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31 ottobre, sciopero nelle Università in Gran Bretagna: dentro e oltre la questione del salario

Strike in the UKEnglish_flag

di GABRIELLA ALBERTI

Il 31 ottobre 2013, per la prima volta in 16 anni, docenti, personale amministrativo, addetti alle pulizie e bibliotecari delle università britanniche si sono uniti nei picchetti e nelle proteste contro i tagli dei salari che hanno coinvolto 149 campus. I tre sindacati che hanno guidato lo sciopero sono l’University College Union (UCU), che rappresenta il personale accademico, l’UNISON – per tutto il personale d’ufficio, inclusi gli impiegati amministrativi e i bibliotecari – e UNITE, che coinvolge i lavoratori delle pulizie, della sicurezza e della mensa.

Alla Liverpool Hope University tutte le lezioni, i workshop, i seminari sono stati cancellati per un giorno; alla Loughborough University i laboratori di chimica sono stati spostati. Raduni, manifestazioni e picchetti sono stati organizzati in tutto il paese, da Birmingham a Liverpool, da Leeds a Londra, da Edimburgo a Glasgow, da Aberdeen a Dundee. Nonostante solo il 5% del personale complessivo abbia votato a favore dello sciopero, il livello di partecipazione e la composizione della lotta lasciano intravedere una nuova ondata di mobilitazioni contro la ristrutturazione del sistema di istruzione superiore in corso nel Regno Unito.

Gli scioperi denunciano il ridicolo aumento dell’1% offerto dai datori di lavoro a seguito delle trattative sui tagli del 13% che hanno colpito i salari dall’ottobre del 2008, la riduzione più significativa dopo la Seconda Guerra mondiale, secondo i leader dell’UCU. Il rifiuto da parte dei datori di lavoro di aumentare i salari oltre l’1% è particolarmente oltraggioso considerando che l’anno scorso complessivamente i profitti hanno raggiunto 1,1 miliardi di sterline, che i fondi universitari ammontano a circa 10 miliardi di sterline (al di là dei fondi pensione, secondo HESA) e che i salari di consiglieri e vice-consiglieri dei consigli di amministrazione sono stati aumentati di centinaia di migliaia di sterline all’anno, secondo un criterio non diverso da quello dei più scandalosi bonus e benefit accordati ai top-manager del settore privato. In effetti, lo sciopero è parte di una più ampia protesta contro la privatizzazione dell’università e si pone in continuità con la mobilitazione studentesca degli scorsi anni contro l’introduzione di una tassa di 9,000 £ per i corsi universitari undergraduate. La natura di classe di questo aumento delle tasse nelle università britanniche, che esclude i meno privilegiati, impone la logica del debito sulla popolazione studentesca e la estende al loro futuro di lavoratori, mentre al contempo è causa ed espressione di un processo complessivo di degradazione dell’istruzione pubblica e delle condizioni di quanti vi lavorano.

Molti lavoratori dell’università sanno che la questione della paga, che certamente è più semplice portare avanti con una vertenza, è solo una delle molte che riguardano l’istruzione. Mentre è importante ricordare che uno sciopero contro i tagli salariali è cruciale in una situazione nella quale molti colleghi stanno lottando per sbarcare il lunario, lo sciopero va ben al di là della semplice questione del salario. Di fatto è impossibile slegare quest’ultima dalla complessiva degradazione dei termini e delle condizioni di lavoro, dalla questione dell’uguaglianza di genere e dell’equità, come pure dalle politiche sulla sicurezza nel lavoro e sulla sicurezza sociale portate avanti nella ristrutturazione neoliberale delle università pubbliche, nel Regno unito e sul piano internazionale. Una questione urgente per quanto riguarda le donne che lavorano nell’università è la discriminazione salariale (la differenza con i salari degli uomini è una delle più ampie nel settore pubblico del Regno unito) ma anche il fatto che i posti più precari e pagati meno – come quelli con contratti part-time e a tempo determinato – sono occupati prevalentemente da donne, da minoranze nere e da migranti. I datori di lavoro rifiutano di negoziare qualunque altra cosa che non sia il salario e il congedo per disabilità, e quindi ignorano la discriminazione salariale sulla base del sesso e la crescente precarizzazione dell’impiego tanto per il personale accademico quanto per quello non accademico. Secondo una recente ricerca, il settore dell’istruzione superiore, accanto a quello ospedaliero, è quello che fa maggiormente ricorso a contratti a zero ore (una delle forme di assunzione più precarie e che sta diffondendosi maggiormente in quello che con un eufemismo si definisce «il Regno unito post-recessione», una diffusione comparabile a quella dei lavori a chiamata nel settore privato).

