In virtù di un gioco di specchi deformante le domande attorno alla libertà femminile suscitate dal gesto elettorale di Paola Bacchiddu hanno prodotto una sorta di trappola argomentativa. Chi ha osato interrogare quel gesto alla luce del complesso ordine di significati in cui è stato compiuto – come ha fatto Ida Dominijanni – si trova suo malgrado associata al cosiddetto «femminismo moralista», colpevole di avere «oggettivato» Paola Bacchiddu e la sua libertà nel momento stesso in cui ne ha contestato la mossa. Ida Dominijanni, per la verità, con amore per la contraddizione si è limitata a domandarsi che cosa significhi la libertà femminile in un’epoca neoliberale, post-patriarcale e biocapitalistica che trasforma ogni libertà in libertà di mercato, mentre il corpo delle donne rischia sempre di diventare un «capitale umano» indifferente, da investire in ottemperanza all’imperativo dell’auto-imprenditorialità. Non siamo e non possiamo essere del tutto padrone dell’ordine di relazioni e di significati in cui s’iscrivono le nostre azioni. Per questo è necessario interrogare quelle azioni quando, come donne, abbiamo l’ambizione di affermare la nostra libertà.
Evidentemente, però, questo problema non si pone e non può essere posto se, come ha sostenuto Angela Azzaro, lo scarto rispetto al mondo maschile – ai suoi significati e ai suoi rapporti di potere – si esprime completamente e senza residui nell’espressione della propria soggettività. Lo dimostrerebbero inequivocabilmente le sex workers, visto il modo in cui hanno ri-significato il termine «puttana» facendone una bandiera della propria libertà. Eretica rincara la dose, prendendosela soprattutto con il femminismo della differenza: mettere in dubbio questa libertà significa non comprendere, vittimizzare oppure addirittura costringere all’interno di angusti recinti normativi l’autodeterminazione delle donne che abortiscono, di quelle che fanno scelte sessuali non convenzionali o della recente eroina dell’universo pansessuale, Conchita Wurst. Non è ben chiaro come questa concezione della libertà svincolata dal contesto e dai rapporti in cui si colloca possa essere addirittura minacciata dalle altrettanto libere opinioni altrui. D’altra parte, però, non tutte le scelte sembrano essere benedette dalla soggettività, o dal principio di autodeterminazione, e anzi pare quasi che la libertà di scelta sia predeterminata dall’oggetto obbligato della scelta. Non sarebbe altrimenti possibile comprendere le critiche e gli attacchi – questi sì condivisi, anche al di là dei fecondi disaccordi – alle «femministe moraliste» (identificate con l’esperienza di Se non ora quando, con il suo ceto politico femminile o con l’opinione pubblica di sinistra che contribuiscono a produrre) e alla loro colpevole distinzione tra donne «degne» e «indegne». A rigor di logica, infatti, è una scelta anche diventare madre invece di abortire, conquistarsi un salario in un luogo diverso dal letto e depilarsi anziché coltivare una folta barba attraverso massicce dosi di testosterone. Si può osservare, come è stato fatto, che mogli e puttane sono figure speculari in un universo significato al maschile, ruoli di servizio nell’ordine patriarcale. Si può sostenere che ciascuna è individualmente capace di significare liberamente e ironicamente quei ruoli, realizzando il sogno neoliberale della perfetta equivalenza di tutte le posizioni. Si può dire che le centinaia di migliaia di donne scese in piazza il 12 febbraio del 2011 contro il mercato politico-sessuale di Silvio Berlusconi erano solo delle bacchettone accecate dal perbenismo patriarcale, come in definitiva fa anche Elettra Deiana, mentre le sex workers di tutto il mondo sono l’avanguardia che indica alle donne la strada della loro libertà. Oppure si può pensare che la libertà di scelta non sia la sola risposta alle domande che è necessario, o almeno possibile, porsi intorno alla libertà femminile.
