di GIORGIO GRAPPI
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Il 6 novembre Bruxelles ha visto la manifestazione più grande da decenni. Come raccontano le cronache, tra gli oltre 150.000 manifestanti molti indossavano tute arancioni da lavoro dei portuali di Anversa – uno dei principali porti dell’UE – e, tra questi, diverse centinaia si sono scontrati per ore con la polizia. La presenza di simpatizzanti di estrema destra tra i portuali e durante gli scontri è stata segnalata da più parti; tuttavia, limitarsi a questa lettura contrapponendo i casseurs ai manifestanti pacifici rischia di non far vedere i motivi della rabbia espressa dai portuali e di ricacciare nell’ombra ciò che accade dentro e intorno ai porti. Vale dunque la pena fare alcune considerazioni sulla loro presenza in piazza e sul loro reiterato protagonismo. Stiamo infatti parlando del cuore dei commerci europei: dai porti passa il 90% del traffico commerciale tra l’UE e il resto del mondo, e il 40% del traffico intra-UE. Il porto di Anversa è in un rapporto di diretta competizione con Rotterdam e Amburgo e in questi porti sbarcano centinaia di migliaia di container provenienti dall’Asia, Cina in particolare, che servono le catene produttive che, dalla Francia all’Europa centrale, includendo la «locomotiva tedesca», arrivano sin nelle zone di nuova industrializzazione dell’Est Europa, Polonia in primis. Questi porti sono i connettori tra l’Europa e il resto del mondo nell’epoca della globalizzazione. Non è un caso che l’area compresa tra questi porti e l’entroterra sia la zona europea a più alta intensità logistica.
Anversa e l’Europa nella logistica globale
Solo per rendere l’idea del rapporto tra i volumi movimentati in questi porti e gli attuali equilibri globali della produzione, va segnalato come Rotterdam, il principale porto Europeo in termini di container, è solo decimo nella classifica mondiale dei porti, dopo nove porti asiatici e Dubai. Di questi, due (Shangai e Singapore) movimentano quasi il triplo dei volumi di Rotterdam e altri due (Shenzen e Hong Kong) quasi il doppio. Dopo Rotterdam, dobbiamo arrivare al quindicesimo posto per trovare Amburgo e Anversa, seppur a minor distanza, mentre Los Angeles, principale porto americano, è al diciannovesimo posto. A livello globale, Cina e Stati Uniti sono i maggiori esportatori di container, ma la Cina ne esporta il triplo. Cina e Stati Uniti sono anche i maggiori importatori, ma questa volta gli Stati Uniti sono in vantaggio, seppur di solo un terzo rispetto alla Cina. Questi dati restituiscono una visione solo parziale rispetto ai traffici marittimi, perché riguardano esclusivamente il traffico container e dunque non considerano i movimenti di materie prime e combustibili che viaggiano su navi e supporti diversi. Tuttavia, permettono di inquadrare alcune delle principali direttrici della produzione globale. I container stipati sulle banchine di questi porti contengono infatti di tutto: tanto merci finite, quanto semilavorati o componenti che costituiscono oggi la maggior parte dei traffici commerciali mondiali. I porti e le catene logistiche ai quali sono collegati vanno cioè intesi come parte integrante del processo produttivo complessivo e non, come spesso accade, come qualcosa di esterno, che viene dopo la fine della produzione. Per inquadrare il lavoro svolto dai portuali di Anversa, osserviamo che il porto movimenta volumi complessivi per circa il 54% composti da container e per circa il 37% da materiali trasportati in navi bulk (come liquidi, gas o altri combustibili o composti chimici, o solidi, come carbone, ghiaia o altri materiali). Il restante 9% è composto di trasporti generici non stipati in container e mezzi su ruota.
