mercoledì , 18 Dicembre 2024

Il regime del salario 4. Formarsi e dirsi addio: l’iperspecializzazione dei quasi lavoratori

Il regime del salario 4di LAVORO INSUBORDINATO

→ vedi anche Il regime del salario #1, #2, #3

Iperspecializzazione, privatizzazione, semplificazione sono i nomi della formazione nell’era della precarietà. Si tratta di percorsi in parte diversi, animati da logiche non tutte convergenti, ma che hanno avuto e hanno tuttora un fine comune: la produzione non tanto di manodopera con specifiche competenze, visto che il bisogno che se ne ha sembra cambiare a ogni cambio di governo, o meglio, al mutare degli indici di mercato, quanto di una manodopera precaria e disposta a sostenere ulteriori dosi di precarietà lungo il suo percorso formativo. Il mondo della formazione è soggetto a una serie di trasformazioni di lungo periodo: l’aziendalizzazione delle università a cui si accompagna l’adeguazione della formazione pubblica alle logiche di mercato, la progressiva chiusura di quell’accesso alla formazione pubblica che per un periodo aveva reso l’università una possibilità di mobilità sociale e l’inserimento di forme di lavoro gratuito nel ciclo formativo, fin dai suoi inizi. Le riforme degli ultimi dieci anni non solo hanno assicurato l’accesso a lavori immancabilmente precari, ma hanno anche reso il corso della formazione a sua volta precario, un corso di precarizzazione. Proprio perché investe tanto intensamente la formazione, si dimostra che la precarietà non è un fatto occasionale, l’esito di una crisi, ma la caratteristica strutturale del regime del salario.Si tratta, quindi, di vedere come l’odierno regime del salario governi il nesso tra formazione e lavoro nei vari spazi in cui questo si presenta, cioè come la scomposizione del lavoro, la coazione determinata dall’occupabilità e la produttività dell’incertezza che la caratterizza si immettano nei differenti momenti in cui formazione e lavoro si incontrano.

Tanto nelle scuole quanto nelle università, nelle lauree triennali e in quelle magistrali, nelle facoltà umanistiche e in quelle scientifiche, stage e tirocini sono diventati parte integrante del percorso formativo. Dal punto di vista di chi chiede lavoro tirocini e stage sono lavoro gratuito che viene immesso nel sistema produttivo modificando i rapporti di forza nei luoghi di lavoro, creando divisioni tra i lavoratori e rendendo più ricattabili coloro che sono assunti. Spesso gli stagisti svolgono infatti il lavoro che prima svolgeva chi aveva un contratto e costituiscono un bacino di lavoro sempre disponibile con cui sostituire sia i vecchi stagisti sia gli assunti. Se si considera il regime del salario di cui sono parte, stage e tirocini formano quell’unica strada che sempre più spesso viene lasciata aperta per conquistarsi un salario, se non presente, ipoteticamente futuro. Nel discorso dominante essi rappresentano quello sforzo necessario che bisogna fare per accaparrarsi, in regime di scarsità, i pochi posti di lavoro disponibili. Sembra che la scarsità sia una misura che ha la ferrea necessità di una legge naturale. La disponibilità richiesta a investire sulla propria formazione e ad adattarsi alle esigenze del mercato del lavoro viene imposta come necessità altrettanto ferrea. Né l’una né l’altra però sono una condizione oggettiva o naturale, come non lo erano nemmeno la siccità o la peste. Svestita della sua veste di oggettività, la scarsità si rivela infatti come quel rapporto di forza che domina il regime del salario e che perciò può stabilirne le regole. Non è un caso che, nell’ultimo anno, mentre i dati sulla produttività sono in ascesa, quelli su disoccupazione e inoccupazione siano stabili o in aumento. Questo mostra che uno degli effetti della crisi è stato un risparmio netto di lavoro. Dire che il lavoro è «scarso» significa dire che si possono imporre le condizioni, i tempi e il salario. Dire che il lavoro è «scarso» si rivela dunque funzionale all’occupabilità, perché impone un adattamento alle logiche di questa scarsità e rende produttiva l’incertezza: il licenziamento, la mobilità, la precarietà diventano una necessaria conseguenza di queste premesse. Questa scarsità però non è oggettiva ma è funzionale alla riproduzione della posizione di dominio in quello che è con sempre più evidenza un rapporto di forza, dominio che è possibile solo riproducendo questo stesso regime di scarsità.

