di SAYANDEB CHOWDHURY
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L’estate scorsa mi trovavo all’annuale Critical Theory Summer School presso il Birkbeck College dell’Università di Londra. Le relazioni e i dibattiti della scuola estiva miravano a trovare un lessico per le diverse forme di resistenza che a ondate hanno coinvolto tutto il mondo nel corso degli ultimi anni. Eitienne Balibar, Costas Douzinas, Slavoj Žižek, in pratica i grandi nomi del mondo accademico della sinistra globale erano tutti lì riuniti.
Mentre discutevamo in classe e fuori, i bagliori di piazza Taksim venivano trasmessi sugli schermi delle più vicine televisioni. Taksim seguiva Occupy, la Primavera araba, l’Egitto. Più vicino a casa, in Bangladesh, il movimento Shahbag a Dhaka è forse un punto d’osservazione più adeguato, poiché si tratta di un movimento, per quanto possibile spontaneo, di demoralizzati giovani della classe media che si sono riuniti, per giorni e giorni, per resistere a quella che sembrava essere un’inevitabile discesa del paese verso l’estremismo islamico[1]. Si tratta di forme diverse di resistenza, la cui esatta etimologia è ancora tutta da scrivere. Dagli intellettuali presenti non è venuta alcuna analisi immediata, né tantomeno quegli stessi intellettuali erano desiderosi di offrirne una. Alcuni hanno paragonato quell’evento al 1789 (alla presa della Bastiglia da parte del popolo francese), altri al 1968. Più verosimilmente si trattava di accostamenti che si riferivano a un’epica moderna che tutti sappiamo a memoria, sebbene nessuno abbia il testo di accompagnamento, nessuno sappia chi ha coniato le prime parole e chi ha continuato ad aggiungere versi alla poesia mentre da quella capitale precipitava in questa piazza, da quella demografia si proiettava in questa democrazia, da quella strada finiva in questa via o rue. Negli ultimi anni movimenti analoghi si sono diffusi in Brasile. Nei giorni scorsi Hong Kong è stata testimone di qualcosa di simile.
Ma nessuno di noi, nelle nostre più remote speranze, aveva pensato di assistere a qualcosa di simile anche in India. Gran parte della popolazione indiana è alimentata da una mitologia dello sviluppo a cui il segmento più giovane crede troppo facilmente. Nel corso degli ultimi due decenni una classe media sempre più solipsisticamente urbanizzata e arrivista ha fatto le sue scelte in modo sempre più chiaro. Questa classe si è in gran parte opposta a radicali riforme sociali e giuridiche, ha recepito in maniera esitante la modernità liberale ma al contempo si è mostrata felice di salire sul treno neoliberista a bassa velocità e alto sciovinismo. La sinistra, che aveva fornito l’unica alternativa decente di fronte al predominio dell’opportunismo politico, ha conosciuto negli ultimi dieci anni un rapido declino, per essere poi sbaragliata da partiti aggressivi, provinciali e regionalisti. Tutti questi partiti sono in bancarotta eticamente e politicamente. Negli ultimi due decenni si è assistito a un crescente divario di reddito; un’enorme fetta della popolazione è stata attratta dalle apparenti ricchezze dell’apertura dell’economia di mercato; i settori manifatturieri e agricoli si sono ridotti e una parte enorme della popolazione è stata mantenuta al di fuori della crescita che la tecnologia e il settore dei servizi hanno innescato nei territori urbani e semi-urbani. Al contrario la violenza nei confronti delle donne, delle minoranze religiose ed etniche, dei poveri e della popolazione indigena sono solamente aumentate. Sacche di resistenza non sono proprio rare, ma l’India è un paese notoriamente poco omogeneo e sembrava impossibile che una mobilitazione qualsiasi potesse prendere forma intorno a una o due questioni urgenti. Anche se fosse stato possibile, si sarebbe sempre trattato di questioni collegate a questo o quel partito politico.