Un’indagine tra gli operatori logistici europei condotta dal colosso della logistica globale Prologis nel 2013 ha indicato il nodo di Anversa-Bruxelles come il secondo più favorevole per investire in logistica, dopo la zona di Venlo in Olanda, vicina al confine con la Germania. La classifica funziona come una sorta di rating per un settore che risponde sempre di più a logiche di tipo finanziario e si basa su quattro indicatori: prossimità a clienti e fornitori; lavoro e governo; mercato immobiliare; infrastrutture. È interessante vedere come si strutturino gli indici di gradimento dei diversi siti: se per la zona del Reno-Ruhr (quarta) a farla da padrone è la prossimità ai clienti e alle supply chain, per Venlo «lavoro e governo» sono l’elemento più attrattivo. «Lavoro e governo» sono invece un punto debole per Rotterdam, mentre il nodo Anversa-Bruxelles si colloca a metà strada. Venlo vanta anche il punteggio più alto per quanto riguarda le infrastrutture, seguito poco sotto da Rotterdam. Anversa-Bruxelles e il Reno-Ruhr sono rispettivamente terza e quarta. Anche in questo caso, stiamo parlando delle regioni europee in cui per prime si sono realizzate reti di comunicazione multimodali, che comprendono ferrovie ad alta capacità per il trasporto merci (TAV) e una rete autostradale efficiente, collegate a parchi logistici all’avanguardia. Notiamo come la previsione di Prologis per il 2018 sostanzialmente confermi le prime quattro posizioni, mentre al quinto posto fa il suo ingresso la Romania Pan-Regionale, un’area identificata nel triangolo tra Timisoara, Bucarest e Brasov.
Per capire l’agitazione dei portuali belgi bisogna tuttavia guardare soprattutto alle differenze competitive dei diversi porti dell’UE rispetto a «lavoro e governo». Il criterio si basa su quattro indicatori: disponibilità di lavoro e flessibilità; salari e benefit; regolamenti; incentivi. Il costo del lavoro è un problema che, per il momento, è bilanciato da altri fattori, inclusi i regolamenti e gli incentivi. Ciò su cui vogliamo porre l’accento è come le aree prese in considerazione, pur servendo lo stesso mercato unico, siano oggi caratterizzate, non solo nel settore logistico, da un’organizzazione del lavoro, condizioni di lavoro e salariali, regolamenti e incentivi tra loro molto differenti. In questa situazione, pur condividendo con gli altri settori lavorativi il deterioramento delle capacità contrattuali degli ultimi anni, nei porti leader come Anversa continuano a persistere capacità di organizzazione collettiva e di resistenza da parte degli operai.
Il lavoro nei porti e l’Europa a due velocità
Nei porti europei lavorano oggi più di 500mila operai, ma le statistiche divergono, oscillando tra l’1.5 milioni di lavoratori che comprendono l’indotto delle aree portuali più immediate ai circa 110 mila portuali in senso stretto. Ciò dipende non soltanto dalla loro classificazione, ma anche dall’elevato tasso di precarizzazione e oscillazione degli impiegati nei servizi portuali. Numeri in ogni caso ridotti rispetto ad altri siti produttivi e soprattutto rispetto alla rilevanza della funzione che essi hanno nella catena produttiva, dovuti alla massiccia automazione e all’ingresso del container, che ha portato negli ultimi decenni al predominio delle navi giganti lungo le rotte principali. Oggi le squadre di camalli sono in gran parte sostituite da operai più o meno specializzati, che lavorano a contatto con macchinari di grandi dimensioni e sotto stretto controllo di procedure sempre più standardizzate. I grandi porti appaiono come enormi spazi dove i movimenti sono lenti ed è difficile scorgere gli operai al lavoro. Viste le troppe retoriche in circolazione sulla fine del lavoro di fabbrica, tuttavia, è necessario sottolineare ancora una volta che l’automazione nei porti, e l’utilizzo massiccio di tecnologie digitali nella loro gestione ed organizzazione, non indicano affatto l’irrilevanza del lavoro manifatturiero. Al contrario: essi esprimono un aspetto della riorganizzazione produttiva su scala globale che deve tener conto del fatto che ciò che circola nelle grandi navi, inclusi i container e le stesse navi, da qualche parte deve essere prodotto. E sempre più spesso ciò avviene in siti produttivi che riproducono il gigantismo navale: per limitarci a un esempio ormai noto, basti pensare alla Foxconn, gigante mondiale dell’elettronica, la cui fabbrica principale di Longhua impiega oltre 250 mila operai e operaie e comprende un ospedale, dormitori e campi sportivi, una vera e propria città-fabbrica dalle dimensioni mastodontiche. Che vi sia oggi ancora chi utilizza strumenti che sono prodotti in posti come questi per dichiarare l’irrilevanza progressiva del lavoro di fabbrica è un fatto spiegabile solo con la rimozione della dimensione globale della produzione contemporanea.
