venerdì , 22 Novembre 2024

Resti di liberazione sessuale

di ALESSANDRA GRIBALDO e GIOVANNA ZAPPERI

In vista della discussione pubblica del prossimo 17 giugno, Sappiamo essere libere? Per non chiudere il recente dibattito sulla libertà delle donne, con Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, pubblichiamo il quarto capitolo del loro libro Lo Schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità, Ombre Corte 2012.

La Jeune Fille reinveste metodicamente in pura servitù tutto ciò di cui è stata liberata (sarebbe bene, per esempio, chiedersi che cosa ha fatto la donna attuale, che è una specie abbastanza terribile di Jeune Fille, della «Libertà» che le lotte del femminismo le hanno conquistato). 

Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, 2003.

Con lo scambio sessuo-economico ci troviamo di fronte ad una beffa gigantesca basata sul più complesso, solido e duraturo rapporto di classe della storia umana, quello tra uomini e donne. Una beffa in atto ancora oggi. 

Paola Tabet, La grande beffa, 2004.

Resti di libertà sessuale
Fotografia di Birgit Jürgenssen

Relazioni pericolose: libertà sessuale e scambio sessuo-economico

Le immagini di ragazze discinte che affollano le televisioni del «presidente» appaiono come il riflesso di fantasie erotiche di un’altra epoca, forse appetibili per la generazione degli attuali settantenni, cresciuta in un mondo in bianco e nero dove la sessualità e i desideri femminili erano fortemente repressi. Tuttavia le televisioni forniscono l’immagine di un mondo a colori, contemporaneo, in cui sessualità e desiderio regnano sovrani. Se quel tipo di erotismo attualizza scenari pre-rivoluzione sessuale, è più problematico capire in che modo possa essere condiviso dalle tante giovani a cui viene chiesto di identificarsi con modelli femminili così desueti.

Le inchieste giudiziarie hanno reso visibile il sistema di reclutamento di parte della classe politica femminile secondo le linee di uno scambio sessuo-economico-politico. Allo scambio tra sesso e ricompense si associano infatti indiscutibili finalità politiche e di gestione del potere incentrate sulla necessità di esercitare il controllo su figure femminili ritenute più malleabili, asservite o ricattabili. La rappresentazione dei rapporti di genere così come si è manifestata negli scandali sessuali che hanno riguardato Berlusconi presenta una costruzione per nulla spontanea e incoerente – al di là dei richiami alla bizzarria, alla malattia o all’esuberanza dell’uomo – ma viceversa decisamente funzionale al potere. Una sorta di circolarità tra sessualità e potere si esprime, attraverso «la sessualità come protesi del potere e il potere come protesi della sessualità» (Dominijanni 2011b). I rapporti di dominio occupano un ruolo centrale all’interno di questa configurazione, in cui la sessualità, il desiderio, il genere e l’erotizzazione del potere appaiono inseparabili nella loro condivisa opacità. Infatti, come osserva Žižek, «[…] l’erotizzazione del potere non è un effetto secondario del suo esercizio sul proprio oggetto, ma è la sua autentica fondazione rimossa, il suo “crimine costitutivo” , il suo gesto fondativo che deve rimanere invisibile se il potere deve funzionare normalmente» (Žižek 1997, p. 48). Questo sistema retrogrado e, allo stesso tempo, del tutto moderno della relazione tra generi si basa sulla capacità di confondere indefinitamente la dimensione affettiva con quella coercitiva, immagini e corpi, sessualità mercificate e desideri, seduzione e violenza e allo stesso tempo negare la relazione di potere che li attraversa. D’altra parte è stato spesso sottolineato l’elemento seduttivo, affettivo, immaginario, corporeo legato alla figura dell’ex-premier che invade e ingloba quello politico (Belpoliti 2009).

Ciò che desideriamo analizzare qui è quella sorta di vulgata che accompagna il dibattito seguito agli scandali e che, per certi versi, reinterpreta le lotte di autodeterminazione delle donne del neofemminismo degli anni ‘60 e ‘70. L’esercizio e la gestione della sessualità femminile è un tema nodale, ma che presenta una cifra del tutto peculiare. Lo scambio sessuo-economico così come emerge dalle cronache recenti è segnato dalla consapevolezza mostrata dalle giovani donne che lo accettano e lo rivendicano: in particolare emerge la rivendicazione di un potere femminile presentato come più forte di quello maschile, che anzi viene utilizzato approfittando delle «debolezze» degli uomini, un potere che si esprime sempre nei termini di seduzione, e che si manifesta nella libertà di allocare la propria sessualità per i propri fini.

Ciò che stupisce non è come sia possibile che le donne siano pronte a vendere il proprio corpo o la propria sessualità, gestita individualmente in modo da poter essere messa sul libero mercato, quanto piuttosto come mai non lo facciano tutte. In fondo se la motivazione che trattiene coloro che non vi si prestano è semplicemente di ordine morale, potremmo concludere che le ragazze più o meno giovani o belle che desiderano entrare nel mercato dei corpi femminili hanno «troppa» ragione. Prendono sul serio ciò che vedono e che viene costantemente mostrato come conquista della modernità: che disporre del proprio corpo significa essere libere non tanto di goderne, ma di trarne profitto, anzi dove il massimo del godimento sta proprio nell’ottenere il massimo profitto. L’uso diffuso dello scambio sessuo-economico è rivendicato come una modalità tra le altre per accedere a potere, beni e ricchezze. Questa modalità si dà come tale nella misura in cui le donne, finalmente emancipate, possono gestire il proprio corpo e la propria sessualità liberamente. La narrazione che accompagna lo scambio sostiene come, una volta venute meno le costrizioni patriarcali che allocano la sessualità all’interno di strutture parentali, la gestione della propria sessualità possa finalmente diventare una risorsa da utilizzare all’interno di un sistema di mercato, rispondendo a una domanda con un’offerta appropriatamente differenziata.

In questo modo la libertà sessuale si allinea con la grande narrazione contemporanea che identifica la libertà con il libero mercato. È evidente come sia proprio la questione della libertà e dei rapporti di potere qui a essere centrale. La mistificazione sta nel nascondere quella che all’apparenza è un’ovvietà, ovvero la natura stessa dello scambio sessuo-economico – lavoro sessuale e non sessualità libera – e come la nozione di scelta non possa identificarsi automaticamente con quella di libertà.

In questa lettura ogni intervento delle donne della generazione protagonista del femminismo degli anni ‘70 appare come un appello a regole desuete, un richiamo a una sessualità che si autocensura, alla proibizione moralista piuttosto che alla liberazione sessuale, in un’operazione che neutralizza e rimuove ogni riferimento alle riflessioni sulla sessualità, sul desiderio, sulla libertà, sul potere. Questo avviene nonostante il fatto che in Italia il femminismo abbia avuto un carattere di radicalità e complessità, che ha visto come protagoniste donne dalle più differenti posizioni politiche e lavorative, comprese, e non in una posizione subalterna, le lavoratrici del sesso. Il femminismo, che nella vulgata corrente viene invece considerato come un blocco monolitico, diventa vetero, o meglio, è vetero per definizione: una sorta di inattualità costitutiva viene attribuita alle lotte femministe che paradossalmente sono interpretate come fondamentalmente ideologiche, moraliste, desuete, inadatte alle moderne relazioni di genere, lette come lontane anni luce dal patriarcato. Rimettere al centro la relazione tra i sessi – chi possa richiedere sessualità e quale sessualità possa essere richiesta nello scambio – sembra coincidere con una mossa ideologica e storicamente desueta.

