Il meticciato piace a tutti. Dalla ministra Kyenge agli antagonisti metropolitani tutti sono entusiasti del meticciato. Esso è la soluzione finalmente scoperta per andare oltre le differenze, per risarcire le sopraffazioni perpetrate nei secoli. D’altra parte, come si fa a non essere d’accordo? Come non desiderare di annullare le differenze, magari producendo un soggetto unico e nuovo che le contenga tutte. Una dialettica affascinante che non a caso già Hegel apprezzava nel suo giusto valore. Nella condizione post-coloniale il «meticciato» viene liberato dalla sua storia, diventando un annuncio del futuro: un mondo liscio in cui tutto si mescola. Il meticcio non è più il risultato spregevole di un «accoppiamento tra individui di razze diverse», posto in una gerarchia di combinazioni e sfumature che ne sanciscono il posto nel mondo come uno stigma. Il rovesciamento di senso trasforma il meticcio nel portatore naturale di una pluralità unitaria, della mixité. Questa parola è da sempre cara alla ministra Kyenge. Già prima di occupare la sua imprevista posizione sullo scranno di un governo improbabile lei aveva fatto della «società meticcia» un obiettivo da conseguire attraverso un movimento progressivo. Nella «società meticcia» risuonava allora l’eco utopico di un’armonia nella diversità che però, almeno una volta all’anno, cioè il primo marzo, non arretrava di fronte alle lotte. Oggi, in mancanza di meglio, l’eco riecheggia solo nelle interviste. Con gli scioperi del primo marzo 2010 e 2011, i migranti hanno però mostrato di non credere alle utopie preconfezionate, preferendo partire dalle condizioni di razzismo e di sfruttamento che impone loro la legge Bossi-Fini. Gli italiani che dicevano di crederci, quelli che bisogna cambiare la cultura, quelli che il razzismo è solo frutto di ignoranza, quelli che intanto però i migranti devono lavorare perché lavoriamo tutti, quelli che però ci sono delle regole che tutti devono rispettare, quelli hanno ben presto lasciato sola la ministra Kyenge di fronte agli insulti razzisti di leghisti e nazisti vari. Lentamente, ma inesorabilmente, passata l’attenzione per l’esotismo ministeriale, la mixité non fa più nemmeno notizia. Rimane solo l’immagine della prima ministra nera della Repubblica di fronte ai morti di Lampedusa, impotente di fronte alla sua stessa utopia.
Il «meticciato» però non si scoraggia per così poco. Ha sempre molto da offrire: soprattutto la capacità di stabilire una zona confinata all’interno della quale le antitesi e le contraddizioni sociali non valgono. Il meticciato è una terra franca nella quale le differenze materiali smettono di avere valore, perché conta solo la volontà politica del soggetto metropolitano unitario. Il meticciato è il miracolo dialettico grazie al quale una differenza non fa più la differenza, ma è misticamente il segno dell’unità d’azione. Lontano dagli scranni del governo, questo meticciato, il più delle volte senza meticci, diviene uno dei segni dell’assedio. Non armonia, ma conflitto; non utopia, ma potenzialità presente; non subordinazione, ma rivolta. La distanza è abissale. Vale però la pena scrutare dentro questo abisso, sapendo che lì, da qualche parte, ci siamo anche noi, sapendo che si tratta di guardare noi stessi. Noi vediamo che la ricerca dell’unità di azione non può ignorare le differenze effettive con le quali siamo costretti a fare i conti tutti i giorni. Vediamo che i migranti e i loro movimenti stabiliscono differenze che fanno materialmente la differenza, anche tra i migranti stessi. L’antitesi del meticciato non è la purezza della razza, ma la capacità di riconoscere e di far valere politicamente tutte le antitesi grazie alle quali, e non nonostante le quali si costruiscono i percorsi delle lotte. Altrimenti l’unità è sempre già data in partenza e non ammette eccezioni. Altrimenti meticciato significa lasciare da parte i migranti e i loro movimenti, incasellarli nel mondo plurale e statico delle identità o in quello segmentato delle componenti del movimento. Il rischio, allora, è di scoprire di non annunciare nulla, ma di stare solo ripetendo cose già viste.