Questi numeri segnalano dunque come dai porti passi buona parte degli scambi che permettono all’UE di essere un attore tra i principali sulla scena della globalizzazione. Il protagonismo di alcune centinaia di operai portuali visto a Bruxelles va letto tenendo conto di questa cornice. Il loro nemico principale, oltre alle politiche del governo belga, è il tentativo dell’UE di liberalizzare la politica portuale a livello continentale, per superare l’attuale organizzazione su scala nazionale. Già oggi diverse riforme hanno portato a una generale riconfigurazione dei porti, che sono passati da un sistema di porti-servizio, considerati infrastrutture di proprietà pubblica, a porti proprietari, con la partecipazione di operatori privati. Inoltre, come mostra il caso del Pireo, gestito ormai in gran parte dall’operatore cinese COSCO, le politiche nazionali non sono di grande aiuto ai lavoratori portuali quando si tratta di paesi nei quali la crisi economica e politica ha permesso all’UE, insieme ai governi nazionali, di portare le politiche neoliberali promosse attraverso il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità, più noto come Fondo salva-Stati) a livelli di sperimentazione più avanzati. Il vecchio mito dei camalli persiste, ma già oggi assume la forma di sacche di resistenza assediate da movimenti globali che si impongono con la forza della competizione. È tuttavia evidente come una liberalizzazione imposta su scala continentale si abbatterebbe anche su quei porti dove oggi il potere contrattuale degli operai è maggiore. Non si tratta di una novità, ma di un tassello che segnerebbe un passo in avanti nella radicalizzazione delle politiche neoliberali dell’UE. Sino a oggi, per mantenere il consenso interno i governi nazionali hanno cercato di limitare o mascherare le politiche promosse su scala continentale. Appare così come la vera Europa a due velocità sia quella tra le tendenze neoliberali e la necessità di mantenere il controllo sociale e un minimo di consenso da parte di paesi che hanno beneficiato degli sbilanci commerciali e dell’apertura dei mercati ad Est, in particolare la Germania. La manifestazione di Bruxelles mostra un Belgio posto oggi dal governo di fronte all’evidenza di politiche che inevitabilmente rompono gli esili argini nazionali. Anche se movimenti e sindacati europei stentano a capirlo, l’Europa è un mercato unico posizionato nel mercato globale e ciò che accade da una parte ha conseguenze sull’altra. Le politiche di austerity a lungo imposte ai PIIGS secondo la retorica del «fare i compiti a casa» hanno e avranno conseguenze anche per i paesi i cui cittadini non sentivano di far parte degli studenti mandati dietro la lavagna. Bruxelles è la capitale d’Europa, ma di quale Europa stiamo parlando? Il protagonismo degli operai portuali all’interno della mobilitazione belga anti-austerity, ci dice qualcosa. In primo luogo, indica come vi siano almeno due livelli nella lotta complessiva su scala europea, uno più visibile, che mobilita opinioni e parziali dibattiti, anche se ancora frammentato lungo la dimensione nazionale, e uno meno visibile, strutturale, accettato quasi come evento naturale, sul quale occorrerà prima o poi puntare i riflettori. Se il primo interessa direttamente le politiche governative e comunitarie, il secondo ha a che fare con una ristrutturazione a livello della produzione, che delle politiche governative e comunitarie sfrutta la cacofonia e i diversi registri.