Questa interpretazione della relazione tra i sessi si fonda su un processo di naturalizzazione della sessualità, in cui la caratteristica maschile è quella di desiderare l’atto (etero)sessuale, mentre quella femminile è la gestione (attenta, oculata, strategica) del proprio corpo in quanto risorsa. Si attribuiscono così alle donne desideri sessuali per natura più deboli, non necessari, o meglio, è la stessa sessualità femminile a definirsi nello scambio sessuo-economico. I discorsi che rivendicano una gestione del capitale sessuale partono dal presupposto che la sessualità maschile è più potente. L’uomo desidera sessualmente, la donna meno. Una volta assunta questa verità «ancestrale» i discorsi relativi alla libertà di gestire la propria sessualità si intrecciano con quelli liberisti, producendo una narrazione presociale e primitivizzata, da legge della giungla, dove vince il più forte e la più bella, dove «se sei brutta devi startene a casa», che raramente è stata espressa con tale lucida brutalità[1]. L’effetto spiazzante delle parole di alcune donne coinvolte negli scandali sta nell’assoluta adesione alla logica dominante, come se si trattasse di un libero incontro tra liberi imprenditori alla pari, cancellando il fatto che il servizio offerto in realtà non è mai gestito direttamente con il cliente, ma da una pletora di intermediari.

Lo scambio sessuo-economico non è uno strumento tra i tanti, ma il dispositivo per eccellenza che sta alla base della subordinazione femminile e dell’appropriazione della sessualità delle donne: non è l’eccezione del rapporto tra i sessi, ma la sua espressione più comune (Tabet 2004). Si tratta di uno scambio per nulla scontato e naturale, ma che si alimenta attraverso la sproporzione di potere. Le espressioni che sistematicamente leggono la prostituzione come «il lavoro più antico del mondo» rimarcano questa naturalizzazione di una relazione di potere. La sproporzione è costitutiva dello scambio tra sesso e potere/denaro così come delle strutture parentali che implicano per definizione il «traffico di donne» analizzato dall’antropologia a partire dalle analisi di Lévi-Strauss (Lévi-Strauss 1949, Rubin 1975). Come ha dimostrato Paola Tabet ciò che fa di una donna una prostituta è l’uscita, volontaria o meno, dell’esercizio della sua sessualità dalle strutture che regolano lo scambio delle donne. La gestione in proprio dello scambio sessuo-economico spesso sottrae le donne al legame matrimoniale che prevede la cessione permanente dei servizi sessuali oltre che domestici e lavorativi. Il continuum delle diverse forme di relazione tra uomo e donna che implicano uno scambio sessuo-economico incrina quella separazione ideologica tra la categoria delle prostitute e quella delle «donne oneste», spose e madri, continuum in cui matrimonio e prostituzione non sono altro che i due estremi. Le transazioni tra sessi vedono la fornitura di servizi variabili, ma che invariabilmente comprendono l’accessibilità sessuale al corpo delle donne e un compenso di valore altrettanto variabile (status, regali, compenso economico) da parte degli uomini. L’analisi di Tabet rintraccia, all’interno di questa logica specifica, le possibilità, le azioni, le strategie, gli scarti che le donne trovano per muoversi, per conquistare e godere della propria sessualità, per accedere a beni e a eventuali spazi di potere. In questo senso, l’esplicita rivendicazione dello scambio sessuo-economico risulta particolarmente disturbante nella misura in cui si radica nella cancellazione pura e semplice del fatto che, storicamente, la possibilità di gestire il proprio corpo e la propria sessualità, in condizioni di scambio ineguale, è una componente strutturale nella vita delle donne. La sessualità di servizio non è né universale né naturale, ma si colloca in un terreno di conflitto politico tra i sessi dove «la diseguaglianza all’interno della sessualità è affermata e precipitata dal dono-relazione» (Tabet 2004, p. 53).

Questo dono-relazione nel contesto attuale «postideologico», e nella fattispecie nel contesto italiano, è presentato come unico nocciolo duro, come unica vera realtà, autentico spazio presociale e dunque originario. Una lettura dello scambio sessuo-economico come qualcosa di liberato, finalmente reale, nelle relazioni tra i sessi, si basa sull’idea che questo rappresenti una trasgressione al moralismo che impedisce di gestire e di vendere la propria sessualità. Il moralismo viene identificato paradossalmente nell’ideologia femminista che si oppone al libero mercato dei corpi e del sesso, negando al femminismo la portata di critica del sociale, e riconducendolo a una condotta morale.

Il fatto che le misure repressive contro le prostitute – con le conseguenti retate, espulsioni e rimpatri – insieme alla proposta di introdurre il reato di prostituzione in strada siano state iniziativa di una ministra delle pari opportunità formatasi come modella e velina, segna una particolare «lotta allo sfruttamento» che è l’altra faccia del reclutamento di giovani donne che desiderano accedere – privatamente – ai palazzi del potere. L’unico scambio sessuo-economico legittimo è quello che non si dichiara, quello naturalizzato nella schermaglia amorosa, nelle cene eleganti, nel gioco di seduzione, in un buon matrimonio: il consiglio, solo apparentemente ironico, di Berlusconi a una giovane precaria che lo interpella pubblicamente sulle opportunità di lavoro, di sposare «bene», dichiara esplicitamente l’assoluta liceità e normalità dell’allocazione della propria bellezza all’interno di un mercato matrimoniale.

La peculiarità sta nel fatto che l’oggetto della transazione, nel caso delle aspiranti veline ed escort, non viene mai nominato. Questo non solo per negare l’esistenza della prostituzione a palazzo, ma anche perché c’è in gioco una produzione della relazione di genere costantemente messa in scena. Non si tratta infatti esclusivamente di sesso; l’atto sessuale vero e proprio è l’ultimo atto, compimento di una serie di rituali performativi di partecipazione allo scambio ineguale tra sessi che vanno dalla prescrizione della risata alla barzelletta, alle espressioni di relazione e affetto in richiamo all’amicizia, all’uso di termini di relazione parentale verticali («papi») e in cui la grottesca richiesta di baciare una statuetta di Priapo è solo il momento più esplicito. Presentati come spazio del desiderio di «divertimento» e «gioco» tra generi, questi preliminari hanno compimento nell’atto sessuale che si dà sempre e comunque come consensuale. Non è necessaria alcuna violenza fisica in questo contesto dove si esprime una violenza strutturale, indiretta, che non ha bisogno dell’azione di un individuo sull’altro: è una violenza processuale, che dipende da strutture naturalizzate che conferiscono il potere in modo differenziale e che, allo stesso tempo, producono il genere.