Assieme all’acqua sporca del «femminismo moralista» di Se non ora quando vengono buttate via (talvolta con malcelata soddisfazione) anche le decine di migliaia di donne scese in piazza il 12 febbraio 2011 che – per la prima volta dopo anni – hanno preso parola in massa. I numeri sono importanti non tanto perché legittimano un discorso anziché un altro, ma perché impongono di guardare il problema della libertà femminile al di là della cornice di un selfie. Mentre allora Sara Tommasi, sostenuta da sua madre, dichiarava che è del tutto «normale» vendersi, spendere e usare il proprio corpo per conquistarsi un posto al sole o nelle aule del parlamento, quelle donne pretendevano di affermare un’altra normalità o, quantomeno, una possibilità differente di stare al mondo senza adeguarsi alla misura, alla subordinazione e alla perfetta equivalenza delle posizioni imposte dal mercato sessuale. La libertà che quelle donne hanno espresso non è forse assoluta, pienamente cosciente, pulita da ogni contraddittoria complicità con l’ordine maschile dei significati, del potere e delle gerarchie sessuali, ma si è resa visibile come rifiuto di una condizione opprimente e limitativa. Non si tratta certo di costruire, a partire da qui, un’identità politica nell’oppressione. Si tratta, piuttosto, di pensare che tra l’affermazione di un’incondizionata e assoluta sovranità su se stesse – che, come ha osservato Maria Luisa Boccia, lascia affiorare una logica proprietaria davvero neoliberale, impensata, impensabile e addirittura negata nello slogan «il corpo è mio e lo gestisco io» – e la ricerca di una definizione autonoma di sé e del proprio desiderio, svincolata dai rapporti di potere che ogni giorno pretendono di assegnarci un ruolo, c’è il problema che non è risolto per tutte, o non è risolvibile una volta per tutte, della propria liberazione. Un problema collettivo che varrebbe la pena porsi per non trattare la libertà come soluzione sempre già data, che è invece esattamente ciò che il discorso neoliberale pretende facendo di chi non riesce a essere abbastanza libero una sorta di disadattato che in fondo si merita la sua oppressione.
Se la libertà femminile si dà nella relazione tra donne e non semplicemente come spazio residuale rispetto al dominio maschile, è allora necessario riconoscere che la libertà non è solo relazione e interdipendenza ma anche lotta, che tra le donne la relazione prende anche la forma del conflitto, si tratti di un aspro dibattito in rete o dello scontro sulla giornata lavorativa tra una padrona e la sua badante. Se la libertà femminile è quella praticata da ogni donna che quotidianamente sceglie che cosa fare del proprio corpo oppure a chi venderlo, è allora necessario ammettere che molte donne per essere libere – ad esempio dalla dipendenza da un uomo violento – devono pagare il prezzo di un asservimento – la dipendenza da un padrone e da un salario, in una villa di Los Angeles o negli sweatshops indiani. In queste pratiche infinite di liberazione il corpo delle donne non è il veicolo di una qualche essenziale identità, eppure resiste all’indifferenziazione della libertà neoliberale come pure alla neutralizzazione della generica nuda vita messa a valore dal biocapitalismo. D’altra parte, la mossa di Bacchiddu è stata possibile e clamorosa non perché ha messo in questione un presunto moralismo, come ha osservato Cinzia Arruzza, ma solo perché si è collocata all’interno di un mercato del sesso e delle immagini che non apprezza tutti i corpi femminili allo stesso modo: secondo la sua misura, quello mostrato è un bel culo.
Il corpo delle donne dovrebbe infrangere i giochi di specchi in cui la libertà circola secondo un criterio di equivalenza truccata per fare luce su posizioni che, nella loro differenza irriducibile, sono globalmente rilevanti e non sono iscrivibili nella logica, ancora una volta speculare, che contrappone la norma e la sua trasgressione. La scelta allora, se di scelta di tratta, sta nel pensare il corpo della libertà.