Organizzarsi nella nuova logistica europea
Mentre sindacati e movimenti protestano a livello nazionale o, quando va bene, genericamente contro l’austerity e l’Europa della Troika, le imprese valutano le differenze regionali e nazionali sulla base di diversi requisiti, che rispondono però ad una stessa logica. Mentre sentiamo dire ai sindacati che parlare di salario minimo, welfare e reddito europei è un problema per le grandi differenze che esistono, le imprese analizzano queste differenze per costruire percorsi che le attraversano e le mettono in comunicazione. Così facendo, concorrono a produrle. Imprese e governi non sono però soli: devono fare i conti con le proteste operaie e la crescente mobilità che, soprattutto nell’Est Europa, si oppone alle loro pretese. Oggi queste proteste e questa mobilità hanno i tratti di un movimento reale, che tuttavia non è compreso né considerato nel suo insieme dai movimenti, che scelgono spesso di agire sul piano immediatamente simbolico dell’antagonismo politico, e sindacati, intenti spesso a difendersi come strutture più che ad organizzare una reazione collettiva al dominio del comando capitalistico. L’irruzione dei portuali protagonisti in piazza a Bruxelles potrebbe funzionare come una sveglia per entrambi. Essa segnala infatti che forse, oggi, bisognerebbe invece saper guardare alle condizioni particolari di certi settori non per sottolinearne la specificità o l’unicità, ma per cogliere le condizioni generali che essi illuminano. Allo stesso tempo, bisognerebbe comprendere come, in una realtà già di fatto segnata da rapporti lavorativi che si fondano sull’orizzonte della precarizzazione, piuttosto che inseguire chimere di universalità dei diritti, o fare generici appelli all’unità delle lotte, sarebbe il caso di scardinare queste fondamenta. Anche quando si tratta di difendere le pensioni o l’indicizzazione dei salari, di cui pure milioni di lavoratori e lavoratrici in giro per l’Europa non hanno probabilmente mai sentito parlare. È necessario inoltre che i movimenti capiscano che allo spazio nazionale, che molti dicono di voler superare anche se lo mantengono come orizzonte organizzativo e di immaginazione primario, non si è sostituito un generico spazio europeo, e nemmeno una generica dimensione transnazionale globale. Al contrario, tanto lo spazio europeo quanto quello globale sono solcati da direttrici particolari, che disegnano una nuova mappa del potere di comando che il capitale esercita sul lavoro.
La logistica è un settore certamente decisivo e, in molti casi, in espansione in modo quasi proporzionale alla mobilità della produzione. Dove non serve più logistica per la produzione, ad esempio, diventa centrale la logistica per il consumo. La logistica ha però anche una propria forza attraverso la quale imporre nuove geografie della produzione e del consumo, nuovi modelli di organizzazione della vita sociale e del consenso. Ridurre tutto ciò alla circolazione delle merci è un errore che non possiamo permetterci. Al tempo stesso, pensare che oggi il potere sia nelle mani degli operai della logistica è una valutazione che pecca d’ingenuità. Questi operai rischiano ovunque di essere politicamente spazzati via, come già successo ai trasportatori statunitensi e ai portuali newyorkesi, se non si fa uno sforzo di capire il loro posizionamento all’interno di catene che coinvolgono anche i siti dove sono prodotti i colli che trasportano, e se non si colloca la logistica in relazione con ciò che vi accade intorno, comprese le condizioni specifiche che insistono sugli impiegati del settore, come la loro condizione di cittadini o migranti e il loro essere donne o uomini. Che in alcune situazioni, come ad esempio l’Italia, esistano ancora ampi margini di miglioramento delle condizioni lavorative in un settore cresciuto selvaggiamente, è un conto. Questo non può però portarci a pensare che un settore che risponde a logiche globali possa essere sconvolto da percorsi di lotta che, negli studi che indirizzano gli investimenti e le decisioni, sono considerati allo stesso modo di altre interruzioni della catena come le alluvioni o gli attacchi terroristici. Ciò significa che hanno ragione loro, e che queste lotte sono irrilevanti? Tutt’altro: esse spingono alla riorganizzazione di un ciclo produttivo che fa della capacità di mantenersi in equilibrio nelle contingenze e nel costante spostamento in avanti dei propri orizzonti il proprio punto di forza. Gli stessi indici di rischio elaborati dalle grandi compagnie assicurative mostrano inoltre quanto la retorica della resilienza delle catene produttive globali sia in realtà sensibile al protagonismo operaio proprio su scala globale. L’indicazione forse maggiore che viene dalla logistica e dalla presenza degli operai portuali nelle piazze di Bruxelles, allora, è che mentre si organizzano le lotte cercando di riportare al centro la questione dell’organizzazione del lavoro, dei rapporti di forza e del governo della mobilità, e si tenta di immaginare una scala quantomeno europea, è decisivo organizzarsi tenendo presente la geoeconomia europea e le sue diverse mappe. È infatti dentro quelle mappe, che oggi muovono investimenti e influiscono sulle decisioni dei governi, che sarà necessario far riecheggiare parole d’ordine e rivendicazioni che permettano di riconoscersi anche oltre le condizioni specifiche o la provenienza, e che l’organizzazione politica del lavoro dovrà assumere la forma di una comunicazione capace di passare di mano in mano come uno strumento di lotta, usando la mobilità come una forza per disegnare nuove mappe contro il comando capitalistico.