Le relazioni tra i sessi, rappresentate come strutturalmente e naturalmente date, costruiscono il sociale liberamente, in modo paritario, attraverso la soddisfazione di un desiderio. La coppia eterosessuale, «naturale», è di conseguenza il nucleo centrale e il nodo indiscusso, epitome della società tutta. Questa visione dei rapporti tra i sessi è il sostrato ineludibile e rassicurante di una visione del mercato – viceversa fluttuante, aleatorio, imprevedibile – considerato come garanzia di libertà e democrazia. In questo contesto non è necessario produrre discorsi contro le pari opportunità: come sottolinea acutamente Signorelli, le pari opportunità sono presenti nel mercato differenziale della richiesta di sessualità a pagamento, dove la libertà sta nello sfruttarle al meglio: «è dunque perfettamente logico e consequenziale che quelle che meglio sanno gestire la transazione commerciale, siano considerate le migliori interpreti del dettato delle pari opportunità» (Signorelli 2011, p. 214).

Il sistema mediatico italiano presenta specifiche declinazioni della visione liberista del rapporto tra generi: esiste una sorprendente continuità tra l’attrazione per la possibilità di entrare nel sistema produttivo televisivo e lo scambio sessuo-economico necessario per accedervi. Vendere la propria immagine coincide con la vendita del proprio corpo, dove corpo, sessualità e immagine si sovrappongono: le ragazze che vengono invitate alle «cene eleganti» del premier sono «ragazze-immagine». Sono le donne stesse ad autodesignarsi in questo modo, come si può evincere chiaramente dalla videointervista pubblicata il 20 giugno 2009 sul sito di Repubblica con Barbara Montereale, una delle ragazze invitate a cena nella residenza romana di Berlusconi. Colpisce nel racconto delle giovane donna che pure ci tiene a distinguersi dalla escort – oltre all’ambiente in cui viene ripresa, l’interno domestico, il tavolo della cucina, il televisore, che sottolinea la rappresentazione da «ragazza della porta accanto» – la rivendicazione di quella sovrapposizione tra la materialità del corpo e la sua immagine all’interno di un’economia di scambio. Qui la contrapposizione tra il mondo della rappresentazione e quello delle cose, su cui si interroga Ida Dominijanni (2009), è tale soltanto in apparenza: dal momento in cui la propria immagine rientra a tutti gli effetti nella realtà tangibile dello scambio sessuo-economico, i due mondi coincidono perfettamente. La ragazza-immagine è pagata non tanto per farsi fotografare, ma per essere presente dove necessario: è una sorta di figura intermedia tra modella e escort in cui si sovrappongono immagine, corpo e merce.

In questa forma particolarmente mistificante dello scambio tra servizio sessuale (che qui comprende anche solo il fornire una presenza erotizzata e disponibile che serva da cornice per altri scambi) e remunerazione, il pagamento non è concordato prima. Si è parlato di omaggi, di favori, di «cose carine per le donne», il viaggio nell’aereo privato, la «promessa» di ruoli, ingaggi nelle televisioni di proprietà o ancora agevolazioni per imprese private, in cui l’espressione più significativa è «regalo monetario», espressione che nega il patto, lo scambio stesso. Il regalo non è un compenso, è il riconoscimento alla partecipazione di un libero incontro segnato dalla reciproca seduzione.

In questo senso lo scambio tra sesso e denaro che ha luogo nei palazzi del potere è esattamente il contrario delle rivendicazioni dei comitati per i diritti delle prostitute: il diritto di esplicitare l’accordo economico, di dare un prezzo ad ogni prestazione, di decidere le modalità dello scambio, di limitarlo alla prestazione sessuale o di prezzare anche le eventuali richieste di ascolto o di espressione dell’affettività da parte del cliente (Corso e Landi 1991, Bernstein 2007). Da questo punto di vista, nella logica veicolata dalla narrazione berlusconiana, se il buon matrimonio incarna l’investimento, forma legale di prostituzione, così la prostituzione per trovare legittimità deve ammantarsi il più possibile dello scambio affettivo, dove vendere il corpo significa concedere tutto il resto.

Per questo le dichiarazioni delle ragazze coinvolte nelle «serate eleganti» sono attraversate dalle contraddizioni: il fatto che sia nata una «bella amicizia» tra loro e il premier, non impedisce la richiesta di un «gettone di presenza», un pagamento, ma in fondo anche un «presente», un riconoscimento dello stare al gioco. Spie linguistiche molto significative sono prodotte dalla cancellazione della sproporzione tra uomo di potere e donna che vende la propria sessualità: di Patrizia D’Addario, sua amica, Montereale dice «ha lavorato con lui», intendendo l’avvenuta prestazione sessuale. Infine dalle dichiarazioni e dalle intercettazioni delle donne coinvolte negli scandali sessuali emerge la preoccupazione di essere associate alle prostitute, stigma indelebile, e di non potere, per questo, «finalmente» fare le mogli e le mamme. Dalle parole delle donne coinvolte negli scandali emerge un misto di consapevolezza, rivendicazioni postfemministe di agency e di «saper fare» nella dura lotta per accedere alle risorse e allo status desiderato e molto poco quella preterintenzionalità che gli si attribuisce da varie parti. Tuttavia la presa di distanza tra le «donne per bene» e le «donne per male» inevitabilmente impedisce di riconoscere il nodo problematico e conflittuale inerente allo scambio tra servizio sessuale e compenso.

Le rivendicazioni di prostitute e sex workers, attraverso la presa di parola, le esperienze lavorative e la riflessione collettiva, forniscono un linguaggio, e con quello la possibilità di svelare il gioco di potere tra sessi, dove all’interno di unfenomeno costruito esclusivamente in termini di «traffico», emergono le modalità di rivendicazione, azione politica, organizzazione (Tatafiore 1994). Tuttavia il sintagma «scambio sessuo-economico» in contesti legati al sex work è spesso utilizzato semplicemente come sinonimo di «pagamento contro servizio sessuale», riduzione che indebolisce il concetto e lo svuota di una valenza politica decisiva nella sua formulazione originaria da parte di Tabet. Più in generale il mancato riconoscimento della relazione strutturale di potere tra i sessi e della riproduzione sociale delle disparità tra i generi, l’incapacità di rivendicare una radicalità nei discorsi sul genere più mainstream impedisce di cogliere la realtà dei rapporti di dominio. L’attribuzione della funzione di cornice, immagine, accompagnatrice, alle donne che si recano ai festini presidenziali, addomestica, normalizza e annulla la possibilità che siano considerate nodo centrale dell’esercizio di un potere. E questo processo di neutralizzazione è tanto più forte quanto più decisiva è nella contemporaneità la presenza di «corpi sessuati che emergono nella precarietà con più forza ancora rispetto al passato nel momento in cui socialità, affettività e sessualità sono diventati espliciti fattori di valorizzazione» (Morini 2011).

In questo quadro è condivisibile la critica di Rivera (2010, pp. 81-88) alle teorie che esplicitamente partono dagli scandali sessuali legati all’ex-premier per rileggere e riformulare un pensiero femminista radicale. Questo panorama, internamente variegato e decisamente complesso, rimanda a una lettura del rapporto tra i sessi identificato come «post-patriarcale», in cui la vicenda politica e sessuale di Berlusconi esprime «una nuova configurazione del conflitto tra i sessi», in cui il potere maschile avrebbe perso autorità[2]. In particolare, appare problematica l’ipotesi secondo cui questa crisi dell’autorità maschile assuma significato e rilevanza a partire dalle testimonianze delle donne che hanno preso parte agli scandali sessuali del premier. Non si può non riconoscere come lo svelamento del sistema di scambio sesso-potere abbia prodotto un’ondata di risentimento in molte donne, aprendo la strada ad un dibattito pubblico sulla condizione femminile in Italia che ha portato oltre che a importanti manifestazioni di massa, a processi di presa di coscienza collettivi e alla formulazione di nuove rivendicazioni. Inoltre le parole delle donne che hanno denunciato il mancato rispetto dei patti tra prestazione e compenso certamente hanno avuto un effetto demistificante. In particolare denunciare come la seduzione delle donne sia una proiezione immaginaria significa smascherare il «patto con gli elettori» come vuota rappresentazione, frutto di retoriche manipolatorie.

