Due belle notizie sono arrivate in questi ultimi giorni: la prima è che finalmente iniziano in Italia le prove tecniche di reddito di base (secondo i primi calcoli spetterebbero circa 10 euro l’anno per tutti e 3 milioni 194mila disoccupati! Ed è meglio evitare il calcolo per gli oltre 9 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà) e la seconda è che dal 2020 il Belpaese si metterà in pari con la media OCSE nel rapporto tra spesa per le pensioni e PIL. Dietro a tutta questa euforia economica – pare che anche i mercati si siano ripresi – non mancano però le facili critiche: la spesa prevista per il reddito di base è misera, il risparmio sulle pensioni provocherà un futuro di povertà per i giovani precari di oggi. Da dove nasce tale egoistica furia? Sarà che queste generazioni sono davvero troppo choosy, come un tempo disse saggiamente la ministra Fornero?
Leggiamo intanto cosa dicono le previsioni dell’OCSE: «Con la riforma globale del sistema pensionistico adottata nel dicembre 2011, l’Italia ha realizzato un passo importante per garantirne la sostenibilità finanziaria». Con sollievo apprendiamo che il fatto che l’Italia avesse il sistema pensionistico più costoso d’Europa era «un’eredità del passato», mentre «dal 2021, nessun lavoratore sarà in grado di andare in pensione prima di 67 anni e dopo il 2021, l’età pensionabile andrà ben oltre il limite di 67 anni». Di che si lamentano i precari, quando sappiamo che ora la sostenibilità finanziaria è assicurata?
In effetti anche l’OCSE ammette: «i lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti saranno più vulnerabili al rischio di povertà durante la vecchiaia». Cosa si suggerisce allora? Facciamo un’ipotesi: potremmo forse evitare di far ricadere sui lavoratori il costo delle irregolarità delle aziende? Potremmo forse segnalare che il lavoro nero consente un risparmio dei contributi tutto a spese dei lavoratori? Non solo, non basta. La risposta è molto più ingegnosa: bisogna assicurarsi che le persone rimangano davvero sul mercato del lavoro fino a raggiungere l’età pensionabile eliminando quei meccanismi che permettono loro di lasciare il lavoro in anticipo e promuovere politiche per «l’occupazione e l’occupabilità e per migliorare la capacità degli individui ad avere carriere più lunghe».
Sì, ma le pensioni per i precari? Quelli che entrano ed escono continuamente dal mercato del lavoro? Quei milioni di giovani occupabili in cerca di carriera che dovranno aspettare la fine delle carriere più lunghe di chi già lavora? Semplice: basta sviluppare il «pilastro pensionistico privato»! Con il nostro reddito medio di 28.900 euro, rispetto alla media OCSE di 32.400 euro, serve in fondo solo uno sforzo d’immaginazione affinché tutti i conti tornino!
Almeno possiamo dire che oggi i pensionati stanno bene. Hanno case di proprietà, sono generosamente assistiti tramite servizi «in natura» – nel rapporto OCSE non si dice che i servizi «in natura» sono tutti a carico di badanti quasi esclusivamente donne e migranti, spesso pagate con voucher da 10 euro con contributi già inclusi, ma non sembra un dettaglio influente –, e tutto questo integra il loro reddito. Attenzione, però, anche laddove le cose sembrano andar bene si nascondono pericoli. Mai fidarsi del nonno! Come rivela acutamente Anna Cristina D’Addio, esperta di pensioni presso l’OCSE, «il costo di assistenza per le persone non autosufficienti, per esempio, può ridurre in modo notevole il reddito disponibile dei pensionati futuri». Ma basta tagliare un po’ qua e un po’ là, come abbiamo iniziato a fare da qualche anno, e il bilancio pubblico si rimetterà sicuramente in sesto. Quello che capiterà ai bilanci di lavoratori e pensionati sarà tutta un’altra storia. E lo dice persino l’OCSE.