Allo stesso tempo proprio questa assenza di omogeneità nel paese fa sì che, nonostante la mancanza di una vera e propria mobilitazione sociale generale, ci siano solo un paio di questioni che possono essere generalizzate in quanto per carattere e portata sono decisamente «indiane». Se, in una parte del paese, la vittoria delle forze di destra potrebbe essere totale e inarrestabile, allo stesso tempo, in un’altra parte, ci potrebbe essere un vento che soffia in senso contrario.
Sarebbe quindi utile comprendere i recenti eventi che hanno avuto origine all’Università Jadavpur di Calcutta all’interno di questo scenario ampio e spesso contraddittorio. Dopo tutto, le dinamiche esatte del coinvolgimento del movimento, ai cui dettagli arriveremo tra breve, non sono ancora del tutto chiare. Ciò non toglie il diritto del movimento di considerarsi eccezionale e provocatorio, pur non essendo riuscito a raggiungere gli scopi desiderati.
Prima di parlare del movimento, dobbiamo guardare da vicino la situazione del Bengala, dove il movimento si contraddistingue per l’irrequieta situazione politica. Il partito del Trinamool Congress Party (TMC), che nel 2011 è riuscito a rovesciare il governo a guida comunista al potere da 34 anni, si è rivelato un partito di mafiosi e di sottoproletari, che, guidato da un aggressivo «duro di strada» – la cui ignoranza in tutte le questioni politiche e amministrative è pari solo al suo megalomane amor proprio –, ha penetrato tutte le organizzazioni democratiche, le istituzioni dell’istruzione superiore, gli organismi per i diritti umani e le commissioni delle donne, la magistratura, il sistema giuridico, le finanze dello Stato. In qualunque modo lo si osservi, questo Stato regionale è oramai disarticolato, è fallito come Stato all’interno di un’architettura federale. La sinistra, che nel corso dei suoi molti anni di potere aveva instaurato una specie di mandato politico dominante su tutte le istituzioni dello Stato, ponendo le condizioni della situazione attuale, è stata decimata. Tuttavia l’attuale partito che è salito al potere con un largo mandato alimentato da un sentimento «anti Sinistra», innescato da atti di violenza sfrenata e dall’espropriazione di terreni con la forza, ha dimostrato di essere molto peggiore.
Il malcontento pubblico nei confronti delle attuali disposizioni è elevato, che si manifesti o meno durante il mandato di due anni da ora. Priva di opportunità economiche e occupazionali ed emarginata dal nuovo corso fatto di corruzione e aggressività, la classe media si trova con le spalle al muro. In sintesi, quindi, il Bengala/Calcutta è sempre in mezzo al guado: non è né uno spazio neo-liberista strutturato (come molte altre parti dell’India), né è uno Stato sociale socialista; si è bloccato in un indefinito meccanismo di non-divenire, gratuitamente a corto di opportunità economiche e di benessere, al tempo stesso consapevole di una mancanza di linguaggio politico in grado di articolare la sua precarietà.
È stato in questo contesto che gli studenti dell’Università di Jadavpur hanno lanciato un movimento che è diventato noto a livello globale come Hokkolorob, che si traduce sostanzialmente nel grido: lasciate che ci sia clamore.
Il probabile inizio del movimento risale alla richiesta di una rigorosa indagine per un caso di molestie sessuali ai danni di una studentessa durante un evento universitario il 28 agosto. Le autorità universitarie non hanno voluto riaprire il caso, dopo che una commissione d’inchiesta impetuosamente convocata aveva presentato una sgangherata relazione da cui si evinceva che l’amministrazione stava cercando di proteggere degli interessi politici. Gli studenti, che in passato avevano chiesto riduzioni di pena per questioni come l’assenteismo, erano ora, per la prima volta, uniti nel chiedere giustizia per la ragazza e nel reclamare la punizione per i colpevoli, che poteva essere ottenuta solo grazie a una commissione d’inchiesta indipendente. Il sit-in è stato in gran parte pacifico e non ha disturbato le regolari funzioni dell’università.