Tuttavia la risposta a queste denunce è stata ambivalente, a partire dalla continua insistenza di parte dell’opposizione sull’irrilevanza dei comportamenti privati del premier rispetto ai problemi «reali» del paese, fino a elementi di giustificazione e di identificazione con quello stile di vita in una parte consistente della popolazione. Se in quelle parole femminili si giocano senz’altro forme di agency, tuttavia difficilmente queste possono essere ricondotte a una nuova riconfigurazione dei rapporti tra i sessi che sarebbe, si legge in filigrana, figlia del femminismo e dunque propria di quelle società (occidentali) che hanno vissuto la stagione femminista degli anni settanta. L’antropologia che si è occupata di genere ha rintracciato spazi di parola e potere all’interno dei contesti che più si avvicinano al «patriarcato» – una definizione peraltro dai confini sfumati e che sarebbe importante sempre situare dal punto di vista storico e contestuale – nella misura in cui gli esempi etnografici sempre più evidenziano le dinamiche e l’agency delle donne.Ad esempio le strategie e le migrazioni delle free women e delle prostitute dell’Africa occidentale, che parlano esplicitamente di scambio tra servizio sessuale e remunerazione, che non vivono una differenza sostanziale tra relazioni occasionali, durature o matrimoniali e che sono consapevoli di una relazione di potere che va costantemente negoziata, hanno a che vedere anche con una storia di azioni e resistenze (Tabet 2004). La «crisi» della mascolinità, della sessualità e della relazione tra sessi è parimenti costitutiva delle società cosiddette «tradizionali» come di quelle «moderne».

Integraliste della libertà

Si sarebbe tentate di mettere in relazione la presenza femminile erotizzata nelle televisioni italiane con l’aumento della partecipazione al lavoro remunerato delle donne. Questa correlazione è storicamente testimoniata negli esordi del primo cinema, quando certi generi cinematografici costruivano il corpo femminile come oggetto di uno sguardo erotizzato proprio mentre la forza lavoro femminile aumentava eccezionalmente. Tuttavia anche nell’America negli anni a cavallo dei due secoli la sovraesposizione del femminile è caratterizzata da una grande ambivalenza: la minaccia alla mascolinità non era identificata tanto nel suffragio universale quanto nella rivendicazione del diritto alla gratificazione sessuale da parte delle donne (Mulvey 1996, p. 42).

Per quanto riguarda il contesto contemporaneo italiano Rivera nota, cogliendo un elemento sostanziale, che la reazione sessista imperante dipende dalla paura «delle immagini dell’intraprendenza femminile più che della realtà della loro effettiva autonomia», che come è noto in Italia è decisamente debole (Rivera 2010, p. 85). In gioco è proprio la minaccia dell’esercizio della libertà e del desiderio da parte delle donne e ciò che questo può rappresentare per il potere. Non è più necessario negare esplicitamente la libertà femminile, nella misura in cui il suo significato è stato reinventato e reso funzionale al potere attraverso forme di produzione di soggettività segnate dalla seduzione del visivo. La questione dell’immagine e della rappresentazione del genere è uno spazio centrale nel processo che produce la differenza sessuale, in cui questa è sempre una fantasia, un dominio psicosimbolico nel quale il genere è prodotto e mobilitato all’interno di un sistema di produzione e scambio che si serve di canali prevalentemente visivi. Genere, sessualità, visualità e potere sono costantemente in gioco, in un rimando costante tra loro.

Il fatto che nessuna delle donne coinvolte negli scandali si dichiari prostituta, ma si definisca e venga definita dai media escort, ragazza-immagine, accompagnatrice o amica, svolge la funzione fondamentale di rimarcare la scelta di sfruttare una risorsa «naturale», data tra tante opzioni, che ottimizza le risorse di una donna sufficientemente giovane e bella, negando lo scambio esplicito sesso-contro-pagamento che un’opinione diffusa vuole sia riservato solo a chi non ha altra scelta. La trasgressione della norma moralista coincide con un conformismo assoluto: un’ortodossia estrema nei rapporti con l’altro sesso fa delle giovani coinvolte nello scambio delle integraliste della libertà, reinterpretata come ingiunzione all’entrata nel mercato. In un contesto ideologico che decreta l’assoluta molteplicità e libertà del poter essere, la scelta di mettere il proprio corpo e la propria disponibilità sessuale sul mercato coincide con il «diventa ciò che sei» liberista, il «poter essere» si identifica con «il poter essere scelta».

Si potrebbe tracciare una genealogia di questo processo che articola femminile, sessualità, rappresentazione, visualità, mercificazione attraverso il nodo della prostituzione. A cavallo tra otto e novecento la messa in vendita della sessualità acquista un nuovo significato nella misura in cui lo sviluppo del capitalismo assicura la familiarità, sottolineata da Benjamin, tra prostituzione e manodopera (Buci-Glucksman 1986). La figura della prostituta, come suggerisce Doane diventa così un oggetto di fascinazione al centro di un immaginario sociale, «personaggio esemplare» sovrarappresentato nella letteratura (Baudelaire, Flaubert, Zola), nell’arte (Manet, Degas) e nel teatro (Wedekind). La figura della prostituta nell’ideologia borghese del XIX° secolo esemplifica le preoccupazioni relative all’organizzazione del lavoro e del consumo, con la conseguente attenzione per gli eccessi, gli sprechi e la gestione della salute pubblica:

In questo senso la prostituta rappresentava l’antitesi dell’economia borghese della parsimonia e della moderazione. La degradazione del denaro che si compie attraverso la prostituta è in funzione del fatto che questa figura viene associata alla mobilità potenzialmente eccessiva e pericolosa del denaro che ha luogo nella speculazione, al suo disancoramento dal rassicurante valore d’uso (Doane 1991, trad. it. 1995, p. 178).

La prostituta, «tropo estetico privilegiato» a cavallo tra due secoli (idem, p. 180) tuttavia non ha questo ruolo centrale nella produzione cinematografica nascente. Nel XX° secolo, la rappresentazione della prostituta nel cinema non è più necessaria: «nonostante il fascino che sprigiona in una serie di film […] la frequenza con cui viene rappresentata non si avvicina neanche lontanamente alla sua diffusione nel campo della letteratura e dell’arte persino in epoche precedenti all’avvento della censura» (idem, p. 179-180). La funzione sociale del cinema sposta dalla strada allo schermo alcuni elementi connessi alla prostituzione, come la rappresentazione di sé e l’esibizionismo. In questo spostamento è decisiva la trasformazione dei processi di mercificazione del corpo e dunque della rappresentazione del corpo e della sessualità femminile. In quanto mercificazione dell’umano, la prostituta è il presupposto di «ciò che diventa il compito della caratterizzazione del ventesimo secolo, specialmente nel cinema: l’umanizzazione delle merci» (idem, p. 183). Mercificazione dell’umano, umanizzazione delle merci: questa tensione che accompagna la rappresentazione del femminile nel tempo e ne costituisce l’elemento seduttivo subisce un effetto di condensazione alla fine del ventesimo secolo.