Una questione di cui si parla meno, ma che è probabilmente una delle più urgenti per i ricercatori ed è stata recentemente sostenuta da Nadje Al-Ali, professoressa di studi di genere al SOAS, è «il fatto che così molti di noi fanno esperienza di un incredibile sovraccarico di lavoro. Il nostro carico di lavoro è aumentato tanto quanto i nostri salari sono diminuiti. Molti di noi lavorano ogni sera e ogni week-end, con un costo molto alto in termini di salute e rispetto alla nostra vita familiare. Non sorprende che tra l’aumento del carico di lavoro e la contrazione dei salari lo stress da lavoro stia raggiungendo livelli epidemici». In altre parole è la precarizzazione e intensificazione del lavoro accademico la questione più scottante al di là di quella, che emerge pubblicamente, dei salari. Per questo è necessario un movimento più ampio contro la complessiva degradazione delle condizioni di lavoro che coinvolge diverse categorie di individui.

Nell’Università di Leeds, in preparazione dello sciopero, è stato entusiasmante vedere per la prima volta da decenni, nelle assemblee sindacali, diverse categorie di lavoratori fianco a fianco a discutere di come la questione del salario sia solo un esempio di questa complessiva degradazione e privatizzazione dell’istruzione universitaria. Il discorso ufficiale condiviso dai tre sindacati enfatizza la necessità di solidarietà tra le diverse categorie e ci sono state sempre più discussioni attorno alla necessità di introdurre uno standard salariale minimo (living wage) all’interno del campus. Questa è anche una risposta ai dati resi pubblici dal Sindacato nazionale degli studenti, secondo i quali in oltre la metà delle università del Regno il personale è pagato meno del necessario alla sussistenza, mentre oltre un quarto ha più di 100 impiegati pagati meno di quello standard. Le paghe da fame del personale delle pulizie o delle mense contrastano ampiamente con quello dei vice-consiglieri, che guadagnano circa 15 volte più dello staff pagato meno – uno dei più ampi divari salariali nel settore pubblico. Se consideriamo la crescente esternalizzazione dei servizi al settore privato, specialmente per quei lavori fatti dai migranti, allora la rivendicazione di un salario minimo di sussistenza risulta ancora più importante, benché sia al contempo più complicato applicarla a lavoratori che sono formalmente dipendenti da un differente datore di lavoro. Tanto il potenziale quanto i limiti della Campagna per il salario minimo di sussistenza stanno venendo alla luce nel percorso di organizzazione al Campus di Bloomsbury, che include le università di SOAS e Birkbeck a Londra, dove i lavoratori rivendicano ferie e malattie pagate e diritti alla pensione per i lavoratori in appalto in nome di un uguale trattamento.

L’attuale mobilitazione mostra quale importanza strategica abbia la questione di una solidarietà che attraversi le categorie nella lotta per i diritti del lavoro nell’accademia neoliberale. La questione della paga è importante in sé e ha il potenziale di tenere assieme gli interessi che vanno da quelli dei collaboratori più precari e meno pagati degli uffici amministrativi a quelli degli accademici che non vogliono continuare a vedere i loro stipendi diminuire a causa dell’inflazione e minacciata la progressione della loro carriera perché non fanno nulla per evitarlo. La questione salariale deve andare di pari passo con le lotte contro la gestione privata e manageriale delle istituzioni pubbliche e i loro effetti in termini di riduzione dello spazio per il sapere critico e di attacco alla libertà scientifica. La degradazione della formazione è infatti una conseguenza del crescente dominio di interessi privati che penetrano nei curricula degli studenti, sfruttando le loro prime esperienze lavorative e trasformandoli in fornitori di lavoro libero, vendendo loro il sogno di un’accresciuta «occupabilità».

Giorni come il 31 ottobre, sebbene ancora molto simbolici, ci ricordano che in fin dei conti le nostre università possono continuare ad andare avanti solo grazie al lavoro quotidiano di tutti i lavoratori dell’università, addetti alle portinerie e alle pulizie, personale amministrativo, bibliotecari, tutor e docenti. Solo coinvolgendo tutte le categorie l’università come luogo di lavoro può essere fermata producendo un effetto maggiore sia in termini di crescente consapevolezza sia guadagnando il supporto degli studenti che, sebbene presentati come gli “utenti” vittime della nostra «ritirata dal servizio», sono anche gli alleati più prossimi e naturali nella lotta per un futuro privo di debito, bassi salari, intensificazione del lavoro e restrizione del pensiero critico …