Se il lavoro è «scarso», quella prodotta dalla formazione è una capacità di lavoro che si configura sempre di più come merce povera e a breve scadenza. Il discorso sulla scarsità, condiviso dal pubblico tanto quanto dal privato, ha contribuito a incrementare l’inserimento di esperienze di lavoro gratuito nelle scuole e nelle università. Bisogna formarsi per essere competitivi sul mercato del lavoro e con le competenze adeguate. Se si considera però la scarsità come effetto di quel rapporto di forza che domina il regime del salario, allora si vede piuttosto una sconnessione tra formazione e lavoro. Il valore della formazione non può mai essere realizzato sul mercato da chi lo possiede. L’armonizzazione tra formazione e lavoro ha come misura il lavoro e chi lo chiede. Per chi deve lavorare, il risultato è che si vendono le proprie competenze a un prezzo sempre più basso: il regime del salario pone non solo la minaccia costante dell’incertezza lavorativa ma anche la possibilità sempre presente di un’improvvisa dequalificazione di ogni competenza acquisita. Sia la specializzazione prodotta dal carattere sempre più professionalizzante di alcuni percorsi formativi anche di alto livello, sia la dequalificazione delle forme di conoscenza teoriche e pratiche non immediatamente professionalizzanti, hanno l’effetto di produrre una manodopera anche intellettuale dequalificata e sfruttata a livelli più bassi rispetto alla formazione acquisita. L’iperspecializzazione e il lavoro precario generalizzato producono sia forza lavoro just in time, sostituibile, dequalificabile, sia figure lavorative più quotate, da inserire in segmenti strategici fino a quando sono utili. Le competenze vengono infatti frammentate e gerarchizzate non in base ai lavori o alla loro funzione sociale, ma alla capacità di adattarsi di volta in volta a imperativi produttivi differenti o di rispondere a esigenze della produzione particolarmente specifiche e tecniche. Difficilmente allora un ingegnere e un antropologo andranno incontro allo stesso destino, sia in termini di formazione continua sia di accesso al mercato del lavoro. Il valore e la spendibilità delle specializzazioni variano a seconda delle competenze e della loro adattabilità alle esigenze di mercato. In poche parole, non è detto che la formazione continua di sapere specialistico abbia le stesse conseguenze o produca le stesse condizioni per tutti. Flessibilità, precarietà generalizzata, iperspecializzazione e frammentazione delle competenze possono essere combinati secondo formule di volta in volta diverse, valorizzando specifiche competenze a scapito di altre, producendo differenziali di precarietà anche molto forti. A ben guardare infatti, all’iperspecializzazione corrisponde, in molti settori umanistici, una genericità dei programmi e dei corsi di studio che comprime in corsi semestrali quelli che una volta erano corsi annuali e combina materie di studio anche molto diverse per offrire un’infarinatura generale che a sua volta rende indispensabile la specializzazione. Così, scienze umanistiche e scienze tecniche vengono gestite in un modo o in un altro a seconda dei diversi bisogni del ciclo produttivo e lo sfruttamento generalizzato sembra reso possibile proprio dal fatto che non tutti sono sfruttati allo stesso modo.