Nel modello postfordista, che vede l’ottimizzazione del rapporto tra la sfera della produzione e quella del consumo, l’individuo stesso si pone all’interno del sistema produttivo come essere sociale e comunicativo. Le potenzialità linguistiche di comunicazione e relazione, la sfera degli affetti e dell’emotività sono «messe al lavoro» (Marazzi 1999, Virno 2001): in questo senso il lavoro femminile domestico, storicamente invisibile, non pagato e non riconosciuto, diventa epitome della forma lavoro odierna. La escort, ultima declinazione della prostituta, si rivela una figura paradigmatica della contemporaneità in quanto esprime perfettamente l’invasività del dispositivo lavorativo, la messa al lavoro non solo del proprio corpo, ma della propria identità-immagine, flessibile, disponibile, vendibile, costruita ad hoc. L’idea di potenzialità è qui centrale: più che contabilizzare il lavoro sessuale si contabilizza la capacità di seduzione. La seduzione diviene lavoro sociale del quale si richiede riconoscimento: in questo senso l’espressione ragazza-immagine è ridondante, dove vendere e mostrare sono sinonimi proprio perché hanno a che vedere con un sistema mediatico, quello italiano, che meglio di altri risponde e corrisponde alle logiche liberiste. Lo slogan «io sono mia» viene reinterpetato come possesso del proprio corpo nella misura in cui questo è nel mercato. In questo quadro la rivendicazione di una agency da parte della spettatrice/attrice si declina in un modo del tutto peculiare: se ci si sottomette al desiderio dei potenti è perché si è nella certezza di detenere un potere, il proprio corpo, se stesse, la propria capacità di seduzione. Potere di negoziare, di alzare le richieste, ottenere il più possibile, ottimizzare: non è forse il potere capacità, rappresentazione, gioco, strategia?

Risale a ormai qualche anno fa un fortunato libello a firma Tiqqun (2003) che presentava un’analisi della costruzione della soggettività del consumatore/spettatore. La «Jeune Fille» come figura paradigmatica della contemporaneità rappresenta una nuova versione dell’individuo: plastica e retrograda assieme, atta a produrre una perfetta funzionalità alle logiche del potere. Il fatto di nominare fille questa nuova soggettività e non garçon è determinato da quell’effetto narcisista che lega il genere femminile all’immagine e alla sua potenziale infinita manipolazione. La libertà, in quanto libertà di gestione del sé, a prescindere dal genere, in un contesto in cui tutti i soggetti sono dunque «femminilizzati», è prodotta contro ogni possibilità autentica di dissenso. Questa produzione di soggettività feticizza l’appartenenza a se stessi, come se questa capacità di gestire il proprio corpo, la propria immagine, e, conseguentemente, la propria identità, significasse già automaticamente disporre di un potere.

In questo senso, l’economia morale che governa la logica di genere dominante, rimanda a una forma specifica di «femminismo unidimensionale» (Power 2009) che celebra l’identità individuale e impone l’imperativo generalizzato di una femminilità commutabile nella logica di mercato. Da questo punto di vista sono significative le campagne recenti contro il velo islamico, su cui il governo italiano ha legiferato in piena emergenza economico-finanziaria. Ciò che è scandaloso nell’uso del niquab, velo che copre il viso, e nella minaccia di una sua diffusione sta proprio nel sottrarre il corpo femminile al libero mercato, all’imperativo di mostrare ciò che c’è da vendere che è insieme ingiunzione a mostrare se stesse, a farsi vedere, a mettere in mostra (idem 2009, p. 15). L’intento scopofilico riporta allo sguardo classificatorio-pornografico che svela mentre colloca, che differenzia mentre posiziona: le donne che portano il niquab sono insopportabilmente tutte uguali in quanto il velo nega le differenze funzionali alle logiche di mercato. La specializzazione tassonomica, sempre più accentuata nella produzione pornografica rimanda al collezionismo come declinazione contemporanea delle diversità, finalizzate al mercato, attraverso l’immagine. Il catalogo produce differenza: ogni individuo, e in particolare ogni donna è un tipo, una specie, una differenza a sé. Il sottrarsi allo sguardo trasforma la donna musulmana in una soggettività dominata o mancante, soggetta all’aberrante imposizione del velo (Salih 2008). Modernizzare le donne significa automaticamente svelarle, dove mostrarsi significa acquisire soggettività: essere velate corrisponde all’incapacità di agire, alla postura succube dell’oppressa. L’opposizione tra l’immagine svelata della donna occidentale e quella negata della donna orientale implica una specularità che non mette in discussione la collocazione del femminile in un universo addomesticato anche e sempre attraverso lo sguardo. Questa logica rimanda a quella, chiamata «protoporno» da Power, che si struttura attraverso il mostrarsi, l’auto-autenticazione e l’etichettatura del sé. L’esercizio della seduzione è un esercizio di identificazione senza scarti al proprio genere, femminile, ma soprattutto singolare. La seduzione diviene l’elemento fondante della soggettività femminile, eterosessuale, che prevede l’incorporazione dello sguardo maschile. La femminilità coincide così con la sensualità, elemento a cui nessuna donna dovrebbe mai rinunciare, pena il diffuso giudizio di frigida e castratrice, a cui giocoforza si associano «la femminista» e «la lesbica».

In questo quadro è utile il riferimento alle interviste alle donne che contestavano, ormai quasi venti anni fa, la trasmissione Non è la Rai e la sua giovanissima presentatrice davanti alla sede dell’azienda Mediaset. Le argomentazioni addotte sono significative: il modello che propone la trasmissione è sbagliato non tanto per l’uso erotizzato del corpo delle donne, ma per il suo carattere eccessivo. Nelle parole di una contestatrice, che, con le altre, rivendica una «non appartenenza» al femminismo: «le donne non devono certo rinunciare alla propria sensualità, ma c’è modo e modo»[3]. Il rischio paventato è che gli uomini o meglio i ragazzi maschi che guardano la televisione cercheranno nelle donne solo la bellezza e la disponibilità. La critica alla mercificazione della donna, che dichiaratamente muoveva la protesta, si riassume nella preoccupazione che soltanto la bellezza abbia valore nel mercato matrimoniale, a discapito di altre qualità come l’intelligenza. Sono queste «moderate» richieste, questo tirarsi fuori dal femminismo nella sua tradizione più radicale, questo essere moderatamente antisessiste a eludere la forza delle critiche femministe e ad attribuire la vera «rivoluzione» alla gestione del proprio corpo in un contesto in cui il potere è dato e naturalizzato.