A questo proposito uno degli eventi più interessanti dello sciopero è stato la partecipazione di movimenti dal basso come quello degli studenti laureati che lavorano come tutor i quali, da pochi anni, si stanno organizzando per reclamare i loro diritti come lavoratori. In Gran Bretagna i tutor che fanno lezioni, seminari e registrano esami sono almeno pagati. Tuttavia, similmente a quanto avviene in ogni altri sistema accademico del mondo, essi rappresentano tuttora una delle forme di lavoro più sfruttate e precarie. I tutor sono infatti una forza lavoro essenziale che tiene i seminari in quasi tutte la facoltà, venendo pagati per le ore che fanno ma venendo esclusi dai diritti connessi allo status di «lavoratore dipendente». Si tratta di una distinzione critica nel sistema britannico delle relazioni di lavoro. L’auto-organizzazione dei Postgraduate Research students’ (PRGs, ovvero gli studenti laureati e ricercatori) di Leeds è una delle più avanzate nel paese e la loro lotta ha raggiunto alcuni risultati concreti. In seguito a una lunga battaglia sulla paga e sul trattamento equo nel marzo del 2013 i PRGs hanno ottenuto dall’università il riconoscimento dello status di «lavoratori». Le implicazioni dell’ottenimento di questo status sono importanti perché i dottorandi che ricoprono ruoli di insegnamento possono ora vedersi pagate le vacanze e il tempo speso per la preparazione delle lezioni. Essendo una delle categorie di lavoratori più precarie nell’università, sempre più centrale in un sistema universitario in cui il personale accademico è sovraccarico di lavoro e sotto pressione, il Postgraduate 4 Fair Pay ha assunto un ruolo centrale nella mobilitazione degli studenti in solidarietà con i ricercatori in sciopero e ha usato lo sciopero come opportunità per creare legami più forti con il sindacato UCU. Il PRGs reclama una configurazione giusta ed equa della paga piuttosto che la sua standardizzazione in tutte le facoltà, definendo le ore frontali, di ricevimento e di registrazione grazie all’implementazione di un codice delle pratiche valido a livello universitario (attualmente in fase di sviluppo). I PRGs devono fare ancora molta strada nella loro lotta per una paga e un trattamento equi. Il processo di negoziazione con il management è ancora aperto e ci sono molte questioni da risolvere in relazione alla paga in caso di malattia, il pagamento degli arretrati e questioni di equità relative all’accesso e al reclutamento, che potrebbe essere migliorato allargando le opportunità di insegnamento a tutti i PRGs grazie a forme di espressione di interesse (come in ogni altro sistema universitario le «giuste» connessioni informali con singoli accademici più anziani tende a essere il solo modo per ottenere la possibilità di fare seminari). Grazie allo stato di lavoratori gli studenti hanno una base più solida per negoziare le loro rivendicazioni e la giusta paga per gli studenti laureati che insegnano può ora essere riconosciuta come una normale disputa di lavoro. Lo status di «lavoratore», tuttavia, è più uno «strumento» organizzativo che uno scopo in sé e non deve essere percepito come una concessione da parte del management, come ha detto uno dei PRGs coinvolto nella campagna.

Grazie allo sciopero i datori di lavoro hanno acconsentito a riaprire le trattative sulla paga. Essendo preparati al peggio, tuttavia, tutti i sindacati hanno concordato che se non si giungesse a un accordo un nuovo sciopero nazionale avrà luogo il prossimo 3 dicembre. Nel frattempo si sta lavorando negli stretti limiti contrattuali, evitando cioè il lavoro extra che normalmente si deve fare per assolvere a tutti i doveri amministrativi e di insegnamento mentre si tiene il passo all’aspra competizione per le pubblicazioni. L’indeterminatezza del lavoro accademico è molto alta, non essendoci termini specifici in un contratto accademico di lavoro, oltre alla generale obbligazione di seguire le direttive del diretto superiore. Ciò dà allo stesso tempo maggior potere e accresce l’ambiguità alla contrattazione sul salario.

Nel frattempo, dal basso e in luoghi decentrati ci sono conversazioni su come pensare dentro e oltre lo sciopero e sulle difficoltà collegate alla breve azione dello sciopero, trovando alternative e strumento più efficaci di pressione sul management. Considerando i limiti di due o tre giorni simbolici di sciopero e il deficit dell’astensione dal lavoro in ogni lavoro legato a un servizio con una dimensione di cura (ancora per i nostri studenti!), devono essere individuati nuovi obiettivi strategici e punti di debolezza nel sistema, in modo impattare in maniera più efficace la privatizzazione del sistema universitario. Per esempio, rifiutare la debordante e degradante produzione di articoli e arrestare la crescente presenza della propaganda delle grandi aziende nei nostri campus lancerebbe un segnale chiaro contro la crescente burocratizzazione del lavoro accademico.

Se cominciamo nuovamente a vedere l’università come un luogo di lavoro al di là degli stretti interessi occupazionali di categoria, possono essere costruite nuove solidarietà e pratiche di resistenza  attorno e oltre la questione della paga, al fine di raggiungere un atteggiamento più radicale e una più potente coalizione di lotte contro la precarizzazione del lavoro universitario, per la libertà di insegnamento e per il diritto a un apprendimento libero e critico.

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