L’iperspecializzazione prodotta anche dalla massiccia introduzione di tirocini e stage nei percorsi formativi spesso si rivela, inoltre, priva della flessibilità richiesta da un punto di vista aziendale e costringe perciò ad accettare forme contrattuali che, sotto le mentite spoglie dell’apprendistato e della formazione lavoro, nascondono uno sfruttamento a tempo indeterminato, non più legato a un periodo limitato di «gavetta», ma uno sfruttamento che fa dei lavoratori dei quasi lavoratori a vita. L’adattabilità alle esigenze del mercato del lavoro, imposta dalle ferree leggi della scarsità del lavoro, è quindi un imperativo che riguarda solo il basso prezzo a cui è necessario vendersi. La specializzazione produce piuttosto in queste condizioni un bisogno costante di formazione: questa non diventa più uno stadio preparatorio al mondo del lavoro ma un punto di passaggio in cui non si smette mai di tornare. La costante riproduzione dell’adattabilità risulta, comunque,a carico degli individui in formazione. A dicembre dello scorso anno Unioncamere Emilia-Romagna ha pubblicato dei dati, messi a punto in collaborazione con il Ministero del Lavoro, che hanno provocato immediatamente scandalo. Essi affermavano che nell’Italia della «crisi» e della disoccupazione, a Bologna ben 4600 posti di lavoro sarebbero stati vacanti, in attesa di trovare persone capaci di soddisfare i requisiti di professionalità necessari. Il numero comprende, secondo percentuali differenti in base al settore, figure professionali che vanno dall’ingegnere all’operaio specializzato, dal programmatore software al cameriere. Queste dichiarazioni hanno suscitato le proteste dei tanti che quotidianamente si trovano ad avere a che fare con disoccupazione, colloqui e lavori che sono sottodimensionati rispetto al loro percorso formativo. Uno dei più accaniti contestatori di queste dichiarazioni è stato, però, Andrea Cammelli, ossia il direttore di Alma Laurea, il consorzio interuniversitario che si definisce un «ponte tra Università e mondo del lavoro» e offre servizi che vanno dall’elaborazione di dati su formazione e lavoro alla gestione di una banca dati di curriculum per favorire l’occupabilità dei laureati. Secondo Cammelli sono le aziende che, offrendo bassi salari rispetto alla professionalità raggiunta, inducono molti laureati a emigrare. Ma non solo. Una delle accuse principali del direttore di Alma Laurea rivolta alle imprese è quella di non volersi sobbarcare i costi della formazione in entrata, la quale, per adattarsi interamente ai bisogni aziendali, dovrebbe essere erogata dalle aziende stesse. Mentre non si fanno carico del percorso formativo, le imprese si impongono nella selezione contingente delle figure che servono e di quelle che non servono e nel dettare così i tempi e i modi di quei processi formativi. D’altra parte il pubblico, lungi dal rappresentare l’altro polo virtuoso rispetto al privato, si agita per trovare le strategie migliori per contribuire all’adeguazione della formazione alle esigenze, contingenti e imprevedibili, del mercato. Non è un caso che nelle linee guida definite dalla conferenza Stato-regioni nel 2013 per la disciplina dei tirocini formativi, dall’obbligo di una retribuzione comunque misera siano esclusi i tirocini curricolari, cioè quelli offerti da Università, istituzioni scolastiche e centri di formazione professionali. L’istruzione non è vittima indifesa di un attacco esterno e bersaglio delle circostanze imposte dal mercato. Esso gioca piuttosto un ruolo attivo nel promuovere il processo di ristrutturazione di lungo periodo del nesso tra formazione e lavoro. Non dovremmo allora pensare tanto a come spezzare il legame di asservimento della formazione al mercato del lavoro immaginando, per esempio, forme più giuste di quel nesso, correndo così il rischio di riprodurne la logica, ma dovremmo pensare quel nesso a partire dai suoi paradossi (specializzazione/frammentazione, professionalizzazione/precarietà, formazione/individualizzazione) che indicano un processo più ampio e globale sul quale possiamo agire solo se ne comprendiamo la portata.

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