Il vice-rettore, accusato di contrastare gli obiettivi della comunità universitaria e della libertà accademica, e sospettato di giocare sporco per soddisfare i suoi padroni politici, in preda al panico la notte del 16 settembre ha chiamato la polizia, come ultima risorsa per affrontare l’agitazione degli studenti. Tutti i video e le testimonianze oculari dimostrano che l’intromissione della polizia non è stata provocata dagli studenti. Il vice-rettore non solo si è tirato fuori, ma ha inviato la polizia per radunare gli studenti, picchiarli e punirli brutalmente. Lo ha fatto con qualche aiuto in seno all’amministrazione universitaria che alle 2 di notte ha aiutato le forze di polizia spegnendo le luci dell’edificio amministrativo in modo che la stessa polizia potesse picchiare impunemente gli studenti che erano riuniti sotto il portico del palazzo.
Il giorno successivo la notizia si è diffusa. Per due giorni, la città è rimasta in stato di agitazione, tesa e indecisa. Ma nel pomeriggio del 20 settembre, quando a migliaia di persone sono scese nel centro di Calcutta per una manifestazione di protesta che nessuno realmente aveva «organizzato», è stato chiaro che una parte sostanziale della città si era riunita spontaneamente, vedendo nell’incidente dell’Università la scintilla che aveva finalmente costretto ad aprire gli occhi davanti al disgusto per questo governo.
Un articolo del giornale on-line di sinistra, «Kafila», ha descritto in questo modo la manifestazione: «Finalmente il 20 settembre, i numeri della manifestazione si sono rivelati cinque volte più grandi di quella che era stata la più grande manifestazione unitaria di forza da parte dei giovani. Gli studenti hanno manifestato con il maltempo e con la pioggia battente da Nandan a Rajbhavan e si stima che una cinquantina di università in tutto il Kolkata e distretti vicini vi abbiano preso parte. Un memorandum di richieste è stato presentato al Governatore, che è anche il Rettore dell’Università».
Si è trattato di uno sfogo di incredibile intensità e quelli di noi che erano presenti alla manifestazione hanno chiaramente percepito di stare facendo la storia. Una generazione la cui coscienza politica era dubbiosa e la cui capacità di mobilitazione non era affatto scontata aveva fatto tutto ciò con spontaneità e senza sforzo. Le donne sono state la prima linea della manifestazione, gestendo la folla e il traffico, scandendo slogan, e correndo su e giù per mantenere alto il morale. E non provenivano solo dalle zone urbanizzate: non si trattava cioè dei giovani benestanti della classe media della città. Migliaia di persone venivano dalle periferie, da circoscrizioni lontane in cui le conseguenze politiche del dissenso contro il governo al potere erano immediatamente percepibili.
La sfacciataggine della manifestazione e la sua gestione pacifica hanno attirato l’attenzione mondiale e il giorno dopo i media locali hanno sposato la causa. Gli insegnanti hanno espresso solidarietà agli studenti e hanno marciato con loro. Il boicottaggio delle lezioni è stato seguito dalle richieste di dimissioni del vice-rettore vicario: questo chiedeva la città, i social media, i campus di tutto lo Stato e il paese.