Delle rovine ’68, sempre più additato come inizio della fine dell’ordine e della moralità, si salva eccezionalmente dunque una liberazione sessuale a uso e consumo del maschile dove la televisione porta a compimento e legittima come popolare e democratico un immaginario che si riallaccia al softporno cinematografico degli anni ‘70. Questo immaginario che riemerge prepotentemente nei salotti del potere prende la forma di una apparizione della Fenech in Salò di Pasolini. Le notti di Arcore materializzano letteralmente le figure tratte da questa produzione sottolineando quella pruderie classificatoria (la poliziotta, l’infermiera, la maestra) dove l’ulteriore violenza di questa ingiunzione sta nel richiedere il travestimento a una donna che il mestiere di infermiera lo ha svolto davvero. Una vera infermiera che si maschera da infermiera: condensazione del femminile «emancipato» che è, insieme, giocosa maschera, identità professionale, donna sessualmente liberata, prostituta e figura di cura all’interno di un immaginario protoporno televisivo sedimentato. Il richiamo al porno qui, significativamente, piuttosto che rifarsi a contesti hard si riallaccia ad un immaginario addomesticato, ancora una volta ironico. Dove il soft porno diventa diffuso, televisivo, infantilizzato, reso ancora più quotidiano.

Di recente Preciado (2010) a partire dall’analisi dell’impero economico e mediatico costruito dall’inventore della rivista «Playboy», ha prodotto una riflessione di marca foucaultiana, tra architettura e filosofia, che tratteggia un nuovo genere di eterotopia, l’eterotopia sessuale o pornotopia. Le feste berlusconiane condividono con la pornotopia analizzata da Preciado la rottura tra spazio pubblico e spazio privato e la centralità legittimante di una «mascolinità liberata», ma soprattutto l’effetto esibizionista-voyeurista, l’utilizzo dell’immagine e la messa in scena teatralizzata. Quell’immaginario segna il divenire soft-porno di un interno privato che qui è anche un luogo del potere politico e istituzionale. Sovrapposizione del reale sull’immaginario televisivo e dell’immaginario televisivo sul reale, il palazzo presidenziale, residenza privata, spazio di piacere domestico del capo del governo, è il luogo dove è prevista l’entrata effettiva delle ragazze nello schermo televisivo attraverso il dispositivo dello scambio sessuo-economico. La ragazza della porta accanto diventa la velina, ruolo per tutte, «risultato di una serie di dispositivi di rappresentazione attraverso i quali si [realizza] un processo audiovisuale di resa pubblica del privato» (idem, p. 66), che legittima e cristallizza l’asimmetria dei rapporti tra i sessi. Questo spazio mette in scena l’esercizio del potere a cui corrisponde un’estetica televisiva, dove è evidente la specularità tra Drive In – vero e proprio programma inaugurale, che dichiarava il suo voyeurismo fin dal titolo, schermo nello schermo, spettatore che guarda lo spettatore – e i resoconti delle scene arcoriane.

Il genere primitivo: il tempo e le altre

Per contrastare la mistificazione che ha trasformato lo scambio sessuo-economico in libertà sessuale è necessario ripensare le temporalità che strutturano i nostri immaginari sul genere. L’analisi delle recenti vicende italiane mostra infatti come al corpo femminile venga attribuito il ruolo contraddittorio di incarnare l’estrema modernità dei rapporti tra i sessi e allo stesso tempo il suo fondamento naturale, per definizione fuori dal tempo. In questa tensione tra la modernità della velina e il suo allacciarsi a un immaginario retrogrado che descrive il femminile come fondamentalmente statico, si gioca qualcosa di decisivo nella produzione del genere e della differenza. È proprio attraverso lo sguardo che il femminile viene costruito all’interno di questo doppio significato, attualizzando modalità del guardare che hanno storicamente strutturato non soltanto l’osservazione del corpo femminile, ma anche il modo in cui l’occidente ha scrutato i suoi «altri». In questo nodo concettuale, lo sguardo sul femminile si riallaccia a quello sulla razza, come ciò che struttura e definisce l’alterità. Le rassicuranti rappresentazioni in cui i rapporti di dominio tra i sessi sono dati per scontati in quanto naturali e dunque non determinati storicamente, indicano un parallelo con il modo in cui l’alterità culturale è stata pensata attraverso nozioni, come quella di primitivo, che svolgevano il ruolo di collocarla al di fuori della narrazione storica. È dunque urgente ripensare insieme le nozioni di genere e razza non soltanto perché in relazione l’una con l’altra, ma anche perché descrivono spazi discorsivi, ma non per questo immateriali, in cui la temporalità si intreccia con la produzione degli stereotipi.

L’analisi dei dispositivi della rappresentazione antropologica ha mostrato come lo sguardo sull’Altro produca la differenza e come in questo meccanismo la questione del tempo sia centrale. Essere oggetto di studio significa che qualcun altro ci sta guardando e descrivendo: lo sguardo è ciò che separa (Fabian 1983). Questa produzione di differenza si fonda sulla conversione della distanza spaziale in distanza temporale dove non ci può essere coesistenza tra chi conosce e chi è conosciuto. Nelle narrazioni ottocentesche dell’alterità culturale «il tempo era concepito in termini evolutivi con la razza come fattore chiave e il corpo come marcatore della differenza razziale e dunque temporale» (Tobing Rony 1996, p. 28). L’attenzione ossessiva per i corpi e le differenze somatiche si dispiegava in una pletora di studi che utilizzavano la fotografia come mezzo scientifico per la classificazione razziale, secondo modalità ampiamente diffuse fino al secondo conflitto mondiale. Questa concezione di radice evoluzionistica del tempo e dell’Altro attraverso la nozione di razza continua a operare anche in contesti storici in cui il paradigma razziale è stato esplicitamente ripudiato. Corpo e razza sono prodotti da un dispositivo distanziante che opera attraverso una temporalità fondata sull’oggettività dell’immagine: nel momento in cui è rappresentato, il corpo parla del tempo.

Il «vorace appetito per il corpo Primitivo» (idem, p. 28) è lo stesso che produce il genere come corpo da svelare attraverso dispositivi visivi in cui lo sguardo occidentale sull’altro si costruisce insieme allo sguardo sul corpo. La costruzione del corpo, dal punto di vista della conoscenza scientifica e medica, avviene attraverso un processo storico che vede nelle immagini un ruolo fondante (Foucault 1966). Il rapporto tra visione e sapere che si afferma con la moderna scienza medica implica una gerarchia tra superficie e profondità, per cui penetrare il corpo significa intraprendere un viaggio a ritroso nel tempo fino alla scoperta delle origini della vita. Il corpo femminile in quanto corpo naturale è quello che meglio si presta a questa opera di disvelamento ed esposizione, come mostra chiaramente la prassi medica del XIX° secolo. Il modello di conoscenza che si fonda sull’osservazione dell’interno del corpo veicola un discorso sul femminile come qualcosa che, analogamente alla natura, va scoperto, svelato, dominato intellettualmente, come un sostrato passivo che attende di essere rivelato (Jordanova 1989). Nel processo di trasformazione del corpo in spettacolo, l’oggetto su cui si esercita la visione scientifico-anatomica è, significativamente, il cadavere della prostituta.

