazia, stupido!», un’apparente invocazione di rigidità che in pratica deterritorializza il confine tra l’economico e il politico, creando le condizioni per un’osmosi, una circolazione di rischio e flessibilità tra i due piani.
Questa strategia potrebbe certamente rivelarsi un’arma a doppio taglio; tuttavia, rispetto a una situazione in cui tutti i tagli avvengono solo in una direzione, è innegabile che ci troviamo di fronte a un miglioramento. Pertanto, un voto a SYRIZA è senza dubbio carico di incertezze e contraddizioni; qui risiede la sua fragilità, ma anche, al tempo stesso, la sua forza e la sua potenza.
[1] Vangelis Calotychos, Modern Greece: A Cultural Poetics, Oxford, Bergland, 2003, 52-53.
[2] Per richiamare l’espressione usata da Dipesh Chakrabarty in Provincializzare l’Europa (2000), Roma, Meltemi, 2004, p. 328.