Quando l’attività universitaria il 30 ottobre è stata sospesa per l’annuale pausa autunnale, il movimento stava ancora infuriando e si era esteso senza freni attraverso i social media. Ci sono stati in seguito incontri, sit-in dei docenti senior e congressi dei cittadini all’interno del campus. Il ministro dell’educazione, che aveva spalleggiato in modo vistoso gli interessi del vice-rettore, ha nel frattempo istituito un altro controverso comitato che ha presentato il suo rapporto e ha accusato due studenti di violenza sessuale, un rapporto che resta sospetto come il primo. Il vice-rettore vicario era ancora sospeso. Cinque professori emeriti molto stimati, nell’ultimo giorno di lezione prima delle vacanze, hanno incontrato il Rettore dell’università, per esaminare la questione della nomina del vice-rettore vicario dopo il 28 ottobre, il giorno della scadenza del suo mandato. Dopo le vacanze, il vice-rettore è stato confermato per tutto il suo mandato, contrariamente al sentimento generale e alla pubblica aspettativa, dimostrando chiaramente che il governo dello Stato, che finanzia l’università, non era disposto a soddisfare le richieste degli studenti. Questa decisione è arrivata a dispetto del fatto che il governo è stato messo in difficoltà da una crescente crisi finanziaria, alla quale ha fatto seguito la scoperta che alcuni dei suoi leader di secondo piano avevano collegamenti con organizzazioni terroristiche che operano fuori dal Bengala per rovesciare il governo nel vicino Bangladesh! Per tutta risposta, il personale accademico e quello amministrativo dell’università hanno organizzato un’assemblea di massa per affrontare i loro problemi con il vice-rettore, gli studenti hanno marciato il 20 ottobre per ricordare l’inizio dalla protesta in strada, diffondendo le loro rimostranze e il loro disgusto. Il tutto in modo pacifico e democratico. Ma il vice-rettore rimane aggrappato al suo posto, nonostante le ulteriori accuse di illeciti amministrativi e di plagio accademico. Negli ultimi due giorni di ottobre, infine, gli studenti delle facoltà umanistiche hanno organizzato un plebiscito sul vice-rettore. Le consultazioni si sono concluse con l’enorme risultato di 98% dei voti in favore delle dimissioni. Il plebiscito della facoltà di Scienze e Ingegneria si svolgerà la prossima settimana. Tuttavia un ribaltamento dei risultati sembra molto improbabile.
È troppo presto per valutare criticamente il movimento in riferimento ai suoi maggiori obiettivi, alla natura della sua solidarietà, ai suoi equilibri di classe e di genere. Non possiamo nemmeno dire con assoluta certezza che il 20 settembre scorso Calcutta si sia unita alla globale giornata infuocata di proteste. Ma possiamo certamente osservare che è stata una delle prime proteste studentesche a parlare un nuovo linguaggio: si è trattato di un movimento di contestazione dello status-quo, senza bandiere e autonomo dai partiti. A tal fine Hokkolorob ha fatto il clamore che doveva. L’adunata di Calcutta potrebbe rimanere solo un giorno di primavera autunnale sulle strade di Calcutta. O potrebbe anche passare alla storia come il giorno che ha segnato una decisiva presa di distanza da un atteggiamento politico apatico, un atteggiamento politico finalmente contrario a ogni illecito, all’opportunismo e all’arroganza (di qualsiasi «partito politico») in direzione di una politica di speranza, di resistenza e di spontaneità. Se non sarà nulla di tutto questo, sarà ricordato come il momento in cui, all’interno di una congiuntura storicamente difficile, l’elemento più giovane della popolazione cittadina ha fornito una possibilità di articolazione di un nuovo movimento. Questa potrebbe essere, se non altro, la lezione più importante fornita dagli eventi degli ultimi due mesi!
[1] Il movimento, anche se non del tutto simile, invocava pene esemplari contro chi spalleggiava l’establishment militare pachistano e si opponevano alla Guerra di Indipendenza del Bangladesh del 1971. Quattro decenni dopo, quel gruppo ristretto è diventato una presenza pubblica prominente ed è considerato il motore che sta spingendo il Bangladesh lungo un graduale ma ineluttabile percorso verso l’estremismo islamico. Il movimento Shahbag porta avanti la protesta pubblica contro l’inadeguatezza del governo ad affrontare questo gruppo con mezzi legali e infine ha costretto la magistratura a emettere sentenze severe contro coloro i quali venivano considerati colpevoli di tentativi di rovesciare i principi democratici del paese e di indirizzare la società verso uno Stato islamico radicale