Questa modalità scientifica che si sovrappone alla visione viene riattivata nel cinema delle origini, che, come suggerisce Giuliana Bruno, traspone il desiderio di conoscenza delle lezioni di anatomia del XVIII° secolo all’interno di forme cinematografiche:

Tale desiderio ‘analitico’ è intrinseco al linguaggio del cinema e ai suoi codici spettatoriali. È inscritto nella costruzione semiotica del film, nel suo découpage (una «dissezione», come dice la parola stessa, della narrazione in inquadrature e sequenze), nelle tecniche di ripresa e nei «tagli» di «montaggio», nei piacevoli effetti prodotti dal dispositivo cinematografico. Questo desiderio corporeo è fortemente radicato nelle forme cinematiche delle origini, ossessivamente impegnate a investigare e manipolare il corpo (Bruno 1992, pp. 73-74).

L’ossessione, desiderante e investigativa, che associa l’erotizzazione con un’inesauribile desiderio di vedere, si rintraccia nell’attenzione insistente che i programmi televisivi italiani dedicano alle figure femminili che fungono da cornice (vallette, veline, modelle, partner per lo più silenti dei presentatori dei più disparati programmi che vanno dall’informazione all’intrattenimento). Lo sguardo televisivo feticizza il corpo femminile concentrandosi su parti di corpo e su primi piani che svelano le anatomie, in un processo di costruzione e classificazione costante del genere. Vedere, scoprire e conoscere si danno come un insieme di attività intrecciate che situano il corpo femminile in una dimensione materiale e fantasmatica insieme.

Qui ciò che ci interessa comprendere è in che modo la suggestione dello sguardo come macchina del tempo si presti per un’analisi dell’immagine femminile nella contemporaneità, ovvero in che modo lo sguardo sulla differenza razziale e sessuale, concretizza, condensa e riflette un rapporto peculiare con il tempo e la modernità. Il corpo delle donne, in quanto corpo «altro» per eccellenza, rimanda a una dimensione temporale: si tratta di un corpo originario. Le lotte di emancipazione – la modernizzazione del femminile – vengono interpretate sia come allontanamento da un passato primitivo e retrogrado sia come qualcosa che tradisce l’essenza, l’autenticità dell’essere donna. La «femminilità» a cui, come è ossessivamente sottolineato, «non bisogna rinunciare», si fonda su qualcosa di altrettanto «vero» che è il desiderio maschile. Lo sguardo maschile si dà come indiscutibile, incontrovertibile, fuori dal tempo. Le donne sono una rovina del passato, stanno per sparire – la loro autentica femminilità tende a dissolversi– ma allo stesso tempo sono la modernità, la incarnano, tradendo la propria essenza in un processo di distanziamento dal passato. Una stessa logica opera nella rappresentazione del primitivo e in quella del femminile. Come sottolinea Clifford, alle realtà cosiddette tribali è sempre solo riservato il ruolo di svanire e modernizzarsi e il mondo non occidentale è concepito come rovina (Clifford1988, pp. 235-236).

L’effetto rassicurante del corpo femminile nelle televisioni italiane è dato forse proprio dal suo carattere di segno originario, primitivo, dove la donna svestita rappresenta la cornice della scena, la possibilità stessa di ogni rappresentazione. L’apparizione della velina ci ricorda che c’è qualcosa da vedere e allo stesso tempo legittima la narrazione di una modernità che prevede l’emancipazione femminile. In questo quadro rappresentare le donne significa paradossalmente emanciparle riportandole alla loro funzione di segno/merce. Potremmo affermare che negli immaginari di genere dominanti coesistono temporalità che operano congiuntamente nel reprimere la libertà femminile. La modernità incarnata dal divenire-merce della donna sullo schermo si intreccia con il costante richiamo al suo essere prima di tutto corpo. La contraddizione tra queste due temporalità è solo apparente in quanto funzionale all’esercizio del potere: la dimensione domestica, il corpo, la riproduzione, la sessualità sono ricondotti sistematicamente al femminile in quanto naturali, radice dell’essenza dell’umano. Il femminile sta a significare proprio questa dimensione presimbolica dell’umano prima dell’umano. In questa riflessione il genere femminile si potrebbe definire un «protogenere»: dove l’imperativo di mercato, che include i corpi e la sessualità femminile, si legittima a partire da una logica che vede nella femminilità non tanto il secondo sesso, ma il sesso primario, la radice dei rapporti umani.

In questo quadro l’iperappresentazione delle donne è, per parafrasare Rubin (1975), un «traffico» di immagini femminili. L’immagine della donna occupa lo spazio centrale del sistema mediatico in quanto produce incessantemente un preciso referente che cristallizza una categoria di popolazione internamente data come omogenea, «le donne», che non possono che tendere all’identificazione con la propria immagine liberata. La modernità di questa nuova versione dell’appartenenza a se stesse non è solo una possibilità, ma diventa imperativo «umanitario»: deve essere imposta con le armi o con leggi che, come quella sul velo, impongono la «democrazia dei sessi».

Nostalgia del femminismo

Una visione spoliticizzata, banalizzante e ironicamente softporno delle relazioni tra generi sta alla base di retoriche che criminalizzano il conflitto sociale, ricondotto a una semplice matrice ideologica. Davanti a questa visione – nel doppio senso di ottica e di sguardo sul femminile – il richiamo alla pulizia dell’immagine, al decoro dei comportamenti, alla decenza, ad una rappresentazione più consona del femminile, a una moderazione, a delle politiche «ragionevolmente» paritarie, può significare solo uno scacco per il femminismo. In entrambi i casi infatti sono in gioco tentativi di restaurazione che tendono a dare per scontato un ordine naturale nei rapporti tra i sessi. La possibilità di una politica femminista non passa tanto per la costruzione o rivendicazione di una differenza tout court, ma per contrapposizioni conflittuali legate a contesti storici specifici, nella condivisione di un antagonismo. È necessario per questo introdurre la dimensione della temporalità come spazio non lineare, controverso, negoziato. La critica femminista al potere delle immagini sposta il fuoco dall’appropriatezza dell’immagine alla produzione dell’immagine stessa e alla sovversione dei dispositivi che la costruiscono.

Le lotte femministe sono state ancorate ad un periodo storico attraverso un dispositivo che le confina, le codifica, le reinterpreta, anche grazie a un immaginario mediatico potente. Questo confinamento temporale è costantemente marcato e delimitato rispetto ad altri periodi, come gli anni ’50, rappresentati sempre come innocui e rassicuranti.

Una campagna pubblicitaria di intimo femminile, comparsa all’indomani delle dimissioni di Berlusconi, esplicita l’immaginario anni ‘50 di cui si nutrono le immagini delle modernissime veline. In quello che viene presentato come un «addio giocoso e ironico», una modella (s)vestita di rosso richiama la figura a doppia pagina di Marilyn Monroe sdraiata sulla stoffa rossa, che nel 1953 aveva lanciato la rivista «Playboy». La modella è descritta dall’azienda come «una ragazza del nostro catalogo», dove il  «catalogo» comprende allo stesso modo articoli di moda, immagini e donne. Il testo che recita «bye bye Mr. President» richiama l’augurio di buon compleanno a Kennedy (di cui sono note le richieste di sesso a pagamento) da parte dell’attrice, sua amante. Pubblicità, merce, corpo femminile, sessualità, prostituzione sono qui condensati perfettamente in un messaggio rivolto alle consumatrici, che è incentrato su una cifra nostalgica: gli anni 2000 diventano una versione moderna degli anni ‘50 a partire dalle libere, nonché liberiste interpretazioni  dei movimenti degli anni ‘70.

