A Ferguson, piccolo sobborgo di Saint Louis, cinquant’anni fa vivevano più persone che oggi. Dopo la grande crisi della fine degli anni ’70 la geografia urbana dell’intera area metropolitana è radicalmente mutata. È cambiata anche la composizione sociale degli abitanti, oggi a maggioranza nera con redditi molto bassi. Tra il 1981 e il 1993 i cosiddetti «Piani di rigenerazione urbana», pensati come investimenti per arginare il declino, hanno stravolto l’assetto urbano della contea di Saint Louis con il risultato di concentrare le funzioni direzionali, commerciali, i trasporti pubblici nelle zone centrali. Fuori da questa cerchia ci sono le «praterie urbane»: distese di vecchi edifici industriali, ex magazzini, svincoli autostradali inframmezzati da quartieri lasciati alla deriva. Questa è l’immagine di Ferguson come del resto è l’immagine di migliaia di sobborghi delle città americane. Luoghi senza identità definite, territori vaghi in cui gli unici spazi «pubblici» sono le grocery, i fast food, le lavanderie automatiche e le palestre low cost in gran parte aperti 24 ore su 24 per sette giorni alla settimana. Saint Louis ha un’importante storia di lotte operaie e per i diritti civili che, però sembra essere evaporata negli ultimi decenni non lasciando segni tangibili e riconoscibili. Si è drasticamente interrotto quel flusso di esperienze, di coscienza politica, che aveva permesso negli anni ’60 e ’70 di generalizzare le pratiche del conflitto dai luoghi di lavoro al territorio. La recente lotta, dell’anno scorso, dei lavoratori dei trasporti pubblici dell’area di Saint Louis non ha avuto effetti sociali perché ingabbiata in un sistema di rappresentanza sindacale che si regge sull’esclusiva difesa dei soli iscritti che, tra l’altro, sono vincolati al fondo pensione e al mantenimento del posto di lavoro, entrambi gestiti dal sindacato. In tale contesto, che può fare un giovane nero diciottenne come Michael Brown appena uscito da una high school che non figura in alcun ranking nazionale utile per essere ammessi a un qualsiasi college? Lavorare come precario per 3 dollari l’ora in un fast food, sopravvivere con piccoli traffici di droga e di merce rubata, non più e non altro che questo. Il razzismo armato e la militarizzazione delle polizie locali sono la risposta istituzionale al contenimento di comportamenti diffusi considerati irrecuperabili. A Ferguson come a Brownsville, a Brooklyn, a Skid Row, a Los Angeles si sperimentano sul campo le tecnologie del controllo sociale messe in opera da un razzismo post-razziale. Detta così sembra un paradosso. Nel complesso la legislazione americana mantiene un discreto grado di inibizione e condanna di atti e comportamenti razzisti che però, nei fatti, viene ridotto a zero quando sono coinvolti apparati dello stato nell’esercizio delle loro funzioni. L’antirazzismo declinato solo in termini giuridici spiccioli è diventato anch’esso una forma di disciplinamento delle relazioni sociali. Un nero non è, o è poco, discriminato nelle normali relazioni quotidiane ma subito represso se la sua diventa un’azione collettiva che contesta una gerarchia sociale o «esporta» i suoi comportamenti in un altro contesto urbano. Dal coprifuoco alle «aree congelate» in cui sono sospesi i diritti costituzionali, dall’uso della Guardia nazionale alle tattiche militari della polizia, tutto questo viene usato per confinare e contenere neri e latinos. Non è la riproposizione dei ghetti degli anni ’60, in cui si sono sviluppati processi di soggettivazione politica, e nemmeno il ritorno di un suprematismo bianco: è la combinazione di una gerarchia sociale con una gerarchia urbana e territoriale che sono continuamente riconfigurate con la massiccia precarizzazione del lavoro e la gentrificazione delle città.
Perché a Ferguson si viola il coprifuoco e la nomina di un nuovo capo della polizia «che dialoga con gli abitanti» non ha sortito effetti? Perché a differenza degli omicidi di Trayvon Martin in Florida e di Kimani Grey, lo scorso anno a Brooklyn, che pure avevano innescato brevi rivolte, nel caso delle proteste per l’omicidio di Michael Brown è saltata l’opera mediatrice e pacificatrice degli esponenti religiosi delle comunità nere. Anzi, questa è stata contestata e durante queste notti si sono verificati episodi di sostegno e solidarietà ai manifestanti da parte di lavoratori di alcuni fast food che hanno portato cibo e acqua. Una sorta di piccolo welfare per sostenere il conflitto che ha delegittimato la macchina del selettivo welfare delle comunità religiose. Ancora una volta, di per sé un riot non produce soggettivazione e nemmeno un soggetto ma può generare – questo sì – un nuovo paesaggio del conflitto in cui vari soggetti sociali stabiliscono dei rapporti e danno vita a relazioni che rompono con la gestione ordinaria e straordinaria di un ordine costituito. Aprendo così, improvvisamente, uno spazio di politicizzazione che però può essere altrettanto velocemente chiuso lasciando poche tracce. Le analogie e i confronti con il black-out di New York del 1977 o con la rivolta di South Central a Los Angeles del 1992 si fermano alle pratiche di «redistribuzione del reddito sotto forma di merci» che sono state messe in atto. Non esistono più gli stessi legami all’interno delle comunità nere e latine, le medesime reti territoriali di supporto; ci sono linee di frattura che in questi anni hanno agito in profondità. Linee di frattura tra un settore giovanile e il resto della popolazione urbana a partire dal lavoro, dalla scuola e dall’esistenza precaria, a prescindere dal genere. Linee di frattura tra comportamenti che si connotano per un’elevata mobilità territoriale e il mantenimento di relazioni di prossimità. Quella in strada a Ferguson è una generazione che agisce in base a una commistione tra il flusso veloce degli scambi sui social network e le più tradizionali relazioni di riconoscimento reciproco individuale e collettivo. Una combinazione, in parte inedita, che funge anche da tratto identitario per uno strato di una composizione sociale in rapida trasformazione.