Le trasformazioni delle relazioni di genere sono una dinamica costitutiva delle relazioni sociali che tuttavia vengono costantemente riportate a un’origine. Come tutti i conflitti sociali, il conflitto di genere segue una temporalità non lineare in cui le conquiste sono legate a momenti storici precisi segnati da processi di soggettivazione collettivi. La storia di questi processi ci insegna che il tempo del femminismo non è né omogeneo né continuo, ma disegna al contrario una temporalità in movimento, fatta di scarti, di ritorni e di accelerazioni in cui la dimensione soggettiva e collettiva si sovrappone a un insieme di condizioni storiche, sociali e culturali. Questa non omogeneità del tempo del femminismo rimanda inevitabilmente all’eterogeneità costitutiva delle sue componenti. Troppo spesso infatti il femminismo degli anni Settanta tende a essere identificato come un movimento omogeneo e unitario, mentre è sempre più chiaro, in particolare alla luce di recenti ricerche storiche, fino a che punto fosse in realtà un’esperienza plurale, eterogenea e multipla, attraversata da posizioni estremamente divergenti tra di loro (Bertilotti e Scattigno 2005). Una concezione patrimoniale delle lotte del femminismo italiano in quanto legate a una generazione, a un periodo storico preciso, che ha un inizio e una fine, ha contribuito alla rappresentazione del conflitto di genere come inattuale. La possibilità per «altri» femminismi di prendere la parola è un elemento indispensabile perché emergano delle rivendicazioni legate a una conflittualità di genere e sociale che è anche generazionale, contingente, presente. La patina del tempo produce la nostalgia, valorizza e insieme storicizza, cristallizzandola, una pratica di lotta politica. Temporalizzare e contestualizzare il femminismo, o meglio, i femminismi nella loro contingenza e pluralità, può dunque diventare una pratica che elude la nostalgia, marchio della sensibilità mercificata del postmoderno: nostalgia che si rivolge al presente, che rappresenta il presente come qualcosa di già passato, effimero, collocandoci in un presente già periodizzato (Jameson 1989). Sottolineare come periodo di lotta autentica quello di una generazione fa, in cui le nostre madri avevano davanti un nemico identificabile, il patriarcato, e allo stesso tempo rappresentare le nuove generazioni come inconsapevoli e impotenti davanti a tanta confusione e ambivalenza, non ci porterà molto lontano.

Un atteggiamento nostalgico nei confronti delle lotte del secondo femminismo le rende caduche, morte: è invece necessario appropriarsi nel presente della conflittualità  espressa in altre fasi storiche attraverso un processo di attualizzazione che è anche trasformazione, come un processo che non è mai finito, né concluso, ma che rimane inevitabilmente aperto, in movimento. Le rivendicazioni centrali negli anni ‘70 su sessualità, riproduzione e diritti mantengono tutta la loro attualità nel contesto politico contemporaneo che le vede inestricabilmente legate alle complessità delle identità, delle migrazioni, del razzismo, delle tecnologie, delle realtà queer (Marchetti, Mascat e Perilli 2012). Un tipo di periodizzazione che congela il passato e il presente facendone due entità totalmente staccate, stabilisce una gerarchia temporale che impedisce di agire nel presente riallacciandosi a forme di radicalità che si sono espresse in modi eterogenei in momenti storici e contesti culturali diversi.

Come sottolinea Morini, nei discorsi politici più recenti, legati alle manifestazioni e agli appelli del movimento Se non ora quando, «il femminismo doverosamente manierato e mai evocato in quanto tale» viene addomesticato e reso innocuo dalla politica delle quote, funzionale alla logica liberale, perdendo la sua capacità di critica del sociale, dove il genere viene utilizzato come «rassicurante bandiera modernista» (Morini 2011). Solo una prospettiva femminista che riconosca al suo interno la produzione dei discorsi e delle rivendicazioni di sex workers, transessuali, e identità non eteronormative, mettendo al centro la produzione del genere nella sua materialità e nel suo intreccio con i discorsi razzisti, può ritrovare radicalità. Le recenti rivendicazioni che prendono posizione contro le rappresentazioni del femminile si appoggiano sulla rimozione di problematiche interne alla questione della conflittualità di genere nella contemporaneità italiana: il contesto peculiare che stiamo vivendo ci permette di rimettere insieme discorsi che si danno spesso come slegati, e che riguardano il genere, i diritti, il lavoro, la riproduzione, l’immigrazione e il razzismo.  «Oggi la lotta sul terreno del lavoro riproduttivo, oltre a essere lotta contro la svalutazione del lavoro femminile, è lotta contro le politiche dell’immigrazione, è lotta contro il razzismo e il peso del retaggio coloniale sull’organizzazione di questo lavoro» (Federici 2011).

Il femminile «dopo natura»

Potremmo dire con Strathern (1992) che il modo euro-americano di pensare, di immaginare, di vedere è «dopo natura», dove tuttavia la nozione di natura, smaterializzata, ripensata, ricomposta, è sempre all’opera. Siamo dentro una prospettiva che si basa su un’idea di cultura costruita su dati naturali e che ci porta a pensare di poter vedere solo quello che è permesso dal campo di visione, nella consapevolezza che c’è sempre di più, di altro, sottratto al nostro sguardo, che aspetta il nostro sguardo. Questa prospettiva ci porta a pensare le immagini come delle pure superfici che impediscono di vedere le verità profonde che si celano al di sotto di esse. La «realtà» della donna, occultata dall’esibizione della velina, è anch’essa un’illusione ottica prodotta da questa sovrapposizione. La mercificazione della donna sullo schermo, il suo essere puro spettacolo erotico, si fonda precisamente su di una «realtà» che riduce le donne alla loro corporeità. In questo senso una politica delle profondità, delle verità nascoste, rimuove la problematicità stessa dell’immagine: «l’aspetto più importante dell’immagine, precisamente il suo potere come immagine e niente altro, è quindi evitato e lasciato intatto» (Chow 2004, p. 26).

L’esperienza visiva, così determinante nella contemporaneità, richiede «una nozione più plurale di spettatorialità», in cui «lo sguardo può essere pensato come un sito di potere e resistenza» (Russell 1999, p. 121). Gli individui, nella fattispecie le donne, sono interpellate dalle immagini come osservatrici, ma anche come oggetto, spettacolo, immagine. È dunque possibile riprendere la domanda posta in apertura, «cosa vogliono le immagini da me?», tentando di rimettere in discussione sia la logica binaria che oppone soggetto e oggetto dello sguardo, sia la lettura di una soggettività che coincide perfettamente con lo sguardo su se stessi/stesse.

In questa lettura è necessario confrontarsi con la complessità delle nozioni di differenza e di genere a partire dalla nostra immagine di noi, in una dimensione costitutivamente intersoggettiva e dunque fondamentalmente politica, per evitare quell’effetto di regressione infinita di visualizzazioni, in cerca di una visione adeguata, giusta, autentica.

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[1] Il riferimento qui è all’intervista rilasciata da Terry de Nicolò nel settembre 2011, una delle donne coinvolte nelle inchieste sulla prostituzione a palazzo.

[2] Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi e Grazia Zuffa, «Sesso e politica  nel post-patriarcato».

[3] Da La stampa, 8 marzo 1994 cit. in Guaraldo 2011, p. 102, in nota.

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